Il sangue degli ultimi
Nella micro-regione del Brejo Paraibano, Areia e Alagoa Grande sono città storiche che ebbero origine dalle antiche terre del Sertão do Paó dove trovarono casa gli schiavi fuggitivi, i cui discendenti fondarono le comunità dei Quilombolas che sopravvivono tuttora con il duro lavoro nei campi e la floricoltura.
Areia si è in parte emancipata dalla dipendenza agricola, sviluppando un turismo legato alla natura e alla sua storia. Alagoa Grande invece non ce l’ha fatta, malgrado l’enorme potenziale.
Le coltivazioni di canna da zucchero, caffè, mais e cotone sono la sua unica risorsa e maledizione allo stesso tempo.
Qui il latifondo prospera, con il suo corollario di sangue.
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Il processo di modernizzazione ai fini della produzione dello zucchero, iniziato nel 1958 con l’introduzione di macchinari industriali e l’espansione delle piantagioni, portò a una esorbitante concentrazione fondiaria, che nel 1978 aumentò del 77%.
Fu proprio negli anni del regime militare (1964-1985) che l’élite agraria rafforzò la sua presenza in politica, conquistando praticamente tutte le cariche di sindaco e consiglieri comunali nella regione di Alagoa Grande.
La diseguaglianza crebbe in maniera esponenziale, calpestando i diritti dei braccianti e ponendo i presupposti di una società gerarchizzata che caratterizza il Brasile attuale.
I contadini non erano rimasti a guardare, avendo già formato 10 anni prima le Ligas Camponesas, una sorta di unione sindacale per difendere i diritti violati.
Gli agrari reagirono, fondando nel 1962 l’Associação dos Proprietários Rurais da Paraíba, ben organizzata anche in senso punitivo. Il 1° Maggio 1983, la sindacalista Margarida Alves fece uno storico discorso, rivendicando un salario più giusto, la giornata di 8 ore, e le ferie. Parole che le costarono la vita:
“A loro non piace che voi siate qui radunati oggi, perché hanno paura della nostra unione, la forza che dimostriamo. Lo sanno che possiamo morire in otto o in dieci, ma non accetteremo mai di essere marginalizzati e di finire sotto i loro piedi”.
Pochi mesi dopo, un colpo di carabina sparato da un cecchino, le spappolò il cranio. Il suo sacrificio richiama alla memoria quello di Marielle Franco, la consigliera di Rio assassinata dai miliziani vicini a Flávio Bolsonaro, primogenito del presidente.
Anche lei difendeva gli excluídos nelle favelas: i neri massacrati dalla Bope (Battaglione della Polizia Militare per Operazioni Speciali) pressoché quotidianamente – 65, tra cui minorenni e bambini, negli ultimi due mesi – e le donne povere con figli a carico.
Prendendo spunto dagli ultimi omicidi extragiudiziali a Rio de Janeiro, in questi giorni São Paulo, Rio, Salvador (dove si concentra la maggior percentuale di gente di colore del Brasile) e altre città, sono attraversate da manifestazioni sulla falsariga della protesta contro la violenza della polizia sui neri negli USA, culminata nell’omicidio volontario di George Floyd.
Lo slogan è la traduzione in portoghese di “Black lives matter” cioè “Vidas negras importam” Le vite dei neri contano.
Favelas e derivati
Secondo una indagine di IBGE (Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística) nel 2011 circa 12 milioni di brasiliani vivevano nelle favelas metropolitane, afflitti da carenze croniche quali mancanza di acqua corrente e servizi pessimi.
https://istoe.com.br/183856_IBGE+6+DA+POPULACAO+BRASILEIRA+MORA+EM+FAVELAS/
Questa cifra oggi va perlomeno raddoppiata, se consideriamo i grandi agglomerati urbani del Sud Est del paese, il più popolato (oltre 85 milioni) dove si concentrano metà delle famiglie che vivono in condizioni sub-umane di “housing”. Sâo Paulo, 1538 favelas, e Rio de Janeiro, sono in testa a questa poco encomiabile classifica.
Rio sfoggia la prima e la terza favela più grandi in assoluto: Rocinha con circa 70.000 abitanti sul podio più alto, e Rio das Pedras (55.000) medaglia di bronzo.
Al secondo posto, Sol Nascente a Brasilia (Distrito Federal) con 57.000 circa, che tuttavia negli ultimi anni si è spalmata con baracche fatiscenti nella parte sottostante della capitale fino a sfiorare le 100.000 anime, scalzando praticamente Rocinha dalla prima posizione. Le cifre si fanno però mostruose, considerando anche gli insediamenti urbani e rurali del Nord Est e le baraccopoli fluviali dell’Amazzonia.
Pur non raggiungendo le dimensioni bibliche delle comunità sopracitate, le condizioni di vita possono essere persino peggiori, se si pensa alle palafitte di Manaus, che durante la stagione delle piogge spesso sono trascinate via dalle inondazioni, o ai tuguri nel Paraiba, con le catapecchie dai muri di fango rosso nelle terre di Alagoa Grande, fino alle atroci tendopoli di plastica erette vicino al centro storico di Maceió, capitale di Alagoas.
Se consideriamo tutto ciò, in Brasile circa il 40% dei residenti vivono ancora in queste condizioni.
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Rio das Pedras é Il regno de Escritório do Crime, i miliziani tagliagole al soldo dei politici di tutti i colori, con una preferenza per casa Bolsonaro.
Con perfetto contrasto brasileiro, poco distante dall’inferno luccica Barra da Tijuca, sobborgo balneare di lusso la cui frenetica attività neanche il Covid è riuscito a fermare. Qui aveva casa Ronaldo, o Fenômeno do futebol.
La vicinanza con la favela in realtà fa comodo al ceto alto, che da lì può farsi arrivare cocaina e prostitute, specie adesso per allietare la quarantena.
Difatti il paradosso brasiliano in tempo di pandemia è che pur con scuole, negozi e fabbriche chiusi, quelli che hanno i soldi non rinunciano comunque a divertirsi, infischiandosene dei divieti: sale massaggi e bordelli funzionano a pieno ritmo, con feste sia nelle favelas che nei quartieri bene, e promiscuità a go-go.
Soltanto il 43% rispetta l’isolamento, cosicché il numero dei casi e dei morti impazzisce quotidianamente.
Niente fogne, siamo excluídos
In Brasile, oltre 100 milioni di persone non hanno accesso alla rete fognaria, né possono usufruire di acqua corrente.
Il problema dello smaltimento dei liquami e del trattamento dell’acqua per il consumo umano affligge anche il ceto medio, non solamente gli excluídos nelle favelas. Insomma, l’acqua potabile dal rubinetto è un lusso riservato a poco più del 40% dei brasiliani.
https://www.poder360.com.br/brasil/100-milhoes-de-brasileiros-nao-tem-coleta-de-esgotos-em-casa/
Una tara antica, che affligge soprattutto gli stati del Nord Est, laddove i serbatoi per uso domestico, di colore blu e nero, decorano i tetti di almeno il 70% delle case in Paraiba, Pernambuco, Ceará, Bahia ect.
La distribuzione del liquido vitale nelle comunità di periferia è pessima, e sovente molte rimangono senza, dovendo quindi immagazzinarla per tempo nei modi più disparati. L’acqua ferma dentro contenitori di fortuna, insieme agli scarichi a cielo aperto, formano un connubio letale che attira gli insetti, tra cui la famigerata zanzara Aedes Aegypti, portatrice dei virus Zika e della Dengue, che oltre a dolori articolari, può sviluppare febbre emorragica e uccidere. Lo scorso anno 754 persone ci hanno lasciato la pelle, un record superato solo nel 2015, quasi mille.
Il dittero depone le uova nelle acque stagnanti e le larve con il caldo ci mettono poco a crescere e pungere. Questa specie è portatrice anche della febbre gialla, soprattutto in Amazzonia e Distrito Federal.
E se Madre Natura in alcuni casi ha concesso agli uomini acqua potabile senza sborsare un real, sono proprio i loro simili a levargliela: le catastrofi ambientali in Minas Gerais del 2015 e 2019, relative ai crolli delle dighe di Mariana e Brumadinho, causarono la contaminazione dei fiumi, invasi dai fanghi tossici della multinazionale Vale, ammazzando pure 300 operai.
Gli indigeni persero il loro patrimonio idrico senza alcuna compensazione, grazie alle bustarelle che Vale aveva distribuito a tutti i partiti prima dell’avvento di Bolsonaro, il quale dal canto suo promise prima del voto allo zoccolo duro del suo elettorato (i latifondisti della soia e dei biocarburanti che mirano ai territori indios per le loro colture) che non avrebbe lasciato un metro quadrato in più alla demarcazione della terra dei nativi.
Dilma Rousseff aveva già ripreso prima di lui opere scriteriate come la nuova diga di Belo Monte nello stato di Pará, all’insegna del cosiddetto sviluppo delle infrastrutture, facendo sloggiare centinaia di tribù solo per soddisfare la cupidigia degli impresari, e quest’anno i roghi che fanno terra bruciata per creare spazio alle colture di soia e canna da zucchero da cui si ricava l’etanolo per il carburante, hanno incrementato la deforestazione del 171% rispetto al 2019.
Negli ultimi 5 anni sono stati annientati 26.740 km2 di foresta pluviale.
La tragedia di Manaus dove il coronavirus sta falciando la gente per carenza di strutture sanitarie, ha già esteso il suo percorso letale fino ai villaggi nella foresta, trasmesso dagli indios che lavoravano in città e ora tornano a casa.
E come la storia insegna, le loro difese immunitarie sono più fragili delle nostre.
Le ecatombi avvenute nel XVI secolo a causa di morbillo, vaiolo e influenza contratti dagli invasori portoghesi, sono lì a ricordarcelo.
L’accondiscendenza della classe dirigente nei confronti dei proprietari terrieri è dovuta alla sua origine che l’accomuna a codesti: la borghesia bianca, portoghese originale, allargata agli immigrati italiani e tedeschi nel periodo post-coloniale.
La politica in cambio del mantenimento dei suoi privilegi, ha firmato agli sfruttatori una cambiale in bianco.
Un “progresso” basato sulla corruzione a scapito dei diritti degli altri.
Photo credits: F. Bacchetta
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