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La crisi economica Usa: uno stormo di cigni neri all’orizzonte

Gli Stati Uniti stanno affrontando in prospettiva la più grande crisi economica mai vista, forse superiore anche a quella del 1929. Le dinamiche legate all’apertura alla guerra mondiale del petrolio tra Arabia Saudita, Russia e USA avevano guidato l’ondata “ribassista” sulle piazze di tutto il mondo già da lunedì, innescando una dinamica che prima o poi si sarebbe verificata a causa delle conseguenze del Covid-19 sull’economia mondiale.

Un punto di criticità notevole per gli Stati Uniti, primo produttore mondiale di greggio, con il petrolio e del gas di scisto che già ora hanno un costo di produzione notevolmente superiore all’attuale quotazione, probabilmente destinata a scendere ancora. Ieri sera a Wall Street la qualità Brent ha chiuso a 29,52 dollari..

Ma il drastico abbassamento dei prezzi non interessa solo il settore produttivo dell’oil and gas statunitense, ma l’intera filiera finanziaria ad esso collegata, tenendo conto che questa branca era diventata un forte vettore di investimento finanziario grazie al pesante indebitamento delle compagnie energetiche ad esso collegate, che ne “drogava” la competitività.

Questo inaspettato test “anti-doping” rischia di far crollare il castello di carte – se Russia ed Arabia Saudita persistessero con la loro politica dei prezzi stracciati – da cui potrebbe probabilmente uscire rafforzata la partnership strategica cino-russa sul fronte dell’energia, e molto ridimensionati i progetti sauditi in tutti i campi.

I tre fattori di forte criticità evidenziati in questa settimana di passione del mercato finanziario statunitense sono stati tre, principalmente.

Gli MBS – cioè i prodotti di investimento fondati su mutui ipotecari – sono entrati in forte sofferenza, nonostante l’abbassamento dei tassi da parte della FED (ora addirittura azzerati) e l’immissione di liquidità straordinaria, e i tassi medi sui mutui sono aumentati dal 3,55% al 4,2%, cioè il valore più alto dal giugno del 2019.

Come ha commentato un analista citato da un recente intervento del The Financial Times: «lo sviluppo è frustrante per la FED, perché significa che le riduzioni nella sua politica sui tassi non si traduco più in interessi più bassi sui mutui».

Tradotto: il denaro costa meno, viene pompato in abbondanza nel sistema finanziario, ma i tassi dei mutui aumentano e i pacchetti ad esso collegati annaspano.

Questa preoccupazione, tra gli esperti finanziari, non è dovuta ad una strana forma di filantropia nei confronti dei detentori di mutui ipotecari, ma dal fatto che i prodotti della finanza derivata dai mutui ipotecari – cioè gli MBS – sono tra i più importanti asset finanziari dopo i buoni del tesoro statunitensi anch’essi in sofferenza.

I traders affermano che la liquidità nel mercato azionario backed by mutui si sta prosciugando.

I big della finanza, come Pimco, stanno suggerendo alla FED di acquistare assets, cioè quote azionarie, compresi gli MBS per cercare di “stabilizzare” il mercato.

Non è peregrino pensare che visti gli attuali chiari di luna sempre più persone non saranno in grado di pagare mutui contratti negli Stati Uniti, di fatto creando una dinamica simile a quella dei subprime nel 2007-2008, sia per ciò che concerne una possibile impennata della vulnerabilità abitativa, sia – ed è quello che più preme agli squali della finanza – per ciò che concerne i prodotti della finanza derivata ad essa collegati.

La soluzione è stata per ora l’acquisto massiccio di titoli finanziari da parte della FED; roba che probabilmente si rivelerà presto junk bond, cioè spazzatura.

Il secondo fattore di criticità, in realtà il primo, visto il ruolo degli USA come catalizzatore di investimenti anche della zona euro, riguarda i titoli di Stato USA, che perdono valore perché non vengono acquistati sul mercato.

La FED sta procedendo al ri-acquisto, ma la tendenza non sembra invertirsi.

Come hanno dichiarato gli analisti di Bank of America al “FT”: «il mercato degli US treasuries è il fondamento per tutti gli altri mercati finanziari. È un mercato con il tasso d’investimento più sicuro al mondo e autorizza il governo degli Stati Uniti a finanziarsi».

Ma il mercato è particolarmente in sofferenza sui Treasury a 10 anni (tradotto: gli investitori non sono sicurissimi che da qui ad allora la situazione sarà ancora positiva per gli Usa).

Anche qui la FED sta intervenendo, perché il pericolo reale è che l’abbassamento drastico del loro valore ne comprometta il ruolo di catalizzatore di investimenti internazionali – gli investitori della zona Euro hanno superato la Cina in sottoscrittori di titoli di Stato nord-americani – e quindi minare la possibilità degli States di alimentare il loro gigantesco debito pubblico e la credibilità del dollaro.

Veniamo al terzo fattore di criticità, forse il più importante per le ripercussioni sull’economia reale statunitense.

Le aziende statunitensi si finanziano prevalentemente sul mercato azionario; se questo canale viene meno, o si riduce, s’inceppa l’economia reale.

Se una parte dei bond emessi dalle aziende per finanziarsi non trova un acquirente, il finanziamento è insufficiente; ed è ciò che sta avvenendo.

Se poi, a causa della competizione internazionale, le sofferenze aumentano per aziende strategiche  che devono fortemente indebitarsi e sono connesse ai grandi player bancari, la situazione diventa davvero critica e apre la strada al fallimento e/o al salvataggio da parte dello Stato.

Boeing è una di queste, con una dozzina di banche di altissimo livello che gli hanno accordato un prestito.

Cosa sta avvenendo? Che le aziende stanno “impilando” le proprie riserve valutarie, chi ce l’ha, come exit strategy per sfuggire al rischio di non potersi poi finanziare sul mercato.

I dollari rimangono per così dire “in pancia” alle companies, e non circolano, di fatto provocando un effetto volano sulla sfiducia nei mercati.

Non proprio un fatto secondario, per un sistema che ha fatto della finanza l’alfa e l’omega della sua natura.

Ora, se i tagli della FED al costo del denaro, la sua massiccia immissione di liquidità – a botte di 500 miliardi al giorno da qui a metà Aprile – e le sue operazioni “non convenzionali”, ecc, non invertono la tendenza, vuol dire che gli stimoli anti-ciclici hanno perso la loro efficacia e che, come ha detto il managing director di Credit Suisse, Zoltan Poznar: «il Quantitative Easing non è un vaccino per questa brusca fermata».

Le indicazioni provenienti da uno dei vecchi capi della FED a gennaio, Ben Bernanke, e a febbraio dall’attuale capo, Jay Powell, erano state chiare: non dispongono di strumenti per la recessione, per questo downturn in particolare.

Ed i fatti stanno dando ragione alle previsioni più cupe.

Quindi il limite non sta nella rapidità di intervento, o sulla sua tipologia, ma sulla impossibilità di affrontare con efficacia il problema.

Ed infatti già ad inizio marzo, mentre si apprestava a tagliare i tassi, Powell aveva affermato: «per noi ciò che conta veramente non è l’epidemiologia, ma il rischio per l’economia; così abbiamo visto un rischio per l’economia e scegliamo di intervenire».

Non proprio un intervento risolutivo, visto che la scorsa settimana la borsa statunitense ha conosciuto la sua quarta prestazione negativa in assoluto in tutta la sua storia, e per una performance più negativa bisogna ritornare al 19 ottobre del 1987 in cui Wall Street perse più del 23%.

Una giorno nero con un circa un 10% delle perdite, quello del 12 marzo, di poco inferiore ai periodi più bui della crisi del ’29. Ma superato drammaticamente ieri, col Dow Jones sotto del 13%.

Alla faccia della teoria della “mano invisibile”! Ormai non si contano più le richieste disperate di un intervento dello Stato nell’economia, anche perché – come ammettono candidamente alcuni “esperti” – nessuno ha dei modelli matematici pronti per la situazione che si è venuta a creare.

La bancarotta della scienza economica borghese accompagna quella del sistema economico, senza troppe sfumature.

Concludiamo con le parole di Rara Foroohar, dalle colonne del Financial Times – non esattamente un quotidiano comunista – che conclude così il suo articolo “How coronavirus became a corporate credit run”, passando in rassegna la gravità del momento e l’inefficacia delle politiche fin qui adottate: «ciò di cui c’è bisogno è qualcosa di più simile ad un programma di stimolo fiscale di guerra, in cui il governo sostituisce la domanda di consumo persa, idealmente con un più grande programma di spesa di salute pubblica».

E questa è una proposta che coincide nei suoi tratti essenziali con quella formulata da un senatore socialista che aspira a sfidare Trump alla Casa Bianca. Magari non vince, ma la questine è di nuovo aperta.

La forza della dialettica storica…

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