Riprende in maniera prorompente l’offensiva dell’esercito siriano nella provincia di Idlib. Si ricorda che è da metà 2017 che questo fronte della guerra in Siria è sostanzialmente congelato, a parte un paio di stop and go. In conseguenza degli accordi scaturiti dall’ormai famoso “formato di Astana”, ovvero le trattative diplomatiche internazionali condotte da Russia, Turchia e Iran per cercare di stabilizzare la situazione fra lo stato siriano e le varie opposizioni integraliste sunnite, la provincia di Idlib, nella quale sono stati concentrati tutti i miliziani, assieme alle loro famiglie, usciti sconfitti da altri fronti, avrebbe dovuto costituire una zona de-escalation.
In pratica, le milizie filo-turche avrebbero dovuto separarsi dai gruppi qaedisti (in primis Hayat Tahrir al-Sham) considerati terroristi, e ottenere legittimità per partecipare alla riscrittura della Costituzione, una volta sconfitti questi ultimi.
In realtà, sia per l’affinità ideologica, sia per i comuni appoggi internazionali, sia per i rapporti di forza militari, molto sbilanciato a favore dei qaedisti, l’esercito Nazionale Siriano (ultimo brand di cui si sono dotati i proxy turchi) e Hayat Tahrir al-Sham hanno sempre condiviso la stessa struttura amministrativa ed economica nella provincia e hanno dovuto agire anche militarmente in maniera coordinata (pena l’annichilimento dei filo-turchi).
A causa della sostanziale convergenza raggiunta fra Russia e Turchia per provare a limitare l’influenza di USA e UE sullo scenario siriano, l’esercito di Damasco ha quasi sempre dovuto mordere il freno rispetto sul fronte di Idlib (e non solo), non potendo sfruttare la forte supremazia militare. Anzi, i miliziani sunniti hanno utilizzato la situazione per riorganizzarsi, finanziarsi in maniera parassitaria ai danni della popolazione locale e tenere continuamente sotto pressione le truppe governative, senza che queste potessero rispondere utilizzando tutto il loro potenziale.
Di contro, l’effetto positivo è che vi è stata una diminuzione sostanziale della violenza rispetto ad una situazione di battaglia aperta.
Ebbene, tale equilibrio, nei giorni scorsi, è improvvisamente saltato, senza che né le forze belligeranti sul campo, né i rispettivi alleati internazionali facessero precedere la ripresa della battaglia con la solita escalation verbale del caso.
Eppure, in 4 giorni di offensiva, guidata dai reparti di élite delle Forze Tigre, l’esercito siriano ha riguadagnato il controllo su un numero di centri urbani stimato fra i 20 e i 30, mostrando una superiorità militare ancora maggiore rispetto alle escalation precedenti. Anche l’aviazione russa, che aveva quasi azzerato la propria attività, ha ripreso ad agire e un punto di osservazione dell’esercito turco, fra quelli a stabiliti a garantire l’attuazione degli accordi di Astana, risulta accerchiato.
Parallelamente, cellule dell’Isis ancora attive nel deserto, hanno rivendicato un attacco con droni che ha azzerato l’estrazione di gas e petrolio in alcuni giacimenti nell’area di Homs. Il Governo Siriano ha denunciato che l’azione è stato troppo sofisticata e precisa per essere esclusivamente opera delle poche centinaia di miliziani dell’ex-califfato, accusando di fatto gli USA di averla supportata.
Immancabile, inoltre, il raid israeliano nell’area di Damasco; stavolta, tuttavia, non pare vi siano stati danni rilevanti nelle due esplosioni segnalate, mentre la maggior parte dei missili sarebbe stata intercettata.
Per capire i motivi di questi sviluppi non bisogna farsi sfuggire la coincidenza temporale con le parallele accelerazioni in atto in Libia: su quest’ultimo scenario, infatti, la Turchia ha firmato un accordo con il governo Serraj, guidato dalla Fratellanza Musulmana, che le consente di intervenire militarmente in maniera diretta; non solo fornendo armi e uomini nell’ambito della battaglia di Tripoli in corso di svolgimento, ma anche nei pattugliamenti in mare (cosa che porta, fra l’altro, a potenziali interferenze con le attività di Italia e Grecia tese a bloccare l’immigrazione).
La Russia, invece, seppure in maniera più defilata, da tempo sostiene le milizie guidate da Khalifa Haftar, che oramai sono attestate alle porte della capitale e sono prossime a tentare l’assalto decisivo per defenestrare il governo Serraj.
Pertanto, la ripresa dell’offensiva siriana nella provincia di Idlib può essere vista come un contraltare rispetto alla ripresa delle ambizioni sub-imperialiste di ispirazione neo-ottomana della Turchia, con Mosca che, dopo aver dovuto in qualche modo accettare e dare copertura diplomatica agli interventi nelle zone di Afrin e del nord-est della Siria, non vuole più concedere altro respiro all’alleato/rivale.
L’assenza pressoché totale di dichiarazioni ufficiali, comunque, indica che le negoziazioni dietro le quinte fremono. Il 23 dicembre vi è stato contatto fra funzionari ad alto livello di Russia e Turchia per discutere di ambedue gli scenari, quello siriano e quello libico.
L’esito di questi contatti potrebbe decidere l’esito, almeno relativamente a questo momento, di entrambe le battaglie, quella di Tripoli e quella di Idlib: ci potrebbe essere un via libera reciproco, oppure un compromesso su entrambi gli scenari, oppure il permanere delle divergenze.
Nel mentre, l’esercito di Damasco cerca ovviamente, di guadagnare più terreno possibile per rendere palese lo squilibrio delle forze in campo; ciò, infatti, contribuisce a creare le condizioni affinché, attraverso i negoziati o per via militare, l’intera provincia di Idlib e tutte le aree nelle mani dei proxy della Turchia rientrino prima o poi sotto il proprio controllo.
A latere, è opportuno rimarcare che un’eventuale afflusso di miliziani jihadisti in aiuto dei commilitoni attivi a Idlib potrebbe mettere in discussione anche lo status quo stabilitosi nelle aree che in precedenza componevano il Rojava, ovvero Afrin e il nord-est. Pertanto, le Ypg e anche le truppe USA stanziate a est dell’Eufrate sono spettatori interessati.
Dal punto di vista mediatico-occidentale, è ovviamente ripreso il martellamento nei confronti dell’esercito siriano in relazione a quest’offensiva. Tuttavia, gli attori che lo stanno mettendo in scena (media occidentali in collaborazione con ong e “fonti sul campo” vicine ai miliziani jihadisti) non hanno più alcuna credibilità per essere presi in considerazione.
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