La linea seguita dal governo nelle ultime settimane è abbastanza chiara, ed è quella di una riduzione progressiva dell’allarme per la pandemia e di un abbassamento delle misure profilattiche con la sola eccezione dei vaccini (di cui peraltro manca ancora il necessario aggiornamento).
Ne fanno testo l’abolizione delle quarantene, la riduzione della variante Omicron a “semplice influenza” (con circa 2.000 morti a settimana, ma ciò non importa), le ventilate cancellazioni del bollettino sanitario quotidiano, ritenuto “ansiogeno”.
Ora si discute persino che i cittadini risultati positivi, se vaccinati, possano continuare a circolare liberamente. Una misura che fa a pugni con ogni precauzione scientifica perché, comunque, costoro possono rappresentare un pericolo di contagio.
Purtroppo è una linea che si sta diffondendo in tutta Europa: il governo spagnolo ha persino teorizzato questa nuova linea con il termine di “nuova normalità”.
Una normalità che prevede che tutto continui senza significative limitazioni, soprattutto che sia protetta l’economia e che si navighi su una simulazione di “normalità” che nasconde in realtà ogni giorno malattie, sofferenze e decessi, visti come un debito quasi naturale che si deve sopportare per “convivere con il virus”mentre di una riconduzione della pandemia ai contagi zero nemmeno si parla più.
Si tratta di una normalità simulata che costa comunque tantissimo in termini di vite umane.
Chiediamoci cosa c’entri tutto questo con la scuola, nel momento in cui termina la prima settimana di frequenza dopo la fine delle vacanze di fine anno, quando il governo si è scoperto improvvisamente sostenitore a oltranza del rientro in presenza, giungendo a scontri politici importanti con alcuni presidenti di regione e sindaci, con sindacati e medici, oltre che con associazioni professionali tra cui lìAssociazione Nazionale Presidi.
Sappiamo tutti che nei due anni trascorsi di pandemia il governo non ha fatto nulla per migliorare la situazione nelle scuole, che tra l’altro già nel febbraio 2020 erano allo stremo quanto a strutture e personale, dati i continui tagli degli ultimi venti-trent’anni.
Nello specifico delle ultime disposizioni, emanate il 5 gennaio, si può facilmente notare che nulla è previsto perché la scuola possa sostenere l’impatto dell’aumento dei contagi. Infatti, quanto alla possibilità di ridurre il numero di alunni per classe, che prevederebbe un aumento di personale, il finanziamento per l’”organico Covid” (peraltro nuova forma di precariato) è stato ridotto da 2 miliardi a 400 milioni, destinati solo ad attività di supporto alla didattica e inoltre non si sa se rinnovabile sino a fine anno.
Numerosi presidi hanno dichiarato che, in questa situazione, sono riusciti a “coprire” le classi, che in gergo scolastico significa garantire la sorveglianza, ma che non sono arrivati a realizzare una vera didattica, cioè a dare a tutte le classi i professori di materia necessari all’orario previsto.
Nelle attuali condizioni di strutture non adatte e in molti casi di sovraffollamento, anche le indicazioni sul distanziamento fisico appaiono grottesche barzellette.
Molte difficoltà si riscontrano anche nelle scuole che attuano il tempo pieno, spesso ridotto per la mancanza di docenti in quarantena o ammalati e per la difficoltà a mantenere i due metri di distanza interpersonale nelle mense scolastiche.
Le mense sono troppo piccole, il personale è insufficiente; quindi presidi e famiglia trovino da sé soluzioni per adattarsi alla “nuova normalità”: panini da casa, pranzi in cortile o, appunto, ed è il peggio, riduzione dell’orario scolastico.
Si è parlato di porre nelle classi adeguati impianti di aerazione, ma il loro costo non può essere sostenuto dalle scuole, poiché per ogni aula sarebbero necessari che costano però diverse centinaia di euro per ciascuna aula e il Ministero non ha deliberato i finanziamenti per tale spesa, evidentemente insostenibile per le singole scuole.
Il risultato è che nelle scuole spesso si fa lezione a finestre aperte, dotandosi dei sistemi della nonna, come berretti, guanti maglioni e sciarpe.
Infine, il cervellotico sistema per decidere se una classe deve passare in teledidattica: conteggio dei positivi per classe, diverso secondo i gradi di scuola, e che prevede comunque l’effettuazione di tamponi che si sa, sono difficili da ottenere in tutta Italia e che le ATS somministrano con giorni di ritardo e di cui comunicano i risultati troppo tardi.
Tra l’altro, in vista della “nuova normalità”, i tamponi antigenici sono stati equiparati ai molecolari anche se per nulla affidabili per la variante Omicron. È chiaro, in ogni caso, che nella secondaria le lezione con più soggetti positivi in classe non si svolge certo serenamente.
Infine, è impraticabile l’idea della cosiddetta didattica mista: mezza classe in presenza e mezza a distanza. Quanto all’obbligo di mascherine FFP2 insegnanti e studenti si devono arrangiare a procurarsele da sé quasi ovunque.
In pratica, le scuole devono arrangiarsi a trovare soluzioni che rimedino all’insipienza del Ministero e alla volontà del governo di dimostrare che comunque le scuole sono aperte.
Una riprova, inquietante, della scarsa efficacia dei provvedimenti previsti dal governo viene dalla Francia, dove protocolli simili a quelli italiani sono già stati adottati dal 3 gennaio, fallendo gli obiettivi e provocando un massiccio sciopero degli insegnanti (che rivendicano, dato l’aumento del carico di lavoro, anche incrementi degli stipendi, comunque più alti di quelli italiani).
In una situazione cosi difficile, dal Ministero arrivano poche e scarne notizie: qualche percentuale, piuttosto bassa, di cui è lecito dubitare, di assenze dalla scuola di insegnanti e studenti e nessuna informazione sulle classi costrette alla didattica a distanza.
In effetti, basta dichiarare che “le scuole sono aperte”, strombazzandolo sui giornali; se poi la metà delle classi è in didattica a distanza ciò non fa notizia. A questo proposito, notizie raccolte empiricamente nelle scuole testimoniano di un numero crescente di classi costrette alla didattica a distanza.
In pratica, anche la scuola deve adattarsi alla spericolata “nuova normalità”, mentre l’obiettivo dovrebbe essere quello di portare i contagi a zero, garantendo un insegnamento sicuro e sereno, evitando le difficoltà attuali e anche la famigerata didattica a distanza.
La scuola naviga tempestosamente nell’incertezza, salvo che per una cosa: gli irrinunciabili test INVALSI, che sono già stati annunciati per il periodo marzo-maggio. Il solito stupidario di domande che colpirà implacabilmente gli studenti, sia che abbiano frequentato in presenza, tra mille difficoltà, che per via telematica, con problemi anche peggiori.
Tali prove, insulse e controproducenti, che nulla hanno a che vedere con una seria valutazione, costeranno probabilmente, come ogni anno, circa sette milioni di euro al Ministero, tra consulenze affidate ad amici e pensionati, spese informatiche e di organizzazione.
Un esborso di denaro notevole, che è già stato contestato dalla Corte dei Conti e che potrebbe essere impiegato in modo più utile.
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