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Il ritiro USA dall’Afghanistan e la competizione globale

In questi mesi si stanno succedendo a scala internazionale avvenimenti che meriterebbero discussioni ed approfondimenti meno impressionistici e superficiali. Capita – nella nostrana e provinciale Italietta – che l’intero circo mediatico della comunicazione espelle dalla sua attenzione eventi importanti che hanno segnato e continueranno necessariamente ad incidere nel prosieguo del corso generale della crisi, sul versante delle relazioni diplomatiche internazionali e – soprattutto – nell’ambito dei fattori di competizione internazionale tra potenze, blocchi economici e aree monetarie.

Ci riferiamo all’annuncio e all’avviato ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan unitamente alle variegate conseguenze che questa decisione della Casa Bianca avrà, non solo sul terreno militare in quell’area del mondo, ma, particolarmente, nella continua contesa e nei rapporti di forza internazionali.

Un avvenimento, quello del ritiro delle truppe USA, che, prima ancora di ogni valutazione di ordine politico, rappresenta una chiara sconfitta militare dell’esercito americano e del complesso delle sue strategie militari. Un ricorso storico che ricorda la vicenda dell’Armata Rossa, agli inizi degli anni Ottanta, quando gli USA implementarano la guerriglia Islamica per scalzare il governo laico e progressista dell’Afghanistan.

Da quell’autunno del 2001 – all’indomani dell’attacco dell’11 Settembre alle Torre Gemelle a New York – che spinse l’Amministrazione statunitense e, successivamente, l’intera NATO ad un grande interventismo bellico in Afghanistan si sono accumulate oltre 200000 vittime tra le popolazioni locali e circa 5000 caduti si sono registrati nei vari contingenti occidentali e tra le file dei vari contractor e/o mercenari.

Naturalmente – specie per le vittime tra le popolazioni – le cifre sono approssimate per difetto in mancanza di numeri certificati ma ciò che è andato distrutto, oltre alle vite umane, è la struttura statuale e sociale di paesi (come l’Afghanistan e lo stesso Pakistan) i quali hanno osato mettere in discussione l’ordine statunitense in quel quadrante geo/politico attirandosi contro almeno due decenni di guerra senza fine.

Oltre 20 anni di aggressione armata strumentalmente ammantata da crociata antiterroristica, da cosiddetti indispensabili conflitti umanitari e da altre operazioni ideologiche di mistificazione che sono servite a coprire l’evidente essenza neo/coloniale ed imperialistica di queste guerre.

Per due decenni gli Stati Uniti (quelli di Bush e quelli di Obama, quelli di Trump e quelli di Biden) hanno provato ad esercitare – nella fase post Muro di Berlino e del presunto unipolarismo globale – la funzione di gendarme del mondo ritenendo di difendere, con ogni mezzo necessario, le virtù mirabolanti della globalizzazione dei mercati anche attraverso l’occupazione militare di aree del globo cruciali per le reti energetiche, per le risorse minerarie e per tutto l’arco dell’infrastruttura economica e finanziaria che serve per controllare il continente asiatico e le sue connessioni con le altre parti del mondo.

Non è un caso che i teorici della geo/politica hanno sempre mostrato particolare attenzione al quadrante dell’Asia Centrale e a quella successione di stati e popoli che si possono ascrivere al cosiddetto Grande Medio Oriente.

Una faglia territoriale che, per secoli, è stata ritenuta snodo da controllare e che continua a rivestire tuttora una centralità strategica nello scontro tra USA, le altre potenze occidentali ma anche con soggetti statuali come la Russia, la Cina, l’India e le loro complesse filiere di interessi economici e territoriali che stanno assurgendo a ruoli di potenze internazionali.

Insomma un contesto ben determinato dove per oltre 20 anni, principalmente gli USA, nonostante lo spaventoso volume di fuoco scatenato accanto, anche, alla manomissione e all’utilizzo pro domo loro, di ras locali che hanno attizzato le radicate rivalità claniche e i peculiari dissidi religiosi, non sono venuti a capo di una sintesi politico-militare che consentisse una governance (magari gestita attraverso le sofisticate modalità del Soft Power neo/colonialista) in grado di imporre una sorta di status quo utile agli strateghi della Casa Bianca, del Pentagono e della Cia.

Il ritiro USA dall’Afghanistan non è un atto di pace – frutto della lungimirante visione del democratico Biden come scioccamente lasciano intendere le sinistre occidentali – ma è la registrazione materiale di come la nuova leadership statunitense sta riassestando tutti i suoi coefficienti politici, economici e militari alla nuova soglia della contesa inter/imperialistica che si sta velocemente squadernando in ogni angolo del pianeta.

Una situazione oggettiva che – come Rete dei Comunisti – abbiamo definito di stallo, ma che potrebbe improvvisamente precipitare verso un aumento dei fattori di scontro e di rivalità anche sul terreno militare tra i vari blocchi politici e militari che si contrappongono a scala mondiale.

In questi 20 anni dall’avvio di Enduring Freedom molti indicatori sono mutati a cominciare dalla diversa autorevolezza che hanno maturato gli altri soggetti competitori con gli USA non solo in quello scorcio del quadrante asiatico ma in tutte le altre aree di frizione nei diversi continenti. Una competizione ed una nuova riconfigurazione dei rapporti di forza tra USA, Cina, Russia e Unione Europea fortemente lievitata in questo ventennio e, drammaticamente, evidenziatasi anche attraverso le diverse gestioni della recente crisi pandemica.

Infatti il passo indietro degli USA e degli occidentali dall’Afghanistan non è l’avvio di un periodo di pace e di coesistenza tra le potenze ma è una mossa dell’Amministrazione Biden – anche verso l’opinione pubblica del proprio paese – per meglio rilanciare la sfida a tutto campo verso il “nuovo asse del male” individuato nella Russia e nella Cina.

Del resto Joe Biden e i suoi consiglieri non si stanno risparmiando nell’attacco anche verbale contro la dirigenza cinese e russa (do you remember “Putin Assassino”?), mentre gettano benzina sul fuoco negli altri scacchieri di crisi internazionale dall’Ucraina alla Turchia, dal fomentare alcune minoranze cinesi, la questione uigura, alla mai interrotta opera di provocazione e di aggressione in America Latina.

Torna, dunque, la funzione agente di una soggettività comunista organizzata di non interrompere la propria attività di controinformazione e di possibile orientamento teorico e politico su questi temi.

Si rinnova la necessaria funzione di ponte internazionalista con quei popoli e quei paesi che intendono opporsi e resistere all’azione di rapina e di assoggettamento delle classi lavoratrici mondiali.

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