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Gli Usa ammazzano il generale iraniano Soleimani

In una operazione che si è svolta questa notte gli Stati Uniti, su ordine diretto di Donald Trump, hanno ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani. L’attacco è stato effettuato in Iraq, nei pressi dell’aereoporto di Baghdad. Alcuni missili – forse lanciati da un elicottero, forse da alcuni droni – hanno centrato un convoglio di automobili: a bordo, alcuni leader delle Pmu – le Forze di mobilitazione popolare irachene – e due “ospiti iraniani”.

L‘identità delle vittime, e sopratutto di quelli che erano gli obiettivi dell’azione, sono state presto rivelate e confermate: dalla Tv irakena prima, dal Pentagono e da Teheran poi.

L’operazione degli Stati Uniti era diretta ad eliminare due persone soprattutto: Abu Mahdi al-Muhandis, tra i leader delle Pmu, e Qassem Soleimani. L’azione degli americani è stata presentata come la risposta all’assalto di qualche giorno fa all’ambasciata Usa di Baghdad, almeno ufficialmente.

In realtà, è l’ennesimo passo in avanti di una escalation di tensione che rischia di sfociare in una guerra. La guerra che sembra proprio che Trump voglia fare all’Iran, con somma gioia – eventualmente – di Israele.

Certamente il passaggio di oggi è di quelli che la storia potrebbe valutare come decisivi: la figura di Solemaini è una di quelle più influenti nel Medio Oriente degli ultimi venti anni. Era il capo delle milizie Qods, il corpo d’elite delle Guardie della Rivoluzione islamica: è, per dirla in breve, l’unità militare che si occupa delle operazioni all’estero. Intelligence, ad altissimo livello.

C’è Soleimani dietro la resistenza irachena contro l’occupazione degli Stati Uniti. C’è Soleimani dietro la resistenza degli Hezbollah contro Israele. C’è Soleimani – insieme alla Russia – dietro Assad ed il fatto che non abbia fatto la fine di Gheddafi.

Il generale ha grandemente contribuito alla sconfitta dello Stato Islamico in Iraq, collaborando con gli Stati Uniti che oggi lo hanno fatto fuori. Era un punto di riferimento anche per l’attuale governo irakeno, con cui aveva lavorato negli ultimi mesi, aiutandolo a reprimere le rivolte sociali esplose in diverse aree del paese. Era considerato, a tutti gli effetti, il braccio destro dell’ayatollah Ali Khamenei.

Una operazione statunitense in risposta all’assalto all’ambasciata era nell’aria. L’avevano in qualche modo annunciata le parole del Segretario alla Difesa Mark Esper: “azioni preventive” che sarebbero state messe in campo qualora gli Usa avessero rilevato “altri comportamenti offensivi da parte di questi gruppi, che sono tutti sostenuti, diretti e finanziati dall’Iran”. 

Il riferimento era per le Forze di mobilitazione popolare irachene, ritenute all’origine della forte protesta sfociata nell’assalto all’ambasciata americana. La protesta nasceva, è utile tenerlo a mente, da un’altra operazione made in Usa: l’attacco nei confronti di almeno cinque basi di milizie sciite tra Siria ed Iraq.

Ovviamente forte è stata la reazione iraniana: anche perchè la leadership di Teheran è messa in discussione dalle proteste interne, e la perdita di Soleimani è oggettivamente grave. “L’atto di terrorismo internazionale degli Usa con l’assassinio di Soleimani, la forza più efficace nel combattere il Daesh, Al Nusrah e Al Qaeda, è pericolosa, una folle escalation. Washington si assumerà la responsabilità di questo avventurismo disonesto”. L’Ayatollah Khamenei ha già annuciato vendetta.

Nota a margine: da non sottovalutare il fatto che Trump sia sotto impeachement. Creare caos all’estero è, comunque, sempre un ottimo metodo per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica. E non è un caso che i democratici, Biden in testa, abbiamo contestato con forza l’operazione di questa notte.

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