L’Etiopia è precipitata da due settimane in una spirale di violenza.
Il Primo Ministro Abiy Ahmed, da meno di tre anni alla guida del Paese – e a cui l’anno scorso è stato conferito il Premio Nobel per la Pace -, ha lanciato uno operazione di “ristabilimento dell’ordine” nel distretto settentrionale etiope del Tigray, che confina a nord con l’Eritrea (Paese con cui aveva siglato recentemente la pace) ed ad est con il Sudan.
L’operazione di “Law Enforcement” è stata lanciata ufficialmente in seguito all’attacco avvenuto nella notte tra il 3 e 4 novembre alla base militare federale della 5° Divisione-Comando Nord da parte del TPLF, Tigray People’s Liberation Front.
L’esercito ha impiegato l’aviazione e le truppe di terra, oltre alle milizie Amhara – si paventa l’utilizzo anche di quelle Oromia – che hanno affiancato l’Esercito regolare, partendo proprio da Dansha, la città della regione Amhara a sud del Tigray, come testa di ponte per i convogli militari e la logistica necessaria allo sforzo bellico.
È un conflitto che rischia di “internazionalizzarsi” presto, considerati gli attacchi del TPLF anche in territorio Eritreo – nemico storico del Fronte – che hanno raggiunto la capitale Asmara (tra cui l’aeroporto), nonché per il flusso di circa 30 mila profughi, fuggiti in Sudan dalle zone calde dal conflitto.
L’Etiopia ha siglato una pace con l’Eritrea dopo che il conflitto armato del 1998-2000 aveva fatto ben 70 mila morti, Questa pace è uno dei fiori all’occhiello della nuovo astro della politica etiope.
I leader dei due Paesi – Abiy Ahmed e Isaias Afewerki – hanno ora ottimi rapporti.
Abiy aveva promesso una positive peace nel Paese che però non ha saputo mantenere, vista la crescita del conflitto centro/periferia e la recrudescenza del conflitto etnico, che sta annichilendo il processo di nation building che intendevava sviluppare.
Una conflitto sull’orlo della “guerra etnica”, considerato appunto l’impiego reale o paventato di milizie di etnie storicamente ostili al TPLF, che potrebbe avere ripercussioni contro la comunità Tigray presenti nelle altre regioni del Paese.
I tentativi di mediazione, proposti ad Abiy sia dell’Unione Africana che dall’ONU, non sono stati accolti, mentre si moltiplicano le iniziative diplomatiche portate avanti singolarmente da politici africani come l’ex presidente della Nigeria e l’attuale presidente dell’Uganda. Il presidente del Gibuti, Ismaïl Omar Guelleh, ha di fatto appoggiato l’operazione.
Guelleh, in una intervista al giornale Jeune Afrique, ha affermato testualmente: “Abiy Ahmed non aveva altra scelta che quella di punire coloro che volevano spaccare l’Etiopia.”
Una presa di posizione importante di un Paese che ospita differenti contingenti militari internazionali – tra cui uno italiano – e che ha un porto strategico in uno stretto strategico sul Mar Rosso.
Questo martedì, il Primo Ministro ha dichiarato che l’offensiva è entrata nella sua fase finale, per riprendere la capitale della regione del Tigray, Mekele (questo lunedì bersaglio di attacchi contro l’artiglieria Tigray, che sembrano aver coinvolto anche civili), dopo che l’Esercito ad inizio settimana aveva ripreso la città di Alamata, 120 km più a sud.
L’offensiva che vorrebbe essere finale viene dopo l’ultimatum inascoltato lanciato dal primo ministro alcuni giorni fa, che imponeva al TPLF di lasciare le armi.
Un assalto che rischia però di essere piuttosto complicato, considerato il territorio montagnoso che circonda Mekele, le capacità dimostrate dal “Fronte” nell’uso dell’artiglieria pesante e l’esperienza militare maturata.
La regione è di fatto isolata e, come sempre, è difficile districarsi tra la narrazione ufficiale e quella della controparte.
Il TPLF è una formazione politico-militare che dispone di circa 250 mila effettivi – secondo le stime dell’International Crisis Group – cioè un vero e proprio esercito ben armato e modernamente addestrato, i cui ranghi sono stati la spina dorsale dell’Esercito Federale (ENDF), che conta circa metà degli effettivi stando a ciò che dichiara la CIA.
Secondo un analista militare citato dal Financial Times, “la maggior parte di loro è giovane. Hanno ricevuto un addestramento militare moderno dai generali e dai commandos che hanno servito l’Etiopia per molti anni.”
Per 25 anni circa il “Fronte” è stato il perno della coalizione quadri-partitica – l’EPRDF – che ha governato il Paese dopo la cacciata del “regime” di Derg manu militari, ad in inizio anni Novanta, in cui proprio ha il TPLF avuto un ruolo di primo piano.
Nonostante questa etnia costituisca solo il 6% della popolazione, in uno Stato federale con 10 distretti territoriali e più di 80 etnie, è stata politicamente egemone fino all’arrivo di Abiy al potere.
La stabilità sociale e – per quanto precario – l’equilibrio inter-comunitario è stato assicurato da un impetuoso sviluppo economico a doppia cifra, nonostante il Paese non sia ricco di “risorse naturali”, con un ruolo preponderante dello Stato nell’economia, ed ingenti investimenti in settori-chiave, tra cui l’istruzione e la salute, oltre a dighe e strade.
Una modalità di sviluppo che gli analisti descrivono di tipo asiatico, realizzata grazie anche agli investimenti esteri, in particolare quelli cinesi. Il debito nei confronti della Repubblica Popolare è di 16 miliardi di dollari, contro i 20 del Kenya ed i 450 milioni di Gibbuti, per avere un confronto con gli altri Stati della regione.
Per dare una idea dell’avanzamento del Paese, dalla cacciata di Derg (1991) a oggi, l’aspettativa di vita è passata dai 40 anni ai quasi 68 attuali; e sono circa 850 mila gli etiopi che studiano all’università.
L’uomo che per circa vent’anni ha traghettato l’Etiopia è Meles Zenawi (1995-2012), rendendola il Paese più prospero del “Corno d’Africa”.
La situazione è in parte mutata con le rivolte di alcuni anni fa, che hanno mostrato l’insofferenza dei maggiori gruppi etnici del Paese (Oromo ed Amhara) nei confronti della rendita di posizione politica Tigray; la loro “alleanza” ha portato al potere l’attuale Primo Ministro.
La scure repressiva era del resto l’altra faccia della medaglia nello sviluppo etiope, allentata in parte con il nuovo corso politico di Abiy, con la liberazione di 60 mila prigionieri politici e la di fatto legalizzazione dell’opposizione.
In questi quasi tre anni Abiy ha di fatto estromesso la vecchia leadership politica – anche attraverso l’uso della leva giudiziaria -, andando sempre più ai ferri corti con il TPLF, nonostante lui stesso sia stato (come ex-ufficiale dell’intelligence) parte integrante del vecchio assetto di potere, che paradossalmente ora definisce “27 anni di oscurità“.
L’attuale escalation militare costituisce insomma l’approfondimento di una crisi politica che ha investito la legittimità stessa dello Stato etiope.
A marzo – ufficialmente a causa della pandemia – le elezioni che avrebbero dovuto svolgersi ad agosto sono state posticipate sine die. Un atto che è stato giudicato dall’opposizione l’illegittima perpetuazione dell’assetto di potere inaugurato nel febbraio del 2018, con l’ascesa di Abiy.
Il TPLF ha deciso di svolgere lo stesso le elezioni l’8 settembre, nella regione che è il suo storico bastione, caratterizzate da una grande partecipazione al voto e da un vero e proprio plebiscito per la formazione politica.
Queste elezioni non sono state naturalmente accettate dal governo centrale, che vede come fumo negli occhi il ripetersi di un atto simile.
Questo rimane comunque un segnale di disgregazione del difficile equilibrio federale garantito dalla Costituzione del 1994, che il Primo Ministro vorrebbe superare con una maggiore centralizzazione ed una riforma di tipo presidenziale, che bypassi il processo decisionale dentro la coalizione quadripartitica.
Il Tigray, poi, attraverso l’esperienza politica di un diplomatico di lungo corso come Wondimu Asammew, ha di fatto iniziato ad interagire con soggetti terzi come una realtà politica a sé.
Da settembre, quindi la situazione è andata deteriorandosi.
il conflitto che si è sviluppato in Etiopia, che gli attori internazionali avversi al Primo Ministro hanno tutto l’interesse ad esacerbare, va collocato nel suo contesto geopolitico e non solo.
L’Etiopia era uno dei Paesi cardini per gli USA – insieme ad Angola e Sudan – del tentativo di ribaltare l’influenza cinese in Africa; conemporaneamente alla penetrazione del Fondo Monetario Internazionale, che ha dicembre aveva concesso un prestito di quasi 3 miliardi di dollari, in cambio di una serie di “riforme” in differenti settori monopolizzati dalle aziende statali (telecomunicazioni, trasporti, raffinerie di zucchero, settore bancario, ecc).
Allo stesso tempo, l’Etiopia è al centro di un conflitto regionale a causa della costruzione del più grande impianto idro-elettrico del continente – la Grand Ethiopian Rennaissance Dam – che raddoppierà la capacità attuale di produrre energia elettrica grazie allo sfruttamento delle acque del Nilo. Un’opera imponente, del costo previsto di 4,8 miliardi di dollari, totalmente sostenuta dall’acquisto di “bond patriottici”.
Questo sbarramento d’acqua preoccupa non poco sia l’Egitto, le cui risorse idriche derivano quasi totalmente dal fiume che scorre per circa 6 mila km, che il Sudan, che nel corso degli anni ha a sua volta investito in progetti di sbarramento del fiume – entrando in conflitto con l’Egitto – per aumentare la propria capacità di produzione energetica.
L’ultimo round della trattative a tre: Etiopia, Egitto e Sudan (caldeggiato dagli attori internazionali) si è interrotto prima del tempo per la mancanza di progressi nelle trattative su questa delicatissima questione, su cui Abiy non è intenzionato a fare passi indietro, arrivando a contrapporsi duramente a Donald Trump.
Tempo fa, in uno dei suoi tweet, l’ormai ex presidente degli USA aveva auspicato che l’Egitto “faccia saltare la diga”, facendo andare su tutte le furie il Primo Ministro etiope.
Non proprio un aiuto all’azione di Tobor Nagy – tra l’altro ex ambasciatore in Etiopia – l’incaricato USA della precedente amministrazione Trump, che finora ha “portato a casa” solo la normalizzazione dei rapporti diplomatici del Sudan con Israele (in compenso, i russi hanno rafforzato la cooperazione accordandosi per la costruzione di una base militare), ma senza far avanzare di molto, nella regione, gli interessi statunitensi e dei suoi maggiori alleati (Arabia Saudita, EAU, Egitto ed Israele).
È chiaro che una balcanizzazione dell’Etiopia porterebbe portare all’ulteriore estensione di fenomeni simili a tutta la regione, già minata da una forte instabilità. Si pensi alla Somalia o ai conflitti interetnici in Sudan. Un continente dove – anche se i media non ne parlano – vanno definendosi i futuri equilibri mondiali del mondo post-pandemico.
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Letizia
Attenzione a non assumere la propaganda come notizia.
Qui di etnico come sempre c’è solo il lontano sottofondo
Sono interessi imperialisti che oppongono Cina USA in parte l’Europa, non ultima la Turchia e i suoi alleati nella zona