La situazione in Afghanistan non sembra stabilizzarsi.
L’ultimatum talebano alle truppe delle potenze occidentali – ancora presenti sul territorio – a non posticipare la loro partenza oltre il 31 agosto segna un possibile punto di frizione: è una “linea rossa”, ha dichiarato Suhail Sheen, un membro della delegazione talebana a Doha.
Un altro punto che concorre a far supporre che all’inaspettata vittoria militare non seguirà immediatamente una pacificazione del conflitto è la notizia che sta prendendo forma una possibile coalizione di forze autoctone anti-talebane – Il Fronte di Resistenza Nazionale dell’Afghanistan – al capo delle quali ci sarebbe Ahmed Massoud, in stretto coordinamento con l’ex-ministro della difesa, il generale Bismillah Mohammadi e l’ex-vice Presidente Amrulla Saleh. Coalizione che avrebbe ricevuto un primo carico di armi dal Tajikistan il 23 agosto.
Naturalmente, chi ha un minimo di cognizione di cosa sia la fine di un conflitto sa che la violenza non può essere espulsa d’un colpo dalla vita quotidiana, specie in un Paese che si trova in guerra da quaranta anni.
Ma è difficile capire ora se, dopo la sconfitta militare occidentale, si vada verso una relativa stabilizzazione o una ripresa della guerra civile, come fu dal 1992 al 1996, allora tra le varie forze che avevano concorso alla resistenza contro il governo legittimo supportato dall’URSS, ora tra i Talebani ed un arco di forze con cui il movimento islamico potrebbe non riuscire a trovare una “quadra politica”.
Se così fosse, la parola andrebbe di nuovo e presto alle armi.
Non è peregrino pensare che l’ala più oltranzista della NATO, quando le trattative tra Telabani e Stati Uniti a Doha lasciavano intravedere la possibilità di un accordo – come poi è avvenuto a febbraio 2020 – che comportavano il disimpegno militare dell’Alleanza, abbiano provveduto ad “avvelenare i pozzi” e far scivolare il Paese nuovamente nella guerra civile.
Uno dei maggiori fattori di caos sembra comunque l’incapacità logistica di USA ed UE nell’evacuare, da una settimana a questa parte, alcune migliaia di persone per via area.
Un dirigente talebano, in condizioni di anonimato, aveva dichiarato che l’annuncio della composizione del governo di transizione sarebbe stato fatto dopo il completamento della partenza delle truppe USA, prevista per fine mese.
Uno dei co-fondatori del movimento islamico – il mullah Baradar – era arrivato a Kabul da Doha, passando per l’aereoporto di Kandahar, per i colloqui con le altre forze che avevano dominato la scena politica.
Naturalmente sono i soggetti che intendono svolgere un ruolo nella transizione, a differenza dell’ex presidente scappato con la coda tra le gambe, o chi lancia appelli di resistenza che appaiono al momento velleitari.
Fino alla fine della partenza degli statunitensi, di fatto governeranno solo gli “Studenti di Teologia” spodestati vent’anni fa, dopo aver comandato per 5 anni la quasi totalità del Paese, tranne il Nord.
USA e UE non si sognano per ora di riconoscerli, ma devono rapportarsi con loro in chiave operativa: praticamente li riconoscono, ma sono troppo ipocriti per ammetterlo.
L’India, che ha collezionato una serie di inciampi politici nella sua strategia afghana, ha visto il proprio personale scortato all’aereoporto proprio dagli odiati “Talib”.
Il permanere del Caos all’aereoporto di Kabul, e l’entrata in scena di Massoud, sembrano compromettere l’inizio di un processo di transizione basato sul nuovo ordine talebano.
Fattori di possibile destabilizzazione del Nuovo Ordine Talebano
Vediamo quali potrebbero essere i fattori “destabilizzanti” del nuovo ordine talebano allargato.
Quella porzione del territorio, il Nord appunto, storico bastione prima della resistenza anti-sovietica e poi anti-talebana, e capeggiata fino al 9 settembre 2001 da Massoud (ucciso in un attentato), ora potrebbe terminare di essere la “spina nel fianco” per chiunque governi a Kabul.
Anche l’erede del “Leone del Panjir” – il figlio Ahmed Mansour – ha negato di star trattando la resa, dopo aver fatto un appello alla resistenza e una richiesta d’aiuto dell’Occidente veicolati da Bernard Henri-Levy, prima sulla Revue de Jeu, poi sul Washington Post e ieri sulle prime tre pagine di Repubblica.
L’intellettuale francese è un noto guerrafondaio che farebbe impallidire il vecchio futurista fascista Marinetti, tanto ha spinto l’acceleratore sulle politiche belliciste nel corso degli anni, a cominciare proprio dall’appoggio occidentale alla resistenza afghana ad inizio Anni Ottanta, di cui fu uno dei maggiori sostenitori europei.
Disinnescare il Nord, uno dei primi territori conquistati dall’offensiva dei “Talib”, sarebbe un colpaccio per chi comanda il Paese, ma non è detto che dal complicato mosaico degli ex signori della guerra non emerga una configurazione unitaria anti-talebana, soprattutto se non fossero accontentati nella logica di spartizione dei poteri.
Altro pericolo che può minare la stabilizzazione è la galassia jihadista esterna, spesso antagonista ai Talebani, che fa riferimento – a seconda dei soggetti presi in considerazione – alle petrol-monarchie del Golfo, in particolare l’Isis.
Arabia Saudita e Emirati, prima alleati e poi “ognun per sé” nel dimenticato conflitto yemenita, sono tra le potenze sconfitte prima dalle triennali trattative di Doha tra USA e Talebani, svoltesi appunto in Qatar (storico nemico dei due e grande sponsor della politica estera neo-ottomana di Erdogan), e poi dalla conquista del potere da parte degli ex studenti delle madrasse pachistane.
Difficile controllare il territorio afghano per i Telabani stessi, per ragioni orografiche e di mancanza di infrastrutture e di adeguati apparecchi di sorveglianza satellitare, oltre che di strumenti bellici atti a colpire a distanza, come i droni.
Altro fattore di possibile debolezza potrebbe essere il deterioramento della situazione del Pakistan (a causa della pressione internazionale anti-cinese), visti i circa 1.200 km di confini dei due paesi e lo storico legame tra Talebani e Pakistan. L’ex colonia britannica è da tempo alleata di Pechino e ha subito – anche di recente – attacchi terroristici in Balucistan.
Quarto fattore di “destabilizzazione”, l’unico di senso propriamente progressista, potrebbero essere proprio le mobilitazioni del popolo afghano contro i Talebani, che non godono del sostegno della maggioranza della popolazione ma che erano, agli occhi dei più, preferibili al governo fantoccio e corrotto di Ghani.
L’Afghanistan è un Paese che ha conosciuto in passato spinte progressiste che hanno prima portato alla fine della monarchia – un re comunque non ostile all’URSS e per certi versi modernizzatore, anche per ciò che concerne i diritti delle donne – e poi al tentativo di transizione socialista, durata per circa un decennio. Una esperienza che, se anche ha dovuto combattere sin da subito contro il combinato disposto di reazione interna e pressioni esterne, ha raggiunto alcuni importanti obiettivi.
Mohammed Najibullah, ex leader comunista proveniente dall’ala “moderata” del Partito Democratico del Popolo Afghano, emerso dai non pochi scontri di potere, con la fine dell’appoggio sovietico aveva tentato una riconciliazione nazionale, dando al Paese un assetto non più “comunista”, facendo dell’Islam la religione di Stato e aprendo sia al Re in esilio da metà Anni Settanta, sia alle famiglie di possidenti terrieri espropriate senza indennizzo, dopo la Rivoluzione.
Voleva fare dell’Afghanistan un Paese neutrale in pace con i vicini.
È stato assassinato dai Talebani entrati a Kabul nel 1996, nonostante si fosse dimesso 4 anni prima, tradito dal suo ex alleato Dostum e temuto da Massoud, di fatto scaricato dall’India, con la complicità indiretta della Comunità Internazionale.
La fine dell’occupazione potrebbe aprire degli spazi inediti per una popolazione giovane, estremamente povera, urbanizzata e che per vent’anni è stata colonizzata, anche culturalmente, dalle potenze occidentali (senza offrirgli altra contropartita che la collaborazione strictu sensu con l’occupante) o che vive da profuga, per la maggior parte in Iran ed in Pakistan,
Questo processo di “colonizzazione culturale” sotto occupazione non è infatti solo ascrivibile a quel sottile strato che ha goduto effettivamente dei benefici della collaborazione con gli occupanti – quello che sta cercando di lasciare il Paese per via aerea – ma ha introdotto diversi cambiamenti nel Paese attraverso l’uso delle reti informatiche e i dispositivi digitali.
Quale sviluppo per l’Afghanistan?
Per chiunque abbia in mano le leve del comando, la sfida è quella di uno sviluppo che faccia fare un salto di qualità al Paese, fuori dalle sacche di povertà ed arretratezza a cui l’hanno consegnato quarant’anni sotto il segno della contro-rivoluzione, riprendendo, per così dire, dal cammino intrapreso soprattutto con la Rivoluzione Saur del 1978, che aveva gettato le basi per lo sviluppo del Paese.
Profonde ed accelerate trasformazioni che si coniugavano ad una giustizia sociale reale soprattutto per i ceti contadini meno abbienti, la popolazione femminile delle campagne, ed un proletariato industriale in veloce formazione, nonché per quella parte di ceti istruiti di provenienza rurale inurbati o addestrati tra le fila dell’esercito, che erano il bastione del filo-sovietico PDPA, vero motore del cambiamento e vettore di modernizzazione dell’Afghanistan contemporaneo.
Lo sfruttamento delle risorse minerarie – in particolare di rame, cobalto, litio e le terre rare, per un valore stimato di circa tremila miliardi di dollari – e il possibile posizionamento del Paese come hub di traffici commerciali “da oriente ad occidente” (per ciò che concerne i prodotti cinesi), o nel senso opposto per ciò che concerne gas e petrolio, è stato di fatto impedito dalle circostanze storiche e dalla precedente cornice dei rapporti internazionali.
Queste possibilità potrebbero essere un volano per impostare uno nuovo sviluppo e sradicare la coltivazione dell’oppio (e degli arbusti da cui si ricavano le metanfetamine), cresciuta durante l’occupazione Usa e che ha invaso il mercato mondiale.
Un ruolo di primo piano potrebbe essere rivestito da Pechino, già uno dei maggiori partner commerciali sia per l’import che per l’export, che ha tutto da guadagnare dallo sfruttamento dei minerali afghani, dalla cooptazione del Paese negli ambiziosi progetti della Nuova Via della Seta, e come hub per i carburanti fossili del “Medio Oriente”.
E proprio la Repubblica Popolare è al momento la potenza che più si è spesa per il riconoscimento del regime change a Kabul, insieme alla Russia – che osserva con maggiore cautela e potrebbe appoggiarsi su più attori nel mosaico afghano.
Pechino, tra l’altro, fornisce il maggior numero di effettivi tra i Paesi che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per le missioni di peace-keeping, ed ha avuto un bassissimo profilo rispetto alla macchina d’occupazione, a cui al contrario Mosca aveva di fatto indirettamente collaborato in un primo momento.
È una sfida per il ruolo a cui Pechino aspira nella governance globale, piena di incognite.
Se, come sembra, Washington e le principali istituzioni finanziare da essa controllate sono orientate al boicottaggio economico attraverso il congelamento di asset e prestiti, paventando anche sanzioni, userebbero strategie di strangolamento consolidate per poi cercare di ritagliarsi un ruolo che gli è per ora negato.
Verso il multipolarismo ed una politica neutrale
Il disastro occidentale in Afghanistan per il nostro Paese dovrebbe essere un occasione per aprire un dibattito serio su quali vantaggi anche materiali comporti il perseguire una politica filo-atlantica ed imbarcarci dietro Francia e Germania in avventure neo-coloniali come il Sahel – il futuro Afghanistan dell’Unione Europea -, invece di imboccare la strada di maggiore neutralità ed un dialogo più proficuo per un ordine effettivamente multipolare, che non sacrifichi i bisogni delle nostri classi subalterne e del Sistema-Paese ai diktat di yankees ed oligarchie europee.
La strada per Kabul, qualunque ne sarà la configurazione politica, passa per Pechino, Mosca e Teheran. Ignorarlo sarebbe l’ennesimo suicido politico-economico delle “nostre” classi dirigenti. Come sarebbe altrettanto deleterio non riconoscere come “rappresentanti legittimi” chi – al popolo opposto della nostra visione del mondo – ha comunque sconfitto militarmente la coalizione occidentale ed ora cerca una exit strategy politica dentro la cornice delle relazioni diplomatiche internazionali, anche per non dovere combattere ulteriormente.
Se a Washington e soprattutto a Bruxelles continuano a ignorare la portata del disastro che hanno prodotto fin dai tempi del sostegno ai Mujaheddin, occorre ricordar loro che la via da percorrere è un’altra, non quella della guerra economica dopo quella guerreggiata; né tanto meno quella di promuovere una “guerra per procura” a soggetti che ha allevato in seno; né, infine, nascondendosi dietro il tema dei “diritti umani” dopo aver allevato, laggiù, la peggiore canea retrograda e reazionaria. Che poi si è autonomizzata…
Come in ogni fenomeno sismico di una certa entità, le scosse telluriche di assestamento continueranno, sia per le contraddizioni sviluppatesi in precedenza con l’occupazione militare, sia per l’assetto di potere attuale in via di formazione, sia per le ingerenze esterne degli ex-occupanti.
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