Pubblichiamo la prima parte di una nota del Ministero degli esteri della Repubblica popolare di Lugansk, che riassume le vicende ucraine a partire dalla cosiddetta “indipendenza” dall’URSS, nel 1991, ma si concentra soprattutto, come è ovvio, sugli ultimi anni, dal “majdan” all’aggressione militare al Donbass.
Con il moltiplicarsi delle situazioni esplosive in altri punti della cintura ex-sovietica attorno alla Russia (Karabakh, Bielorussia, Kirghizija, Moldavia, ecc.) negli ultimi tempi l’attenzione per la questione del Donbass è colpevolmente scaduta, senza che, purtroppo, ce ne siano valide ragioni.
In Donbass, nelle Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk, si continua a morire, in un modo o in un altro: ammazzati di botte, come accaduto pochi giorni fa a un anziano di Mariupol per mano di alcuni nazisti di “Azov”; nei villaggi (anche se, fortunatamente, non così spesso come prima) a ridosso della linea del fronte, con le artiglierie ucraine che sparano, mascherate tra gli edifici civili delle aree occupate; oppure in “incidenti”, come accaduto il 24 ottobre al comandante del battaglione comunista “Prizrak”, Aleksej Markov, rimasto vittima di una sciagura automobilistica le cui circostanze sono ancora da chiarire.
In questo caso, viene da ricordare l’aforisma del “piccolo padre”: “Se una casualità ha conseguenze politiche, allora tale casualità va esaminata attentamente”. Markov aveva preso il comando del “Prizrak” dopo l’assassinio, nel maggio 2015, del comandante Aleksej Mozgovoj.
E se in Donbass si continua a morire per l’aggressione ucraina, che va avanti da più di sei anni, nella stessa Ucraina cambia qualche nome e qualche forma, ma la sostanza rimane per il momento quella del majdan, con tribunali che sentenziano che i simboli della divisione SS “Galizia” non sono nazisti e non possano quindi esser proibiti. Con gli squadristi di “Svoboda”, “Pravyj sektor”, “Natsional’nyj korpus” che continuano a organizzare marce dei collaborazionisti nazisti per le strade di Kiev; con il “nuovo” governo di Vladimir Zelenskij che si appresta a ospitare una nuova base militare straniera, questa volta britannica, nella regione di Nikolaev, con sbocchi sul mar Nero, a nordovest della Crimea.
Lo stesso governo che collabora con quello turco nella crisi del Nagorno-Karabakh, come a compensare il passato sostegno di Ankara al medžlis dei tatari che sognano la riconquista della Crimea.
E ancora: con le multinazionali USA e UE che continuano a far man bassa delle risorse del paese, come ad esempio la famiglia Biden; coi generali yankee che dipingono scenari “di tipo coreano” (parole del generale Frederick Benjamin “Ben” Hodges) dividendo il paese in due parti, come soluzione di “congelamento” del conflitto in Donbass.
Con esponenti governativi croati che consigliano a Kiev, quale variante per le ambizioni di Zelenskij di “sicuro reintegro” del Donbass, quella della pulizia etnica attuata da Zagabria ai danni della popolazione serba con la riconquista di Slavonia occidentale, Baranja, ecc., ma soprattutto nei confronti della Krajina Serba.
A Zagabria dimenticano forse che un tale scenario – coi neo-nazisti ucraini che si troverebbero di fronte non le poche forze della Krajina, ma ben addestrate milizie popolari – significherebbe certo una tragedia per la popolazione civile di LNR e DNR, ma, ancor più sicuramente, segnerebbe per Kiev il crollo definitivo del regime.
A parere di Andrej Kočetov, del presidium della Federazione dei sindacati di LNR, Kiev sogna davvero uno “scenario croato” per il Donbass, ma in realtà “non hanno né l’aspirazione né le capacità di prendere il Donbass con la forza. Lo capiscono molto bene”.
Inoltre, “gli abitanti del sudest sanno combattere bene e, quando necessario, lo fanno anche con molta soddisfazione”, mentre quelli “delle regioni occidentali non sono mai stati combattenti”. In effetti “nel carattere degli ucraini c’è anche questo tratto: che lo faccia chiunque, ma non noi”.
A Kiev, “sognano che arrivi un esercito ben armato a separare il Donbass dalla Russia”, dopo di che, gli ucraini “allestiranno in Donbass campi di concentramento e selezioneranno tutti: chi ha lavorato per i nemici, chi merita di essere ucraino e chi no, chi impiccare, chi mandare in galera“.
Fino a oggi, è ancora questa, purtroppo, l’Ucraina neonazista “dopo” il golpe di majdan; l’Ucraina colonia di USA, UE e delle multinazionali occidentali (e non solo); l’Ucraina cara ai “demo-atlantisti” del PD, ai Rampi dei “posti sbagliati”, ai Pittella dei “tuffi nella folla di majdan”, alle Boldrini & Co. delle sedute nazi-istituzionali, ai radicali nostrani della “incredibile rivoluzione della dignità”.
Non sarà così per sempre.
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Nota del Ministero degli esteri della Repubblica Popolare di Lugansk
La guerra civile in Ucraina non è affatto una casualità. Da molto tempo e in modo mirato il paese era stato preparato a una tale svolta degli eventi. Già durante la perestrojka, soprattutto nella sua fase conclusiva, avevano cominciato a riemergere dalla clandestinità vari rimasugli di nazionalisti a suo tempo non completamente sopraffatti.
All’inizio, sotto le sembianze della lotta per la democrazia e la glasnost, poi per la creazione di uno stato indipendente, varie formazioni nazionaliste e i loro rappresentanti avevano iniziato a insinuarsi attivamente negli organi statali dell’Ucraina, a quel tempo ancora sovietica.
L’incompetenza della leadership sovietica, sfociata in tradimento diretto degli interessi del paese e del suo popolo, insieme a ben noti fattori esterni, aveva portato a dolorose conseguenze: nell’agosto 1991 l’URSS crollò. G
iunse così l’ora dei nazionalisti ucraini: ricevettero un paese con infrastrutture di trasporto sviluppate, settori industriali avanzati, un enorme potenziale scientifico, popolazione istruita. All’inizio del 1991, l’Ucraina occupava l’undicesimo posto mondiale in termini di sviluppo economico. Il tutto, coronato da moderne forze armate.
Sembrava che di più non si potesse desiderare. Sviluppa ulteriormente il settore economico, adattalo alle nuove condizioni, eleva il benessere dei cittadini e, con ciò stesso, rafforza l’autorità internazionale del paese.
Ma no! Il complesso “di inferiorità” richiedeva di ricercare un nemico esterno, nella lotta contro il quale i “padri dell’indipendenza” vedevano il senso stesso dell’esistenza del paese. Nel sostenere la giustezza impeccabile di tale idea un ruolo non certo secondario venne svolto dai Servizi segreti stranieri e dalla diaspora.
Tra l’altro, entrambi questi soggetti perseguivano due obiettivi tra loro collegati: eliminare un concorrente economico e dar vita a una costante minaccia per la Federazione russa, sotto forma di uno stato nazionalista russofobo.
Con ciò, non si pensava affatto allo sviluppo della democrazia, dell’economia, o a elevare il livello di vita delle persone. Semplicemente, manipolando parole e concetti, puntando sul patriottismo dei semplici cittadini, i soggetti a ciò interessati fecero tutto quello che volevano col destino del paese. Le forze interne e esterne, in maniera mirata, condussero il paese a una tragica svolta.
Sin dai primi giorni dell’indipendenza, i suoi dirigenti fecero di tutto per “condurre l’Ucraina verso l’Occidente”, impersonato in primo luogo dagli USA. Considerati i secolari legami di sangue dei popoli russo e ucraino, ciò venne portato avanti in maniera graduale, non immediatamente avvertibile alla maggioranza dei cittadini, incuneando man mano nelle coscienze la ferma convinzione di una ostilità patologica della Russia verso l’Ucraina e tutto quanto fosse ucraino.
A ogni tappa della costruzione dello Stato nazionalista, vennero posti e metodicamente perseguiti precisi obiettivi. Tra essi: cambio di simboli e inno, ostinata introduzione della lingua ucraina in tutte le sfere della vita sociale e statale, inganno diretto della popolazione, manipolazione di termini e concetti, dispregio dei risultati dei referendum, sia di quello sovietico del 17 marzo 1991, sia di quello del 27 marzo 1994 in Donbass.
Non è un segreto per nessuno, che le rivoluzioni colorate siano il prodotto di tecniche perfezionate. Dunque, esse non avvengono per caso, di per sé, nemmeno quando sia veramente maturata una situazione rivoluzionaria, l’essenza della quale era stata enunciata da Lenin nella formula, universalmente conosciuta, secondo cui “le classi inferiori non vogliono vivere come prima, mentre le classi dominanti non possono spadroneggiare e governare come prima”.
In ogni singolo paese in cui sia avvenuta una rivoluzione colorata, si perseguiva in realtà un preciso obiettivo. In Ucraina, scopo principale della rivoluzione arancione del 2004 era stato quello di minare l’autorità, screditare il potere statale agli occhi dei cittadini ucraini e della comunità internazionale. E anche, naturalmente, provare la disponibilità della società ucraina, a tutti i livelli, alla liquidazione del paese. Per questo, venne imbastito il majdan e venne inscenata la farsa assolutamente illegale del “secondo turno” per le elezioni presidenziali.
Tra l’altro, in quel momento, non tutta la popolazione era pronta a seguire i principi dell’opportunità rivoluzionaria (leggi: illegalità). Ancora una volta, il Sudest del paese si disinse per la propria unicità. Per questo, già allora i suoi abitanti venivano rabbiosamente additati come accaniti controrivoluzionari, schiavi, cui era estranea ogni ricerca della vera libertà. Ovviamente, si è poi tenuto conto di questa “spiacevole circostanza”.
Per quanto storici, politologi, esponenti della cultura, cerchino di presentare l’individuo moderno come una sorta di umanista civilizzato, la pratica mostra tutt’altra cosa. Purtroppo, un determinato numero (abbastanza significativo) di rappresentanti del genere umano misurano il livello della propria felicità e del proprio benessere su una scala di valori molto concreta, sulla quale un ruolo chiave è occupato dai beni materiali.
Questo, mentre i valori spirituali rivestono un ruolo ausiliario, secondario e qualche volta non necessario. Limitate un tale soggetto nella realizzazione dei propri istinti consumistici e quello, da individuo all’apparenza del tutto onesto, si trasformerà in un autentico animale.
È per loro che viene allestita la cosiddetta “vetrina”; l’essenza della quale consiste in ciò: all’inizio viene elevato il livello di vita generale. L’individuo viene fatto assuefare all’accessibilità di determinati beni materiali: dai piccoli gingilli, alle automobili, dagli appartamenti, alla possibilità di viaggiare, ecc.
Quando l’individuo è completamente dipendente dai consumi e abituato a un determinato tenore di vita, “inaspettatamente” sopravvengono la crisi e il crollo repentino della moneta nazionale, attribuiti all’incompetenza dei dirigenti del paese.
Quindi, l’indignazione dei cittadini, data “semplicemente dalle azioni delittuose” del governo o del presidente, attraverso una pura serie associativa viene abilmente reindirizzata contro lo Stato ucraino e i suoi organi. Il risultato è un atteggiamento negativo dei cittadini nei confronti del proprio paese.
Dopo che Viktor Fëdorovič (Janukovyč; ndt) e compagni riuscirono in qualche modo ad arrivare al potere, cominciò il processo inverso: a metà del 2010, “252 deputati” (della frazione «Partito delle regioni» e loro alleati in Parlamento) indirizzarono alla Corte costituzionale ucraina il quesito con la richiesta di annullamento della “Riforma costituzionale”.
Tenendo conto del carattere a lungo termine del programma di trasformazione dell’Ucraina in colonia, giocò un proprio ruolo in questo processo anche il presidente Janukovič, meglio conosciuto nell’Ucraina attuale come “dittatore sanguinario”.
Occupando le posizioni chiave nell’economia e nella politica del paese, regolandosi sugli individuali interessi mercantili, essi non ammisero estranei alla spartizione dei beni nazionali. Si capisce: dov’è il piacere di dividere con la concorrenza?!
Dopo la vergognosa fuga di V. Janukovič e l’arrivo al potere dei putschisti nelle regioni occidentali del paese, ebbe inizio la parata dei tumulti del popolo “risvegliatosi”, che si espresse nel sequestro delle amministrazioni. In quelle azioni, gli attivisti costrinsero gli amministratori locali a mettersi in ginocchio e chiedere perdono al popolo insorto, oppure presentare per iscritto le proprie dimissioni.
Parallelamente, con le armi trafugate dagli arsenali delle Forze armate ucraine, si procedette all’armamento degli elementi radicali. E dunque? Niente! Tutte queste azioni vennero appoggiate dalla autoproclamatasi leadership del paese.
E invece, la protesta autenticamente pacifica degli abitanti del Sudest contro l’arbitrio dilagante nel paese, sollevò una fragorosa reazione negativa a Kiev, che si trasformò in aggressione militare, chiamata ufficialmente ATO (Anti-Terrorističeskaja Operatsija; ndt).
A quel punto, avvertendo qualcosa di stonato, una determinata parte di rappresentanti del grosso business ucraino spera in un cambiamento di leadership del paese. In questo modo, pensano quelli, andrà tutto di nuovo a posto. Tuttavia, è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume.
Nelle nuove circostanze, la Russia non sosterrà più lo stato russofobo ucraino con prezzi di dumping su prodotti energetici e materie prime. Bisognerà dunque adattarsi a queste molto spiacevoli condizioni di business onesto. Chi non si adatta, perderà. Sono queste le condizioni del capitalismo e ad esse non si sfugge.
C’è da dire che, insieme alla leadership statale, agli oligarchi, ai nazionalisti, un ruolo assolutamente non secondario nel tragico scatenamento del conflitto in Ucraina è stato giocato dalle forze armate.
Purtroppo, praticamente nessuno dei punti del protocollo (per gli accordi di Minsk; ndt) è mai stato rispettato, in particolar modo per colpa della parte ucraina, che ha approfittato della tregua per ripristinare e sviluppare le proprie forze armate. A un certo punto, alla leadership e ai comandi militari ucraini era parso di aver accumulato forze sufficienti per sconfiggere le milizie.
Dopo una serie di provocazioni armate, il 18 gennaio 2015 l’esercito ebbe l’ordine di aprire un fuoco massiccio sul nemico. Quel giorno, praticamente Minsk-1 cessò di operare.
E venne il tempo dell’ennesima vergogna per l’esercito ucraino, nella sacca di Debaltsevo e la firma, il 11-12 febbraio 2015, del Complesso di misure per l’adempimento degli accordi di Minsk (Secondo accordo di Minsk). Esso comprende 13 passi conseguenti per la normalizzazione della situazione in Donbass.
Tra essi: immediato e completo cessate il fuoco; arretramento dei mezzi bellici pesanti; dialogo per l’indizione di elezioni locali in LNR e DNR; garanzia di indulto per i combattenti; scambio di ostaggi; fornitura di assistenza umanitaria alle aree colpite; ripristino dell’assistenza sociale, compreso il pagamento delle pensioni e degli altri benefici sociali; ripristino del controllo sulle frontiere da parte del governo ucraino; ritiro delle formazioni armate straniere; riforma costituzionale (entro la fine del 2015). Con ciò, che i passi della leadership ucraina nella sfera legislativa avrebbero dovuto essere coordinati con i rappresentanti di LNR e DNR.
Purtroppo, anche l’adempimento di questi accordi viene sabotato da parte ucraina. Parallelamente, “l’Indipendente” (majdan Nezaležnosti: piazza Indipendenza; ndt) schiera metodicamente in Donbass i propri raggruppamenti militari e si fanno più frequenti i tentativi di far fallire gli accordi di Minsk.
Evidentemente, non possono proprio darsi pace! E invece, dovrebbero davvero!
Nemmeno le Repubbliche popolari, ricordando la lezione dell’inverno 2015, non hanno perso tempo. Le milizie vengono trasformate in due potenti corpi d’armata, forti di eccellenti rifornimenti. E le stesse LNR e DNR non sono più regioni insorte, come un anno prima, bensì, di fatto, due Stati a tutti gli effetti, capaci di mobiltarsi per respingere il nemico. Tutto questo, sullo sfondo dell’inizio del disfacimento e del caos in Ucraina, non lascia alla sua leadership chances alcuna di successo.
Continua
(premessa e traduzione di Fabrizio Poggi)
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