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Le amnesie della sinistra sulla Catalunya

L’articolo di Paola lo Cascio e Andreu Mayayo, intitolato “Pep Guardiola non è una mondina“, apparso qualche giorno fa su il manifesto, non è che l’ultimo eco dell’antica tesi di molta della sinistra riformista spagnola, secondo la quale l’indipendentismo catalano sarebbe un movimento prettamente borghese.

Un ritornello che spesso è stato ripetuto anche da una parte della sinistra italiana, compresa quella radicale e che merita di essere smentito. Per sostenere la loro tesi, Lo Cascio e Mayayo si soffermano su alcuni episodi tralasciandone , modo tutt’altro che innocente: l’indipendentismo moderno, quello che rinasce attorno al 1968 sotto la sigla del Partit Socialista d’Alliberament Nacional (PSAN), viene completamente ignorato dai due storici. Ed è invece centrale per comprendere il movimento indipendentista di oggi.

Il PSAN nasce da un gruppo di giovani che escono dal Front Nacional de Catalunya, una formazione antifranchista e interclassista, per fondare un nuovo spazio politico situato inequivocabilmente a sinistra. La nuova organizzazione si ispira alle lotte di liberazione di quegli anni (che risuonano già nel nome del partito) e si ricollega al marxismo catalano sconfitto nella guerra civile e ben rappresentato dal Partit Català Proletari (uno dei partiti fondatori del PSUC).

Secondo il PSAN la lotta di classe e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia catalana: il documento di fondazione del partito afferma che “l’occupazione spagnola è lo strumento del dominio capitalista sul nostro popolo, la garanzia controrivoluzionaria e contemporaneamente il mezzo di distruzione della nostra coscienza nazionale”.

Denunciata la collaborazione di gran parte della borghesia catalana col fascismo spagnolo, il PSAN si pone l’obbiettivo di organizzare la lotta di classe e quella di liberazione nazionale, definendo i tre punti irrinunciabili del proprio programma: indipendenza, socialismo e Països Catalans.

Sono queste le coordinate di un movimento che, attraverso differenti opzioni organizzative nel corso degli anni ’70, ’80 e ’90, ha dato vita e consolidato l’esquerra independentista e in gran parte è oggi approdato alla Candidatura d’Unitat Popular, forte di un indubbio peso specifico all’interno del sistema politico catalano.

Ma di tutto ciò non c’è traccia nell’articolo della Lo Cascio e di Mayayo, che liquidano l’indipendentismo dei decenni del dopoguerra come “assolutamente marginale”.

L’amnesia interessata dei due storici non sorprende: l’indipendentismo riunito intorno al PSAN fa una critica spietata della costituzione spagnola e rappresenta l’unica area politica che, assieme alla sinistra abertzale basca, si oppone al patto del 1978. Niente di più lontano dalle posizioni della borghesia catalana e spagnola.

Il fatto che la costituzione venga largamente approvata in Catalunya segnala le difficoltà di radicamento dell’indipendentismo, ma non ne cancella la posizione critica. Ma c’è di più. Ben diversamente dalla Costituzione italiana, nella quale è evidente il portato della lotta partigiana, quella spagnola risente del ricatto dei militari e rappresenta il frutto dell’autoriforma del regime, un accordo al ribasso accettato non solo dal PSOE ma anche dal PCE.

Un accordo che, assieme ai patti della Moncloa dell’anno precedente, certifica la rinuncia della sinistra statale al cambiamento sociale, nel quale vasti settori avevano sperato al momento della morte di Franco.

Davanti al ripiegamento della sinistra statale, il PSAN e altre formazioni della sinistra catalana danno vita invece al Comitè català contra la constitució espanyola, attestandosi su una posizione che è condivisa anche dalla sinistra abertzale e che rappresenta un punto di resistenza al progetto di stabilizzazione capitalista. L’organo del partito, il giornale Lluita, denuncia il patto costituzionale per il suo “carattere continuista, antioperaio e anticatalano” e per la consacrazione delle forme di sfruttamento del capitalismo monopolista … in totale antagonismo agli interessi dei lavoratori”. 

Si comprende che per sostenere la loro tesi, Lo Cascio e Mayayo preferiscano sorvolare su questi argomenti. La denuncia della transizione spagnola come un processo nel corso del quale le elites del franchismo vengono traghettate nel nuovo regime senza pagare alcun serio costo politico, è da attribuirsi prima di tutto all’esquerra independentista. Una denuncia ancora minoritaria nel 1978 ma oggi straordinariamente diffusa nella società catalana. Impegnati a dimostrare il supposto carattere borghese dell’indipendentismo,

Lo Cascio e Mayayo preferiscono dilungarsi su Pep Guardiola e Gerard Piqué, nell’intento di ridurre a una macchietta il movimento indipendentista.

Come molta sinistra italiana, i due storici sembrano conservare una visione mitica della Spagna: se le Brigate Internazionali (a cui fanno riferimento nel loro articolo) rappresentano uno dei punti più alti del movimento operaio del ‘900, non gli si rende un buon servizio usandole per farsi scudo dalla realtà dei decenni successivi e di oggi.

E nella odierna realtà catalana la contraddizione nazionale rappresenta una leva straordinaria sulla quale agire per mettere in discussione la catena imperialista che lega Barcelona a Madrid e ai centri di potere politico e finanziario dell’Unione Europea. Un’opportunità di cambiamento per Catalunya, per la Spagna e per tutto il continente.

Lo scetticismo, quando non l’aperta contrarietà, verso il movimento indipendentista e il diritto all’autodeterminazione (da esercitare con o senza il permesso del governo di Madrid), finisce per tradursi in sostegno al nazionalismo dello stato spagnolo e al progetto del grande capitale. Finisce per tradursi in un internazionalismo a geometria variabile, tanto più convinto quanto più lontano è il popolo con cui si è solidali, dalla dubbia se non opportunistica natura.

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2 Commenti


  • DANIELE PATELLI

    Anche se qualcuno dice che il Manifesto va rispettato per me va chiuso.


  • Simone

    Articolo interessante. Sono d’accordo

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