Il 12 dicembre si svolgeranno le elezioni in Gran Bretagna.
Da un lato, Boris Johnson sta giocando la campagna elettorale incentrandola sull’accordo che l’ex-primo ministro conservatore è stato in grado di raggiungere con i 27 dell’Unione Europea, prima dell’indizione delle snap elections il 29 ottobre; dall’altro, Jeremy Corbyn si è focalizzato su un vasto programma di riforme sociali avanzate, esposte organicamente nel Manifesto del Labour: “It’s Time for Real Change”, presentato giovedì di questa settimana alla Birmingham City University.
Come riporta The Guardian, Corbyn, durante la presentazione, l’avrebbe definito: “un manifesto pieno di politiche popolari che l’establishment politico ha bloccato per una generazione”. Un programma più radicale di quello presentato alle elezioni del 2017, volute da Cameron dopo il voto sulla Brexit ed in cui i tories persero la maggioranza, governando poi con Theresa May fino all’avvento di “BO JO” grazie ai voti degli “unionisti” nord-irlandesi.
Il Manifesto comprende un vasto programma di nazionalizzazioni: ferrovie, comparto energetico e delle comunicazioni, così come l’acqua e le poste, è centrato su un incremento della spesa pubblica in investimenti produttivi – per esempio con la creazione di una azienda farmaceutica statale e di un banca statale d’investimento – e soprattutto in welfare, dalla sanità all’istruzione (anche per gli adulti), e il ritorno all’università gratuita.
Articola il progetto di un transizione ecologica radicale – pagata attraverso un fondo ricavato dalla tassazione delle industrie inquinanti – per affrontare l’emergenza climatica, propone una riforma tributaria in senso progressista che colpisca l’élite economica autoctona o “straniera”, tra cui Amazon; parla di partecipazione dei lavoratori ai consigli d’amministrazione, di una radicale riduzione dell’orario a parità di salario, dell’introduzione di un salario minimo orario di 10 Sterline, di una parificazione effettiva tra le retribuzioni femminili e quelle maschili, della ripresa in carico da parte dello Stato della collettività con la creazione di 1000 nuovi Sure State centres, ecc.
L’accesso gratuito alla Rete Informatica, ovvero la “Free Broadband for all” – per esempio – verrebbe finanziata con le tasse alle multinazionali del settore tecnologico e con la parziale ri-nazionalizzazione della British Telecom…
Per dare un’idea di come il tema dell’incremento della spesa pubblica sia al centro della campagna – anche per gli stessi Conservatori – riportiamo i dati forniti dall’IFS (Institute for Fiscal Study), un organismo indipendente che ha valutato in 55 miliardi di Sterline, cioè 64 miliardi di Euro, le spese d’investimento previste dal partito Laburista, contro i 20 miliardi dei Tories, che puntano la propria narrazione riguardo ai temi sociali solo sulla riduzione delle tasse per i salari più bassi e la promessa di costruire un milione di case nei prossimi cinque anni. Mentre il Labour parla nel Manifesto di edificare 150.000 alloggi sociali l’anno, a basso costo ma “ad alta qualità di risparmio energetico”.
Un aumento significativo, considerato che l’anno scorso ne sono state costruite solo 6.287, come riporta The Morning Star.
Sia in casa laburista che, paradossalmente, in quella conservatrice, sono le politiche di “austerità” ad essere sconfessate. Una netta inversione di tendenza rispetto all’egemonia neo-liberale che, con Margaret Thatcher prima e Tony Blair poi, si era radicata nel quadro complessivo della rappresentanza politica britannica. Segno anche di quanto forte sia ormai il malessere sociale per le condizioni di vita e salariali.
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Sempre nella settimana appena trascorsa, il primo dibattito televisivo svoltosi martedì sera tra i due leader ha “riproposto” questo tipo di schema, con una particolare rilevanza data da Corbyn alla difesa e potenziamento della NHS, il sistema sanitario nazionale pubblico, oggetto di grandi tagli da parte di Conservatori e che fa molta gola soprattutto ai grandi gruppi della white economy statunitense.
Quello della sanità pubblica è uno dei punti dirimenti dei laburisti, che accusano i tories di volere svendere questo gioiello britannico al settore privato nord-americano, all’interno della possibile stipula di un accordo di libero scambio successivo alla Brexit.
Secondo le stime sono “vacanti” 100.000 posti nella sanità pubblica e mancano 43.000 infermieri, come riporta The Morning Star.
Un articolo del 20 novembre di Jim Stone, dell’Indipendent, dal significativo titolo “NHS overtakes Brexit as voters’ top priority for election, poll finds”, viene citato un sondaggio effettuato tra il 15 e il 18 novembre, in cui proprio il sistema sanitario nazionale britannico risulta in cima alle preoccupazioni dell’elettorato con un buon 60%; una percentuale superiore del 6% rispetto allo stesso sondaggio condotto tra l’8 e 11 d’ottobre.
Non è un caso che in una rilevazione di YouGov tra gli “indecisi” rispetto all’opzione di voto, effettuata dopo la tribuna elettorale televisiva, ha dato un notevole vantaggio a Corbyn rispetto a Johnson: 59 contro 41 per cento.
Mentre il leader del “Brexit Party” Nigel Farage, vero vincitore delle elezioni europee della scorsa estate – come caldeggiato da Trump – ha scelto di non presentare dei propri candidati nelle circoscrizioni papabili per i conservatori, di fatto andando a contendere solo i seggi laburisti in un sistema uninominale secco come quello britannico, i LiberalDemocratici hanno deciso di giocare la partita come i più accesi promotori di un secondo referendum sulla Brexit, e di collocarsi quindi come capofila dei remainers, cui si allineano su questo tema lo Scottish National Party ed i Verdi britannici, che rischiano di fare da “utili idioti” per Johnson; mentre il Partito Comunista Britannico sostiene calorosamente la politica del Labour.
L’equazione più difficile per Jeremy Corbyn è proprio quella sulla Brexit, visto che la propria base elettorale ha votato massicciamente per il leave nel giugno del 2016, andando contro l’indicazione di voto del partito – Corbyn è un euroscettico di lungo corso, che a malincuore si è espresso per il remain – e i membri dell’organizzazione, divisi su questa opzione, con una strana accoppiata tra i remainers laburisti (che mettono insieme la “destra” del partito, cioè il ceto politico residuale del “New Labour” di Tony Blair, e “l’ultra-sinistra” che supporta il Labour anche in questa difficile campagna elettorale).
Recentemente da parte del Partito Laburista, sia in Scozia – dove i remain aveva ottenuto il 62% dei voti – che in Galles, è stata ribadita la libertà di fare campagna contro la Brexit in un eventuale secondo referendum …
Richard Leonard, leader dei laburisti scozzesi, terzo partito dietro SNP e i Tories, ha giustamente dichiarato: “con un governo laburista radicale pensiamo che le ragioni in favore dell’indipendenza saranno erose e verranno eclissate”, riferendosi alla questione di un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia, uno dei temi caldi agitato dal SNP in questa campagna elettorale.
La quadratura del cerchio tra i differenti punti di vista sulla Brexit e le differenti compagini locali è stata probabilmente trovata concentrandosi su un vasto programma di riforme sociali, il cui l’architetto è un altro storico outsider della sinistra laburista, come Jeremy Corbyn: il “Cancelliere ombra” originario di Liverpool, John McDonnel.
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Sulla politica estera, il programma e le reiterate prese di posizione di Corbyn – oggetto di una oscena campagna della lobby sionista – parlano chiaro. E questa settimana il leader laburista ha ribadito tra l’altro che le colonie israeliane – riconosciute da Trump, dopo Gerusalemme capitale dello Stato Ebraico – sono una “violazione flagrante” della legge internazionale.
Da sottolineare come il Labour, in caso di vittoria elettorale, metterà fine al commercio di armi in direzione dell’Arabia Saudita per la guerra in Yemen (la Gran Bretagna è uno dei maggiori fornitori), così come verso Israele.
Per ciò che concerne la Palestina si tratta di un successo delle numerose campagne della sezione locale del BDS, che trovano concretizzazione nelle risoluzioni a riguardo degli ultimi due Congressi, quest’anno come l’anno precedente; anche se l’impostazione sulla questione continua ad avere dei limiti, costituisce comunque una delle più avanzate posizioni della sinistra radicale che abbia un’espressione parlamentare sul Continente.
È da ricordare che Corbyn, fedele alle sue posizioni di difesa della “rivoluzione bolivariana”, da vecchio internazionalista qual è ha preso posizione contro il Colpo di Stato in Bolivia…
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La campagna elettorale si sta giocando inoltre sull’asimmetria tra l’appeal esercitato dal Labour sulle giovani generazioni – cui ha dedicato una parte importante del proprio Manifesto – e quella “non esercitata” dai Conservatori.
Come ha detto il 20 novembre Tariq Ali, in una intervista su The Jacobin a cura di Suzi Weissman:
“Il Labour ora ha una ben organizzato, e ben addestrato team di volontari per la campagna elettorale – per la maggior parte giovani – che stanno aggredendo i seggi marginali. Al contrario, i tories, la cui età media degli aderenti è ora oltre i sessanta, non hanno praticamente alcun giovane tra le loro fila e devo affittare un’azienda per la loro campagna. Hanno privatizzato le elezioni.”
Oltre che sui seggi marginali, vinti per una manciata di voti le scorse elezioni e ora al centro della campagna a tappeto della macchina elettorale laburista, supportata da “Momentum”, una grossa partita viene giocata sulla registrazione al voto degli aventi diritto; attività su cui il Labour ha investito molto, promuovendo una campagna coronata dal successo.
Lo scorso venerdì si sono registrate nel giorno scelto per questa campagna più di 300.000 persone, tra cui 200.000 cittadini sotto i 35 anni. Un trend che i laburisti sperano di conservare fino all’ultimo giorno valido, il 26 novembre, per ricreare quel “youthquake” – cioè quel terremoto giovanile che ha segnato le votazioni del 2017 – e far andare a iscriversi quella persona su sei che, secondo le stime, manca ancora all’appello.
Un video di Owen Jones – “You have the power to change it all, but you have to vote” – divenuto virale, mostra le ragioni per andare a votare: dallo strapotere dei proprietari di case nei confronti degli inquilini al collasso del sistema sanitario, dalla situazione dei pensionati all’emergenza climatica… “Perché se no la vostra voce sarà silenziata, mentre è necessario che sia ascoltata più alta che mai.”
Non sappiamo quale sarà l’esito che uscirà dalle urne. Da un po’ di tempo a questa parte sappiamo che gli strumenti di previsione elettorali classici, come i sondaggi, possono trasformarsi in “bussole impazzite”. Quel che è certo è che ci troviamo di fronte ad una campagna dai toni inediti, con Johnson che – alla sua prima uscita – ha paragonato Corbyn a Stalin; o la stampa reazionaria britannica che ha parlato, dopo la presentazione del Manifesto, di “agenda marxista nascosta”…
Non sappiamo se le “campane a morte” per il neo-liberalismo suoneranno per prime nella “Perfida Albione”, con la vittoria dei laburisti, né se questi, in caso di successo elettorale, manterranno in tutto o in parte l’agenda politica che hanno fin qui costruito.
Da un articolo del quotidiano comunista britannico, che abbiamo più volte citato, scritto da Amy Addison-Dunne, rubiamo la valutazione del Manifesto:
“In questo manifesto c’è qualcosa per tutti. Il Labour vuole democratizzare, ricostruire e rivoluzionare la nostra società. (…) Non sorprende che i miliardari si stiano spaventando.”
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