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Di Maio in Libia, ministro degli Esteri o rappresentante aziendale?

Se ci si volesse interrogare su quali sono i risultati di trenta anni di depoliticizzazione della società, in ossequio al mantra neoliberista (o ordoliberista, nella versione tedesca) secondo cui la politica deve arretrare nell’organizzazione della società in favore del mercato, si potrebbero fare molti esempi.

In termini di classe, si potrebbe partire dall’arretramento del movimento dei lavoratori al decadimento della qualità dell’istruzione, dalla privatizzazione della ricerca all’aumento delle diseguaglianze.

La classe politica invece ha dato vita a una sequela di personaggi improbabili travestiti da statisti ed incapaci di una visione generale del paese, avventurieri in cerca del vento buono e pronti a strambare a ogni cambio di direzione.

Le dichiarazioni rilasciate dall’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio al termine dell’incontro in Libia col premier del governo di Tripoli Fayez al Serraj ne costituiscono l’ultimo esempio.

«Vogliamo che le imprese italiane vengano qui da noi per sostenere lo sviluppo e la crescita della Libia, per noi è un attore importante, uno snodo cruciale per costruire un nuovo modello con scambi commerciale fiorenti e opportunità di crescita», ha detto l’inquilino della Farnesina.

Ora, per un ministro degli Esteri, già parlare di “una Libia” nella situazione odierna del territorio libico è un’allucinazione, una rappresentazione che non trova riscontro nella realtà.

Il paese è infatti diviso almeno in tre aeree d’influenza, tra la Tripolitania del Governo di accordo nazionale (Gna, sotto la guida di al Serraj), la Cirenaica dell’arretrante generale Haftar e sempre più sotto l’ombra lunga egiziana, e l’inquieto Fezzan, ricucito dall’Esercito nazionale libico (Lna, quello di Haftar) nella promessa della cacciata dello Gna ma in fibrillazione per il fallimento dell’Lna.

Dall’omicidio di Gheddafi in poi nel lontano 2011, il territorio libico è insanguinato dallo stop and go di un conflitto civile ripreso il 4 aprile del 2019 e vicino al cessate il fuoco “reale” (nel 2020 ne sono stati annunciati almeno tre) nelle ultime settimane.

La guerra per procura combattuta al di là del Mediterraneo rappresenta in nuce la contesa geopolitica in ballo in tutta la regione Medio Oriente-Nord Africa, tra gli interessi dei Fratelli musulmani (Turchia, Qatar, milizie jihadiste), delle monarchie del Golfo e dei vecchi e nuovi alleati (da Israele all’Egitto, passando per la Russia), e degli imperialismi “occidentali” (dagli Stati uniti alla Francia).

In gioco, come sempre, il controllo delle risorse strategiche (gas e petrolio), on e offshore, delle rotte commerciali (nel Mediterraneo passa circa il 15% mondiale delle merci provenienti dalla Cina, tramite Suez) e della mobilità dei flussi migratori, sia dal Medio oriente che dall’Africa sub-sahariana.

In questi giorni, la possibilità del “cessate il fuoco” ha inoltre messo in moto lotte intestine ai vari schieramenti in campo, con la sospensione, avvenuta la settimana scorsa del ministro dell’Interno del governo di Tripoli Fathi Bashaga, boss di Misurata e guida della resistenza tripolitana nell’ultimo anno contro Haftar.

È in questo scorcio che bisogna inserire e valutare le dichiarazioni dell’ex Capo politico dei 5 Stelle al momento Ministro degli Esteri.

La Libia è un paese sostanzialmente ancora in guerra, conteso da mezzo mondo, alle prese con l’espansione del Covid senza nessuna possibilità di intervento sanitario efficace e con la produzione di petrolio in stallo per l’occupazione haftarina dei pozzi più importanti. Inoltre nella scorsa primavera il governo italiano vendeva elicotteri da combattimento al vicino golpista egiziano al-Sisi sponsor di una delle due fazioni della guerra civile libica.

Ebbene, in questo quadro, il monito di difesa verso degli interessi delle aziende italiane in loco – si legga, Eni per l’estrazione di gas e petrolio e Impregilo per l’eventuale costruzione della litorale mediterranea – e la possibilità di investimento e occupazione, suonano irrimediabilmente come l’avventura di uno sprovveduto in un mondo che non comprende.

Che poi l’Italia sia in grado di “fare diplomazia” oltre i rappresentati usciti dalle urne elettorali è la storia recente che lo insegna: dai non-attacchi dell’Isis sul nostro territorio alla liberazione di Silvia Romano, ma si potrebbe andare indietro fino alla guerra in Jugoslavia ecc.

Rispetto al decadimento della classe politica nostrana, Di Maio non rappresenta un’eccezione quanto piuttosto il fedele prodotto della stagione neoliberista e subalterna dell’ultimo trentennio.

E bisogna dire che il ragazzo di Pomigliano d’Arco “non si aiuta”, essendo impegnato contemporaneamente nella lotta interna per la ripresa delle redini del Movimento, che passa tutta dalle alleanze (o meno) e dai risultati delle successive regionali e comunali, oltre che dal referendum sul taglio dei parlamentari.

L’occupazione da parte dell’Lna del giacimento petrolifero di Al Sahara, il più importante del paese; la discesa in campo dello spagnolo Joseph Borrell, alto rappresentante della politica estera e di sicurezza dell’Ue, per tentare di normalizzare la situazione (la spagnola Repsol ha una quota della compagnia esautorata dal controllo del giacimento); l’arrivo di nuovi mercenari sudanesi, russi e siriani; la lotta tra la fazione greca-egizia e turco-tripolina per il controllo del Mediterraneo. Insomma tutto tranne che una situazione tranquilla che possa facilitare e invogliare gli investimenti.

Ma questo scenario è tutto sullo sfondo per il ministro degli Esteri Di Maio, l’importante infatti è salvaguardare gli interessi delle nostre imprese. Che sarebbero poi gli “interessi generali”. Non dice forse così l’ideologia neoliberista?

Ma allora Di Maio era in Libia come ministro degli Esteri o come rappresentante aziendale?

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