Villaggi martellati dai tiri di mortaio e di artiglierie pesanti: quelle stesse che, in base agli accordi di Minsk, almeno da tre anni avrebbero dovuto essere portate indietro dal fronte di una decina di chilometri; cittadine private dell’elettricità (e dunque anche dell’acqua potabile, per l’interruzione dell’energia necessaria alle pompe di sollevamento).
Miliziani delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk che continuano a morire, praticamente ogni giorni, sotto i bombardamenti ucraini. Truppe di Kiev che continuano, come per il passato, a posizionare mezzi blindati e corazzati a ridosso delle abitazioni civili nelle aree del Donbass (ad esempio: nei villaggi di Papasnaja, Trëkhizbenka, Rajgorodki) sotto controllo ucraino, così che le milizie non possano rispondere al fuoco, pena il pericolo di colpire la popolazione civile.
Convogli ferroviari carichi di mezzi corazzati ucraini che continuano a essere spediti verso le zone di combattimento; abitanti dei villaggi di DNR e LNR prossimi alla linea del fronte che, come per il passato, lamentano “Come sparavano prima, così continuano a sparare; non sappiamo più dove rifugiarci”, ha detto, ad esempio, al corrispondente di news-front un’anziana di Staromikhajlovka, nel distretto di Marijnka della DNR.
È questa la situazione in Donbass, a quasi sei anni dall’inizio dell’aggressione dei nazi-golpisti di Kiev.
Intanto i cosiddetti “volontari”, le milizie neonaziste che combattono dalla parte di Kiev e che, nominalmente, sembravano dover essere ritirate dal fronte già da qualche anno, per togliere dai riflettori i loro crimini contro i civili del Donbass, si preparano in realtà a ricorrere a metodi propri dei loro passati “eroi”, in caso di sfondamento del fronte.
Tra tali “volontari”, c’era anche Vytalij Markov, condannato in Italia per l’assassinio di Andrea Rochelli e dell’interprete Andrej Mironov, nel maggio 2014, nell’area di Slavjansk, di cui, per l’ennesima volta, Kiev chiede all’Italia la scarcerazione.
Lo ha fatto, questa volta, direttamente il presidente ucraino Vladimir Zelenskij, incontrando il 7 febbraio a Roma il presidente del consiglio Giuseppe Conte e aggiungendo anche la richiesta all’Italia di chiudere le tre rappresentanze del Donbass (non entriamo nel merito della composizione di tali rappresentanze) di Torino, Verona e Messina. Il ritornello è ormai conosciuto.
Chi invece dice qualcosa di (molto apparentemente) diverso è Donald Trump, che già più di una volta – almeno 6, secondo “BuzzFed” – avrebbe bloccato l’invio di armi americane, anche già pagate da Kiev, all’Ucraina, per per circa 400 milioni di dollari.
L’ultimo caso di cui si ha notizia riguarda una partita di armi e munizionamento per una trentina di milioni di dollari, già pagati, e di cui Kiev chiede ora la restituzione. Niente di “filo-Donbass” da parte dell’amministrazione yankee: molto più prosaicamente, secondo news-front, si tratterebbe di una delle solite ritorsioni trumpiane, nella guerra commerciale USA-Cina, per il fatto che Pechino sarebbe interessata all’acquisto dell’impresa aeronautica ucraina “Motor Sič”.
Sono d’altra parte le milizie del Donbass, impegnate nell’area di Mariupol, a lanciare un appello per l’aiuto ad acquistare i piccoli periscopi da trincea TR-8 e TR-9, fondamentali per non esporsi al fuoco nemico.
Ci pensa in ogni caso un vecchio arnese dell’epoca post-sovietica a stelle e strisce e della più nuova Ucraina golpista del dopo-majdan, a profetizzare il reale destino ucraino. L’ex presidente georgiano, ex governatore di Odessa, ex apolide in fuga tra le capitali di mezza Europa, dopo essere entrato in conflitto (per romantiche questioni di … interesse) con i più forti oligarchi golpisti, quel Mikhail Saakašvili tutt’oggi ricercato in Georgia per vari crimini (i meno gravi: concorso in omicidio e appropriazione indebita) che è ricomparso nei giorni scorsi per “profetizzare” che ben presto l’Ucraina si sgretolerà in cinque diversi stati.
In un’intervista al canale “112 Ucraina”, Saakašvili ha detto che vari Governatori regionali stanno già preparando il terreno (milizie regionali e personali) per venire a capo, ognuno per proprio conto, della profonda crisi in cui il paese sarebbe entrato a causa delle politiche del nuovo presidente Zelenskij.
Se l’ha detto lui, ci si potrebbe anche credere. Se non fosse per il fatto che, come ha dimostrato anche l’ultimo tour euro-asiatico del Segretario di Stato USA Mike Pompeo, gli USA sono interessati a un’Ucraina (e anche a una Bielorussia, a un Kazakhstan, un Uzbekistan, ecc.) che garantisca gli interessi yankee ai confini con la Russia. Dunque, uno spezzettamento feudale di satrapi in guerra l’uno con l’altro, non fanno certamente al caso.
“Gli Stati Uniti difendono la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Continuiamo a sostenere l’Ucraina nell’adesione alla NATO e nell’avvicinarsi all’Unione europea“, aveva detto Pompeo, sottolineando anche il fatto che Washington, solo dal gennaio 2017 a oggi, ha fornito all’Ucraina oltre 1 miliardo di dollari di aiuti “per la difesa”.
E, si sa, i padroni sanno fare molto bene i conti in tasca ai propri dipendenti e non vogliono che essi scialacquino i denari così “generosamente elargiti” a uno scopo ben preciso, in miserevoli dispute tra vassalli.
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