Nel caldo ferragostano, mentre governo e regioni litigavano sul riaprire o chiudere le discoteche e sull’affollamento delle spiagge date in concessione per quattro bucce di patate a facoltosi imprenditori che stipano sulla sabbia più persone possibili per aumentare i loro profitti, è arrivato un nuovo, sorprendente comunicato del Comitato Tecnico Scientifico della Presidenza del Consiglio.
Cancellando i precedenti comunicati sul distanziamento e sulle “rime buccali” il CTS ha sentenziato che, alla fine, il metro di distanza non è indispensabile e che si può stare a scuola anche più vicini se si indossa la mascherina.
Una presa di posizione che non stupisce se si considera che salva il Ministero dal grave imbarazzo di non sapere come avviare l’anno scolastico di fronte agli appelli degli istituti che proprio non hanno idea di come rispettare le norme sul distanziamento fisico in assenza di un sufficiente numero di docenti, personale ATA e aule. In pratica, il rischio è che nulla cambi dallo scorso anno, salvo l’obbligo della mascherina, che non è certo agevole, per dei ragazzi, portare ogni giorno per cinque o sei ore di lezione.
Credo che gli attuali responsabili del Ministero potrebbero rivendicare delle attenuanti alla loro incapacità di gestire la crisi sanitaria. In effetti, da decenni nella scuola italiana è stato un susseguirsi di tagli di bilancio, di riduzione degli organici, di incuria degli edifici, di aziendalizzazioni, di accorpamenti di classi e di istituti e di favori ai privati che l’hanno ridotta allo stremo.
Di fronte a una tale situazione, sarebbe stata necessaria una chiara autocritica rispetto a tale politica a cui far seguire una decisa inversione di rotta. Al contrario, tale rettifica non è avvenuta e si continua a fronteggiare una crisi strutturale della scuola, messa ancora più in luce dalla pandemia, con palliativi tecnici e con una completa e colpevole incapacità pedagogica e organizzativa.
Per mesi il Ministero ha parlato quasi esclusivamente dell’acquisto di tre milioni di banchi monoposto di “nuova generazione”, come se in questo modo si potesse risolvere la situazione disperata delle scuole. Finalmente si è arrivati al bando d’acquisto (europeo, perché la quantità assorbe cinque anni di normale produzione nazionale) che ha trovato undici diversi vincitori, che forniranno tali materiali (pare i noti banchi-gabbietta a rotelle), sembra, entro fine ottobre.
Le modalità del bando mal pensato e peggio gestito dal Commissario tuttologo Arcuri hanno sollevato enormi polemiche, su cui non mi dilungo, se non per sottolineare l’enormità dei fondi impiegati per l’acquisto di tali banchi –ognuno dei quali costa 300€- e che in tutta la vicenda si è voluto ignorare che tutte le scuole italiane sono già dotate, almeno dall’inizio degli anni sessanta, di banchi singoli più funzionali a una didattica flessibile nell’organizzazione degli spazi. Se tali banchi sono accostati a coppie, è soprattutto perché le classi sono troppo numerose.
La questione dei banchi può suscitare qualche sorriso per la sua apparente pochezza pedagogica, ma così non è. Infatti, l’organizzazione dello spazio educativo corrisponde alla visione metodologica dell’insegnante e dell’istituto: dei banchi sistemati frontalmente a una cattedra esprimono una determinata visione, se disposti a cerchio un’altra, a isole un’altra ancora.
Inoltre, anche le diverse materie possono richiedere spazi attrezzati diversi: geografia, storia, arte, musica, letteratura hanno prassi differenti che richiedono una conseguente disposizione degli arredi. Anche per questo sarebbe opportuno immaginare una scuola di laboratori, dove siano gli studenti a muoversi tra spazi attrezzati per una specifica attività e non gli insegnanti a correre per i corridoi carichi di libri, quaderni e fotocopie.
Inoltre, non è da trascurare che i banchi-gabbietta oltre ad apparire ergonomicamente poco adatti a starci trenta-trentacinque ora la settimana –sono un derivato delle sedie da aula conferenze dove si rimane una o due ore- e poco ecologici (usano molta plastica) sono stati richiesti da un numero limitato di scuole, ma comperati in quantità molto superiore a tale domanda.
Appaiono dunque come un’imposizione del Ministero alle scuole, sostenuta da un tam-tam mediatico non indifferente. Il Corriere della Sera è arrivato a pubblicare nel suo sito un grottesco filmato in cui si spiega come usare tale banchi e quale innovazione didattica essi rappresentino.
Tuttavia, le scuole e gli insegnanti che l’innovazione didattica la fanno davvero sono tra coloro che tali banchi proprio non li vogliono. Per esempio, è esemplare il comunicato della “Rete delle scuole senza zaino” che hanno maturato un’esperienza specifica sul terreno dell’organizzazione degli spazi didattici.
In tale comunicato non solo si critica la scelta dei banchi effettuata dal Ministero, ma si sostiene che sono possibili soluzioni organizzative diverse che –pur rispettando le precauzioni sanitarie – consentano ai bambini e ragazzi di lavorare con modalità cooperative e collaborative.
Anche l’insegnante e pedagogista Franco Lorenzoni, in un articolo apparso su Internazionale ha criticato l’adozione di tali banchi, vista come inadatta a una scuola dove gli insegnanti e i bambini possano rimodulare lo spazio in base alle attività e alle materie d’insegnamento.
Nel suo articolo, Lorenzoni sembra confermare un’impressione che mi aveva già colto osservando i nuovi banchi proposti dal Ministero. Tali banchi –come viene detto persino nel citato video del Corriere – hanno un tavolino reclinabile assai piccolo, dove è impossibile mettere più di un libro o di un quaderno alla volta.
Diventa difficile, per esempio, consultare un libro e contemporaneamente scrivere degli appunti. Impossibile tracciare disegni collettivi, schemi, confrontare in gruppo testi e documenti. Il piccolo tavolino, quindi, sembra prefigurare una scuola dove in luogo di testi e quaderni si usi soltanto un tablet o un piccolo computer. In pratica una scelta del digitale come unica forma di didattica.
Ciò mi sembra inaccettabile, visto che il digitale deve essere solo uno dei tanti linguaggi e forme di comunicazione che la scuola propone ai suoi allievi. Tra l’altro – osserva ancora Lorenzoni – l’adozione di tali banchi nelle scuole medie superiori, dove sembrano prioritariamente destinati condizionerà per molti anni la didattica rendendo difficili le attività di gruppo.
Una via verso la famigerata strada delle competenze e la cancellazione dei saperi, con il conseguente annullamento dello sviluppo delle capacità critiche come prioritarie nella formazione del cittadino.
Purtroppo il Ministero, negli ultimi anni, e la gestione Azzolina è in continuità , sembra orientato a voler spingere sull’acceleratore della didattica digitale anche verso lo sviluppo massiccio della Didattica Digitale Integrata (DDI), che diventa dal prossimo settembre parte obbligatoria dei Piani Triennali dell’Offerta Formativa (PTOF) e della progettazione dei Consigli di classe.
Un orientamento che cela – in mancanza di progetti alternativi – l’eventualità di un ritorno alla Didattica a Distanza già sperimentata quest’anno e alla sua futura istituzionalizzazione anche oltre la fine della pandemia.
Purtroppo, verso la conferma di tali sospetti marcia speditamente anche quanto previsto dai progetti ministeriali di formazione in servizio dei docenti che sono incentrati sul digitale e in particolare sulla DDI.
Una scelta molto discutibile, visto che sicuramente i problemi che gli insegnanti dovranno affrontare dal prossimo anno scolastico sono di un’ampiezza enorme e richiedono ai docenti una responsabilità pedagogica che va molto oltre l’uso di qualche tecnica digitale.
Nei mesi seguenti la riapertura delle scuole i docenti saranno chiamati a confrontarsi con situazioni molto difficili, con studenti che hanno subito lutti o malattie in famiglia, che hanno vissuto il confinamento, la separazione dai compagni e dagli insegnanti e che vivranno con tensione il dover rientrare a scuola con tutte le precauzioni previste e con le difficoltà che la situazione provocherà.
Il Ministero non dice nulla su tutto questo, nessuna formazione specifica è prevista, si ciancia di psicologi a scuola mentre sarebbe più opportuno preparare gli insegnanti.
Ho già sostenuto che la scuola è nata per avvicinare, per includere, non per distanziare. Nessuno al Ministero si sta occupando di risolvere la contraddizione tra avvicinamento e distanziamento fisico che è la vera contraddizione che la scuola si trova ad affrontare. In questa indifferenza, il distanziamento, da fisico, diventerà sociale con l’aggravarsi della selezione, l’abbandono dei progetti d’inclusione e l’aggravamento delle discriminazioni già verificate nel periodo del confinamento.
Ma è evidente che il MIUR già pensa a un anno scolastico dimezzato, intermittente, che potrà essere avviato e poi interrotto e condotto a distanza, poi ripreso. La didattica dell’intermittenza, con danni enormi per gli studenti.
Inoltre, si parla poco della fascia 0-6 anni, troppo trascurata nella discussione pedagogica sul post- Covid. Per tale fascia d’età, dove la DAD è impossibile, non sono ancora a oggi previste indicazioni chiare. Nel rapporto tra le educatrici e i bambini/e di quell’età, la corporeità è particolarmente importante, per rassicurare e garantire l’affetto.
Anche il dover disinfettare continuamente i giocattoli e le suppellettili che i bambini sono usi a portare al viso e alla bocca, può creare momenti d’ansia e d’insicurezza. La polarizzazione dell’attenzione sull’evitare il contatto fisico mette in discussione alcuni dei presupposti consolidati per chi lavora nella fascia d’età 0-6.
Tuttavia, nessuna indicazione pedagogica reale, nessun momento di formazione è attualmente previsto dal Ministero su questi temi e gli/le insegnanti possono contare solo sulla loro professionalità e sensibilità.
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