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Il giorno che l’Europa contaminò l’Africa

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La compagnia telefonica ho. invia questo tipo di messaggi nel Niger, dopo il cambiamento di cellulare e di alleanza telefonica. Messaggi che non contaminano più di tanto, se non l’etere attraversato da milioni di inutilità di questo genere, non pericolosi come il virus che invece esportiamo, nostro malgrado, in quell’Africa ritenuta la patria delle grandi malattie infettive contemporanee. Finora relativamente risparmiata dall’ormai temuto e giudicato inesorabile, ‘coronavirus’, l’Africa è stata toccata, alla data del presente scritto, da tre persone infette.

La prima, di cui il nome del portatore non è stato rivelato, si trova in Egitto, la seconda, di origine e nazionalità italiana, in Algeria e la più recente, ancora italiana, in Nigeria. Contaminazioni ‘occidentali’ che toccano il nostro continente che i più considerano alla deriva, da parte di persone tornate in Africa per motivi di lavoro. Una prova in più che la storia del mondo non è solo nella lotta di classe, come recitava il Manifesto di Marx e Engels, è soprattutto una storia di contaminazioni.

Fin dalla ‘scoperta’ delle Indie, o credute tali, da Cristoforo Colombo, e delle seguenti esportazioni di malattie occidentali, che decimarono le popolazioni indigene, le contaminazioni costituiscono il tratto marcante di ogni transito umano. Quelle coloniali, post e neo coloniali sono particolarmente insidiose perché colpiscono i centri dell’immaginario simbolico che l’epoca schiavista aveva già profondamente ferito. L’autostima, così necessaria per ridefinire la propria identità, è stato l’elemento più colpito e, reso fragile dall’essere stati commerciati come oggetti, ha finito per interiorizzarne il distruttivo messaggio virale.

La contaminazione ha col tempo assunto nuove forme e si è trasformata in una visione del mondo nel quale il tentativo del controllo di tutto e di tutti appare come ‘il’ sistema di governo politico. Fu dunque così che i tentativi liberi o forzati di mobilità umana si intesero come una sorta di malattia dalla quale difendersi con ogni mezzo lecito o illecito. La teoria che il fine giustifica i mezzi venne applicata grazie alla falsificazione del linguaggio che, manipolando la realtà, trasformò le persone più vulnerabili in pericolosi portatori di novità. Essendo questa troppo prossima della vita reale si tentò di immunizzarle.

Vista da lontano, da quel convulso Sahel che ha imparato a fare la differenza tra l’essenziale e l’effimero, quanto accade in Europa e nel Mondo, a cominciare dalla Cina che lo ha invaso di ‘cineserie’, tutto appare confezionato dal materiale che qui da noi abbonda: la sabbia. Sabbiose ci sembrano le misure di sicurezza per chi, da tempo, ha paura di vivere la vita come rischiosa avventura di senso e che troppo in fretta ha barattato il consumo con i simboli e i legami costitutivi della libertà.

Solo la sabbia, struttura portante della politica e dell’economia, e dunque del tutto friabile, fornisce la migliore chiave di lettura e interpretazione della paura che, testimone fedele dell’Occidente, ne accompagna i momenti critici. L’immaginario che si pensava sepolto nella sabbia delle medioevali cacce alle streghe, riaffiora con rinnovata vitalità con un nome dal sapore allusivamente monarchico. Il ‘coronavirus’, poi pudicamente battezzato ‘Covid-19’, è come sabbia che il vento disperde nei media, nelle foto e nei contaminati che, in tempo reale, trovano uno spazio pubblicitario adeguato e proporzionale alla loro età. Di questo la sabbia sorride, lei che, da tempo ha preso coscienza che c’è poco di nuovo sotto il sole e che le paure hanno solo cambiato direzione.

L’Occidente, impaurito dalle frontiere che ha finto di tracciare, intimorito dai ‘barbari’ che si trovano alle sue porte, in preda al panico quando si tratta di rifugiati e di migranti, si trova ad contaminare la nostra Africa già provata dal suo destino. Ma non temete, senza rancore vi salveremo anche stavolta.

 Niamey 29 febbraio 2020

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