Il neopresidente “democratico” Joe Biden sta definendo la politica internazionale della nuova amministrazione Usa ed ha già messo nel mirino sia relazioni conflittuali con Russia e Cina, sia l’interferenza nella politica europea attraverso la Nato (come ebbe a dire Brzezinski, ndr), partendo dalla Germania, dove intende bloccare il parziale ritiro delle truppe statunitensi deciso da Trump.
Ha annunciato inoltre una “rivalutazione” da parte del Pentagono della presenza delle truppe americane nei vari scacchieri internazionali.
“La diplomazia e l’America sono tornate”, ha avvisato Biden prima di tracciare la sua visione sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo. L’esordio non poteva essere più chiaro: “È arrivato il momento di fronteggiare gli autoritarismi di Cina e Russia”, ha affermato, mettendo nel mirino in particolare Vladimir Putin: “sono finiti i tempi in cui subivamo le azioni ostili di Mosca, a differenza del mio predecessore ora non esiteremo ad alzare il prezzo”, ha ammonito, chiedendo poi la liberazione immediata e senza condizioni di Alexey Navalny.
Il New Start, l’ultimo trattato con la Russia per il controllo degli arsenali nucleari, era stato rinnovato per altri cinque anni da Trump ma adesso l’amministrazione Biden parla di sanzioni contro Mosca.
L’unica anomalia è lo stop del sostegno americano alla guerra saudita in Yemen, che ha causato uno delle peggiori crisi umanitarie del mondo, con la morte di migliaia di civili, ma che non è mai stata prioritaria nella definizione degli equilibri in Medio Oriente. “Questa guerra deve finire», ha detto Biden, annunciando anche la nomina di un nuovo inviato Usa per lo Yemen, Timothy Lenderking.
Rispetto a Trump la scelta sembrerebbe quella di ridare protagonismo al Dipartimento di Stato e non al Pentagono o alla Cia. La diplomazia e i diplomatici, nell’epoca trumpiana – come descritto magistralmente nel libro di Bob Woodward (“Paura. Trump alla Casa Bianca“, ndr) – erano stati spesso marginalizzati, derisi o guardati con sospetto da un presidente che definiva il Dipartimento di Stato come “the Deep State Department”.
Joe Biden ha ventilato il rientro nell’accordo di Parigi sul clima e nell’Oms. Ma sul piano strategico ha già fatto capire che il nemico numero uno resta la Cina, contro cui l’amministrazione Biden punta a coinvolgere gli alleati europei.
Biden intende cambiare atteggiamento anche sull’Afghanistan e sulla Corea del nord, annunciando rispettivamente la revisione dell’accordo di Trump con i talebani per il ritiro delle truppe statunitensi dal paese e un nuovo approccio bastone e carota per la denuclearizzazione, tra sanzioni ed incentivi verso la Corea del Nord.
In Medio Oriente Usa invece dovrebbero rientrare nell’accordo sul nucleare iraniano ma “solo dopo che Teheran tornerà a rispettarlo ma puntano poi ad una nuova intesa più forte e duratura”, con garanzie anche sul programma missilistico convenzionale dell’Iran.
Ovviamente dell’eredità trumpiana Biden salva solo gli “accordi di Abramo”, con l’aspirazione di rafforzare i rapporti tra Israele e i Paesi Arabi, confermando la soluzione dei “due Stati” nel conflitto di Israele contro i palestinesi è ormai inconsistente.
Insomma, l’ambizione della America First, almeno nella sua dimensione più aggressiva e imperialista, sembra essere molto più forte con l’amministrazione Biden di quanto lo sia stata con Trump.
Un approccio tutt’altro che “gentile”, come scrive invece Foreign Policy. Resta da vedere se il ritorno all’imperialismo nella sua accezione più globale sarà sufficiente per arrestare quel complessivo declino degli Stati Uniti che ormai molti analisti vedono.
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