Non che sia una novità assoluta: da diversi anni ormai, Mosca condanna legittimamente il deturpamento o addirittura la distruzione di monumenti al soldato sovietico liberatore in varie capitali dell’Europa orientale.
Allo stesso tempo, in Russia, vengono inaugurati sempre nuovi busti, monumenti, targhe, a “eroi” bianchi della guerra civile. In nome della “pacificazione nazionale” intonata dal governo, i nomi dei generali Vrangel, Kolčak, Mannerheim, per non parlare dello zar Aleksandr III o del ministro Stolypin, sono innalzati a pietre miliari della storia russa, prima della “parentesi bolscevica” e sui manuali di storia scolastici vengono ricoperti dell’alone di figure “che cercavano il bene e la grandezza della patria”.
Ma, sinora, ciò veniva fatto senza particolare rilievo: si faceva e basta, pur se con la partecipazione di esponenti governativi, come avvenuto, ad esempio, nel 2016, in occasione dell’inaugurazione della targa al generale finlandese Karl Gustav Mannerheim, allorché l’allora capo dell’amministrazione presidenziale, Sergej Ivanov, aveva detto che la targa costituiva un simbolo del superamento della divisione della società russa determinata dalla Rivoluzione d’Ottobre, un passo verso la riconciliazione.
Forse per la prima volta, però, su uno dei principali canali televisivi pubblici, “Rossija 1”, e alla vigilia del 75° anniversario della vittoria sul nazismo, si proclama a piena voce che il numero di monumenti a Lenin, che “rimane figura dubbia e fonte di discordia”, è “sproporzionato” rispetto ad altre figure: lo ha detto Dmitrij Kiselëv, vice Direttore generale di “Rossija”.
“Bisogna innalzare monumenti a Vrangel, Kolčak, Denikin, Krasnov, ma anche a Bljukher, Frunze, Dzeržinskij, al dottor Botkin, fucilato a casa Ipat’ev… in ognuno di essi c’è un contributo, un’idea, una tragedia“.
Ecco, Pëtr Krasnov, in particolare: tenente-generale, atamano cosacco, condannato dalla Corte suprema dell’URSS per complicità coi nazisti e giustiziato nel 1947, pochi mesi dopo l’altra figura “simbolo” del tradimento filo-nazista, il generale Andrej Vlasov, messo dai nazisti a capo del cosiddetto Esercito di liberazione russo (ROA).
Non usa mezze parole l’osservatore Konstantin Sëmin, che, sul canale nakanune.ru, afferma che con tale uscita di uno dei più ufficiali “tele-propagandisti governativi”, essi hanno ammesso apertamente di essere “vlasovtsi”. Già in passato si era assistito a simili esternazioni, che potevano considerarsi “casuali”; oggi, però, non possono più considerarsi “fortuite”, dice Sëmin, autore, tra l’altro del documentario-inchiesta “Biochimica del tradimento”, sulla figura di Andrej Vlasov.
“Anche la targa per Mannerheim non è accidentale, e nemmeno le parole di Kiselëv, secondo cui il governante supremo Kolčak rappresenta un’occasione mancata per la Russia; oppure tutti i proclami su Vlasov fatti al ‘Centro Eltsin’, o l’inclusione nei programmi scolastici di Solženitsyn, che Šolokhov aveva definito un ‘Vlasov letterario’, oppure i rapporti del Capo dello stato con la famiglia Solženitsyn. E lasciamo pur stare Lenin… di cui hanno ignorato l’anniversario, come se nella storia russa e sovietica non ci sia stato un tale nome”, continua Sëmin.
Per quanto riguarda Krasnov, difficile dire se l’uscita di Kiselëv “sia stata casuale, oppure egli si sia lasciato sfuggire qualcosa che si prepara da tempo. In ogni caso, per la prima volta si è udita un’aperta dichiarazione sulla necessità di monumenti a un boia collaborazionista, responsabile della morte di migliaia e migliaia di sovietici. I cosacchi di Krasnov, agli ordini del colonnello tedesco Helmuth von Pannwitz, nella regione di Rostov giustiziarono ufficiali e soldati catturati dell’Armata Rossa, repressero brutalmente la popolazione locale che simpatizzava con il potere sovietico”.
Reparti cosacchi e disertori dell’Armata Rossa, inquadrati nelle SS, diedero prova della propria efferatezza contro i partigiani bielorussi e jugoslavi, contro gli insorti di Varsavia, in Friuli.
Credo, ha concluso Konstantin Sëmin, che le esternazioni di Kiselëv costituiscano “un verdetto per l’intero sistema di potere sviluppatosi nel nostro paese dopo il 1991. Possono fingere di essere chiunque, di essere eredi di chiunque, ma non hanno nulla a che fare con l’Unione Sovietica, con Gagarin, con la Vittoria, con coloro che combatterono per Leningrado, Stalingrado, che issarono la bandiera della vittoria sul Reichstag. Sono ‘vlasovtsi’, sono ‘krasnovtsi’, e ora lo hanno dichiarato apertamente”.
Come sempre, non c’è da dubitare che, anche nel caso di Pëtr Krasnov, si dirà che ciò viene fatto per superare la divisione della società, in nome della solidarietà nazionale, soprattutto in tempi di pandemia, come anche in Italia, quando bisogna essere tutti uniti, sventolando il tricolore per “l’orgoglio di essere un grande paese”, che bisogna essere solidali.
Ma, ha notato Konstantin Sëmin, il “solidarismo è un termine fascista, oggi ufficialmente adottato. Questo solidarismo al di sopra delle classi, un solidarismo alla Mussolini, viene utilizzato per unire affamati e sazi, ladri e derubati, padroni e servi. Parlano di solidarismo ed esortano a riconciliazione e tolleranza e, unendosi agli schiamazzi della vedova Solženitsyn, dicono che non dobbiamo ripetere l’incubo di cento anni fa”.
Si può solo aggiungere alle parole di Sëmin quanto riportato dalla stessa Wikipedia, secondo cui nel 1996 Helmuth von Pannwitz (ai cui ordini, oltre a Krasnov, erano anche altri ufficiali cosacchi, come Andrej Škuro o Ivan Kononov, giudicati “spietati” dagli stessi hitleriani) è stato “riabilitato” da Boris Eltsin perché “falsamente accusato di crimini di guerra, come vittima delle persecuzioni staliniane” e alla famiglia è stata concessa una pensione.
Sul piano storico, è appena il caso di ricordare come Krasnov, quando nel 1917 i suoi cosacchi furono sconfitti dai soldati del giovane Esercito Rosso nei pressi di Pietrogrado e lui arrestato, fosse stato rimesso in libertà, dietro “la parola d’onore di ufficiale che non avrebbe più combattuto contro il potere sovietico”.
Fu cioè rilasciato, come scrisse Lenin, “per i pregiudizi della intelligentsija contro la pena di morte” e poi, forte delle armi tedesche ottenute “con l’aiuto dei menscevichi ucraini e georgiani”, nel 1918 combatteva contro i bolscevichi sul Don e si insediava a Novočerkassk, pur divergendo con il generale bianco Anton Denikin, sul cercare l’appoggio dei tedeschi o degli anglo-francesi.
Più tardi, ricorda Sergej Iščenko, nel giorno stesso dell’attacco nazista all’URSS, il 22 giugno 1941, Krasnov proclamava da Berlino che “questa guerra non è contro la Russia, ma contro comunisti, giudei e loro accoliti, che fanno commercio del sangue russo. Che dio protegga le armi tedesche e Hitler!”.
Pur non prendendo direttamente parte ai combattimenti, il 20 luglio 1944, ad esempio, nel giorno del fallito attentato a Hitler, Krasnov gli indirizzò un telegramma di felicitazioni, concludendo con “Possiate vivere ancora tanti anni, nostro Capo, Adolf Hitler”.
E ancora a inizi ’45, Krasnov scriveva a Vlasov: “I cosacchi sanno che dopo la vittoria di Hitler, la Russia rimarrà sotto il controllo e la tutela della Germania. Le truppe cosacche, quali alleati della Germania, riceveranno l’aiuto dei tedeschi“.
Il vice Presidente del CC del KPRF, Jurij Afonin, ha qualificato le parole di Kiselëv come “abominio e tradimento nazionale”. Quelle parole di “un tal famoso tele-propagandista sono qualcosa di più che un semplice appello al pluralismo storico: come dire, innalziamo monumenti a tutti, rossi e bianchi. È chiaramente visibile la deriva dell’attuale governo russo verso la Guardia Bianca”, ha detto Afonin.
“Eseguendo questo ordine ideologico, la tele-propaganda ha praticamente dichiarato che i bianchi erano le ‘forze del bene’ nella guerra civile”. Pesano sulla coscienza “dei cosacchi, migliaia di crimini di guerra, rappresaglie contro i prigionieri dell’Armata Rossa. Sono note le immagini dei cosacchi di Krasnov, che abbattono con la sciabola prigionieri sovietici inermi”.
Kiselëv avrebbe potuto “scegliere altri nomi, da associare a Vrangel, Kolčak, Denikin”, ha detto ancora Afonin; in fin dei conti “Krasnov non è nemmeno il più famoso tra i capi militari bianchi, come Judenič o Kornilov. Ma ha scelto proprio Krasnov, collaborazionista hitleriano. Coincidenza? Non credo. Vorrei ricordare al sig. Kiselëv, che il generale Krasnov fu processato da un tribunale sovietico e impiccato come criminale di guerra e traditore della patria; e i crimini di guerra non sono soggetti a prescrizione. Nel 1997, la Corte Suprema russa ha riconosciuto fondata la condanna di Krasnov ed egli non è soggetto a riabilitazione”.
La dichiarazione di Kiselëv “può anche essere qualificata come diffusione di informazioni consapevolmente false sulle azioni dell’URSS nella Seconda guerra mondiale, dal momento che mette in dubbio, di fatto, la correttezza della lotta dell’Unione Sovietica contro criminali di guerra, collaborazionisti e traditori della Patria. E atti simili sono punibili ai sensi dell’articolo 354.1 del codice penale: riabilitazione del nazismo“.
Un bel viatico in vista del 9 Maggio e dell’accordo nazionale interclassista.
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