Uno spettro si aggira oggi per il mondo. Il Coronavirus cinese che, seppur non ancora riconosciuto come emergenza sanitaria mondiale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, sembra diffondersi nei vari continenti. Ridotti i festeggiamenti per il nuovo anno, una quarantina di milioni di cittadini in isolamento, 81 persone che hanno perso la vita e almeno 2000 quelle contagiate.
Tutto ciò in Cina dove, in meno di una settimana, sarà ultimato un ospedale specialistico nel cuore della zona maggiormente colpita dal virus, a Wuhan. I primi casi di infezione di questo virus, probabilmente dovuto a commistioni virali tra pipistrelli e serpenti, che ha attaccato l’apparato respiratorio degli umani. Casi di infezione sono stati registrati anche a Hong kong, Macao, Taiwan, Usa, Giappone, Thainlandia, Corea del Sud e Francia. Del Sahel, per ora non si parla, qui abbiamo già i nostri virus e la sabbia, è risaputo, è un ottimo deterrente.
Ci sono virus di fabbricazione locale ed altri importati grazie anche alla dominazione del neoliberalismo imperante nel mondo. Per esempio l’infezione che ogni anno si conferma a Davos, in Svizzera, dove nell’assoluta impunità si fa di tutto per trasmettere il virus di un’economia che produce una politica di esclusione deliberata dei poveri.
Nessun cordone sanitario, nessuna quarantena che blocchi il virus pernicioso dello sfruttamento capitalista che con la sua strategia di estrazione e di spossesso rende superflue milioni di persone. Invece di isolare le poche migliaia di persone che da sole, come ricorda il recente rapporto di OXFAM, accaparrano oltre la metà delle risorse mondiali, i grandi accorrono per continuare a contaminare, senza nessuna tutela, le idee e le pratiche che reggono il mondo.
Al contrario, questa epidemia perniciosa si trasforma in malattia cronica alla quale il corpo sociale si è assuefatto.
I virus, nome derivato dal latino dotto che significa ‘veleno’, possono infettare tutti i tipi di forma di vita e si presentano come parassiti perché si sviluppano solo all’interno delle cellule di altri organismi. Fu così che il paradossale virus del neocolonialismo continuò a propagarsi in tutta impunità attraverso politiche di aggiustamento strutturale. La graduale e coerente riconquista di spazi e risorse indispensabili al mantenimento del sistema ha gradualmente espropriato la sovrana dignità di intere popolazioni del Sud del mondo.
Le istituzioni globali come le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e gli aiuti allo sviluppo hanno permesso all’infezione virale di propagarsi e di intaccare forse irrimediabilmente i tessuti sociali. Ed è questo il processo che, inosservato, ha permesso e facilitato la liquidazione delle forme di resistenza democratica nate come insurrezioni popolari.
Sono le ‘cellule’ dei legami umani che, espressione di culture, religioni, politiche e dunque forme di vita, sono state infettate e gradualmente svuotate di ciò che costituiva la loro originalità. Senza colpo ferire, le grandi epidemie di individualismo indifferente, di centralità del consumismo come stile di pensiero e dell’espulsione del mistero nelle narrazioni quotidiane, hanno mortalmente colpito il senso della vita.
Era questa l’epidemia che i più attenti pensatori, uno tra tutti Ivan Illic, avevano con lucidità diagnosticata. Essi proposero la convivialità, il buon vivere, i legami che liberano, come terapia che si oppone al contagio. La corsa al potere, al successo facile, alla mercificazione inscindibile dei corpi e delle parole che si esprime nella violenza delle armi e delle guerre, sono i meri sintomi di questa malattia mortale chiamata falsificazione. Anche i bambini, nella loro nuova e ingenua esistenza sono preda degli imprenditori di virus.
Malgrado i sempre più numerosi cinesi, noi precari abitanti del Sahel, non corriamo alcun rischio di contaminazione del citato Coronavirus. Ci basta la meningite, la malaria, le scadenze rinnovabili dei mandati presidenziali, i gruppi armati terroristi, il libero mercato unico africano, la compravendita dei migranti e dei rifugiati, le carestie e infine le inondazioni quando piove.
Siamo a prova di destino e, soprattutto, abbiamo imparato dalla sabbia e dal suo dio, che non c’è nulla che duri per sempre. Ci contentiamo di poco e crediamo nella vita. Sappiamo che domani sorgerà un nuovo giorno, sfuggito ai cordoni sanitari.
Niamey, gennaio 2020
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