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La guerra in Etiopia: verso l’offensiva finale?

Giovedì scorso, il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha affermato che l’esercito federale stava per entrare nella “fase finale” nell’offensiva contro i “ribelli” Tigray, nel Nord del Paese.

L’ultimatum di tre giorni per deporre le armi dato da Abiy al TPLF (Tigray’s People Liberation Front)  era terminato mercoledì notte.

Si prepara quindi l’assalto alla capitale della regione – Mekelle – una città di mezzo milione di abitanti, “roccaforte” dei ribelli che fino al 2018 erano di fatto la leadership del Paese.

Nella regione settentrionale teatro del conflitto – di fatto isolata dall’inizio dell’escalation bellica -, confinante con il Sudan ad est e con l’Eritrea a Nord, vivono 5 dei circa 110 milioni d’abitanti del Paese.

Il governo etiope afferma di avere preso il controllo, tra le altre, delle città di Axum, Adwa e di Adigrat, a Nord di Mekelle.

Stando a ciò che riporta il TPFL, l’Esercito Federale avrebbe avuto migliaia di morti, e l’intera 21 divisione meccanizzata sarebbe stata distrutta.

L’offensiva coinvolgerebbe, oltre l’aviazione, l’artiglieria pesante e l’uso di tank per circondare la città, l’uso di forze speciali e le milizie di alcuni dei maggiori gruppi etnici.

In un messaggio al canale televisivo di Stato, la Ethiopian Broadcasting Corporation, il colonello Dejene Tsegaye, portavoce militare, ha dichiarato: “vogliamo mandare un messaggio chiaro agli abitanti di Mekelle per salvarsi dagli attacchi dell’artiglieria”, invitandola ad allontanarsi dal TPLF, affermando che successivamente “non ci sarà pietà”.

Nonostante Abiy abbia più volte ribadito l’interesse per la tutela dei civili  si temono pesanti ripercussioni su di loro, e già più di 40mila profughi sono arrivati in Sudan dall’inizio delle ostilità: secondo l’ONU il numero di coloro che potrebbero lasciare il Paese nelle prossime settimane è di oltre 200mila.

La Commissione Etiope per i Diritti Umani ha recentemente dichiarato che il massacro di 600 lavoratori di etnia Amhara e Wolkait è stata opera di un gruppo di giovani Tigray, con la dirigenza del TPFL che aveva declinato in precedenza ogni responsabilità.

Il conflitto potrebbe proseguire anche dopo la non certo facile presa della capitale regionale, ed assumere il profilo della classica guerra asimmetrica, considerata la morfologia montuosa del terreno, la pregressa esperienza guerrigliera del TPLF (punta di lancia della sconfitta di Mengistu Haïlé Mariam nel 1991), il consenso di cui gode in quell’etnia, oltre il notevole livello di addestramento e di equipaggiamento militare.

La formazione – allora di ispirazione marxista-leninista, che guardava all’esperienza socialista albanese – è nata il 18 febbraio del 1975 a Dedebit per opera di un gruppo di studenti, contadini e sottufficiali, non era il solo e nemmeno il più importante gruppo a combattere il “regime” allineato all’Unione Sovietica.

Un anno dopo, nel suo manifesto, affermava la priorità di ingaggiare la lotta armata per la creazione di una repubblica democratica indipendente in Tigray. Già negli Anni Settanta le discussioni sulla questione nazionale erano piuttosto accese tra i gruppi degli oppositori.

Bisogna ricordare che il “regime” non è mai riuscito ad annichilire la sua resistenza armata e proprio in quella regione il nascente colonialismo italiano subì una cocente sconfitta nella battaglia di Adua, nel 1896.

Sin dal suo nascere, questa esperienza ha sempre preferito evitare lo scontro frontale in terreno aperto con le truppe meccanizzate, preferendo l’usura ed il logoramento del nemico nel maquis.

Lo storico Gérard Prunier, che dirige il Centro Francese per gli Studi Etipi ad Addis-Abeba e che ha vissuto direttamente quell’esperienza guerrigliera, ha dichiarato a Le Monde:

Gli uomini del TPLF hanno nascosto le armi e le munizioni in diversi punti. Le truppe federali, o quello che ne resterà, con i loro alleati delle differenti milizie, tra cui quelle Amhara, possono prendere le città. Ma c’è da scommettere che dovranno affrontare una guerriglia estremamente difficile da vincere”.

La crisi politica tra il governo centrale dello Stato del Corno d’Africa, guidato da poco meno di tre anni dal Premino Nobel per la Pace dello scorso anno, ha assunto il profilo dello scontro militare vero e proprio il 4 novembre scorso.

Poco più di tre settimane fa, infatti, erano stati attaccati dal TPLF i distaccamenti del Commando Nord dell’Esercito militare.

Abiy e il TPLF erano giunti ai ferri corti da settembre quando, nonostante le elezioni fossero state rimandate sine die, ufficialmente a causa del Covid-19.

Sfidando il potere centrale, le elezioni nella regione settentrionale del Tigray si erano tenute lo stesso, con un’alta partecipazione e un plebiscito per il “Fronte”: una secessione di fatto, per una regione abitata prevalentemente dai tigrini che, sebbene costituiscano solo il 6% del “mosaico etnico” etiope, avevano esercitato nei 27 anni del dopo-Derg l’egemonia politica nel Paese.

Un segno della possibile disgregazione del Paese, che ha 1 milione ed 800 mila “sfollati” interni, per la maggior parte dovuti ai conflitti locali, e dove la richiesta di maggiore autonomia è vista come “il fumo negli occhi” dal Primo Ministro, dopo il referendum vittorioso nella regione di Sidama.

L’agenda del Primo Ministro è chiara: imporre la sconfitta militare al TPLF con una “operazione di mantenimento dell’ordine”, affidare la leadership ribelle alla “giustizia” – sono stati già spiccati mandati d’arresto per 76 dirigenti -, e imporre un governo regionale “ad interim”, cercando di evitare sul nascere le spinte secessioniste e la balcanizzazione del Paese.

Nonostante il passato coloniale nella regione, in Italia non se ne parla, come nel resto dell’Occidente, che sembra prendere coscienza di ciò che accade “altrove” solo quando i fenomeni di portata epocale investono la cittadella europea.

I vari tentativi di trovare una exit strategy non militare del conflitto sono stati respinti al mittente dal Primo Ministro, secondo cui le potenze straniere non dovrebbero “immischiarsi” negli affari interni etiopi.

I leader del TPLF – che Abiy definisce una “cricca criminale” – hanno affermato che sono “pronti a morire”, anche se non è chiaro se “difenderanno” Mekelle.

Il capo della diplomazia dell’Unione Europea, Josep Borrell, aveva dichiarato la scorsa domenica che “l’escalation militare e l’instabilità di lungo periodo nel Paese e nella regione devono essere evitate”.

Al coro di voci preoccupate per le possibili conseguenze dell’assalto finale si è unita quella di Jack Sullivan, neo-nominato consigliere per la Sicurezza Nazionale dal presidente Joe Biden: “entrambi le parti dovrebbero immediatamente iniziare le discussioni facilitate dall’Unione Africana”.

Tibor Nagy, US assistant secretary per gli Affari Africani – il diplomatico di lungo corso che l’amministrazione uscente aveva scelto per occuparsi delle priorità statunitensi in Africa – aveva in precedenza dichiarato, riferendosi alla situazione etiope: “non è questione di due Stati sovrani che si combattono. È una fazione del governo che amministra una regione che ha deciso di iniziare le ostilità contro il governo centrale, e non ha avuto l’effetto che pensavano che avrebbero ottenuto”.

Bisogna ricordare che l’Etiopia è uno dei perni, insieme al Sudan ed all’Angola, della strategia Usa di contenimento della Cina in Africa e uno dei territori principali di penetrazione del Fondo Monetario Internazionale nell’economia più sviluppata del Corno d’Africa.

L’attuale segretario dell’Unione Africana – il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa – ha mandato tre inviati di alto livello in Etiopia per cercare uno sbocco positivo al conflitto.

Il governo etiope ha detto che nessun inviato sarà autorizzato ad incontrarsi con la dirigenza del TPLF.

Un portavoce etiope di lungo corso ha affermato che: “tutti gli scenari saranno messi sul tavolo della discussione, eccetto portare la gang al tavolo come entità legittima”.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è riunito la settimana scorsa per parlare per la prima volta della guerra civile in corso, senza adottare una soluzione comune. Il Segretario Generale António Guterres ha insistito nuovamente sul dialogo e la protezione della popolazione, ma senza andare oltre.

Giorni fa il segretario generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, etiope di “etnia” tigrina, ex ministro degli esteri e della sanità dell’Etiopia dal 2005 al 2016, aveva smentito le accuse secondo cui stava tentando di assicurare rifornimenti militari e appoggiare i leader del Tigray, fatte da un generale dell’esercito federale.

Hailemariam Desalegn, predecessore di Abiy, in un articolo sul Foreign Policy ha accusato la comunità internazionale di “falsa equidistanza”.

L’ex Primo Ministro alla guida del Paese dal 2012 al 2018, il primo dopo quasi vent’anni al potere di Meles Zenawi, ha di fatto preso le difese dell’attuale leadership, dichiarando che Abiy e il TPLF – che ha chiamato: “vecchio regime revanchista” -non potevano essere messi sullo stesso piano.

Ciò che si sta svolgendo in Etiopia è una partita politica rilevante per la regione.

L’Esercito Federale contribuisce largamente a missioni di peace-keeping in Somalia e nel Sudan del Sud, è al centro di una disputa con il Sudan e l’Egitto – per ora senza sbocchi – sullo sfruttamento delle acque del Nilo, per la costruzione di una diga che dovrebbe creare il più grande impianto idro-elettrico del continente.

Un conflitto che rischia di “internazionalizzarsi”, visti gli attacchi reiterati all’Eritrea da parte del TPLF ed il flusso di profughi in Sudan, e che condizionerà gli equilibri in un continente dove si stanno riconfigurando le gerarchie del mondo post-pandemico.

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