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Post-Brexit, a Londra si cambia musica

Il “pensare locale”, nei momenti più difficili, sembra sempre un risorsa rassicurante. Una comunità politica a corto di idee si ritrova così a restringere ulteriormente il suo orizzonte nella convinzione di riuscire in questo a raggiungere più facilmente l’obbiettivo di “parlare con la propria gente”.

E in effetti questo metodo semplifica spesso le relazioni, ma il prezzo è devastante: in pratica, si smette di pensare e si accettano i punti di vista socialmente maggioritari o comunque, quando sono troppo beceri per essere condivisi, si attenua la critica per non perdere “connessione sentimentale”.

Nei periodi storici in cui saltano gli schemi usati per oltre 30 anni, questo modo di rifugiarsi nel “piccolo mondo antico” comporta la perdita di qualsiasi orizzonte al di là del proprio naso e quindi l’impossibilità di confrontarsi con quanto va cambiando.

Per essere più concreti: assistiamo continuamente a improvvisi rovesciamenti di senso, a prese di posizione fatte da personaggi di ultradestra che saccheggiano il bagaglio di parole d’ordine classiche “a sinistra”. E addirittura all’uso di simboli rovesciati rispetto al contesto e alla storia. Per esempio: piazze fasciste con cartelli e slogan che equiparano l’obbligo vaccinale al nazismo, o il green pass alla stella gialla per contrassegnare gli ebrei nel Terzo Reich.

Ma lasciamo da parte le miserie italiane, così da rendere forse meglio l’idea.

Da diverse settimane Boris Johnson, primo ministro conservatore britannico, protagonista e beneficiario politico della Brexit, sta letteralmente picconando i pilastri del neoliberismo anglosassone, ossia del modello diventato “pensiero unico” nel mondo capitalistico occidentale dalla Thatcher a oggi.

Scrive su questo Larry Elliott, sul Guardian: “Non c’è niente di originale nel dire che la Gran Bretagna ha bisogno di un nuovo modello economico. Né che i bassi salari dovrebbero essere una cosa del passato. O anche che il business deve smettere di fare affidamento sulla manodopera importata a basso costo e investire di più nella formazione delle competenze.

L’idea che la Gran Bretagna abbia bisogno di una riforma radicale per renderla un’economia ad alta produttività esiste da decenni. Viene espressa ogni volta che c’è uno scandalo che coinvolge qualche capobanda o le squallide condizioni in cui i lavoratori migranti sono stati costretti a vivere.

Ciò che è insolito è che la richiesta di cambiamento provenga dal governo di Boris Johnson”.

Il zazzeruto premier sta cercando di far capire agli imprenditori locali (si fa per dire, vista la storia e la posizione internazionale della Gran Bretagna) che l’epoca dei bassi salari è finita, che i lavoratori immigrati perché a basso costo non saranno più il pilastro delle relazioni industriali del Regno Unito, ecc.

Per il semplice motivo che quel “modello” ha svuotato il Regno Unito di intelligenze, capacità produttive (causa delocalizzazioni), innovazione, benesssere, ecc.

Uno discorso quasi “socialdemocratico”, all’apparenza, che rovescia le parti e gli schemi consolidati. Suona quasi ironico che i laburisti, nell’ultimo anno, abbiano fatto fuori Jerenmy Corbin per riallinearsi alla tradizione del corrotto Tony Blair, indistinguibile dalla Thatcher. Ora sono totalmente spiazzati…

Spiega sempre il Guardian perché: Johnson pensa che gli elettori che gli hanno fornito la sua maggioranza di 80 seggi, nel 2019, siano ora stressate e impoverite dall’economia di libero mercato e, dunque, sosterranno un partito che promette salari più alti, ferrovie migliori e più soldi per il servizio sanitario nazionale”.

E non è soltanto una sua “pensata”, perché un ministro conservatore come Dominic Raab è andato alla radio per accusare le imprese diavere una dipendenza dalla manodopera importata a basso costo”. In questo caso la “manodopera importata” sono anche italiani, spagnoli, greci, ecc, ma questo dettaglio sembra un po’ quel detto “c’è sempre qualcuno più settentrionale – o bianco – di te”.

E’ il quadro strategico ed economico a essere cambiato radicalmente, le opinioni si adeguano. Nota Elliott: “i semi del modello britannico a basso salario e dominato dal settore dei servizi sono stati piantati da Margaret Thatcher quando ha decimato la produzione, distrutto i sindacati e sostenuto con forza la creazione del mercato unico europeo.”

Ma da quel mercato si è ora usciti, anche se restano molte relazioni commerciali. Questo significa che molte delle condizioni a contorno – legislative, normative, tariffarie, ecc – stanno venendo progressivamente meno.

L’Adam Smith Institute, uno dei templi del neoliberismo classico, lo ha definito “economicamente analfabeta“, descrivendo la sua come “un’agenda per il livellamento verso un’economia pianificata a livello centrale, ad alta tassazione e bassa produttività“.

Bella inversione di senso, no?

Prima di sfarfallare con valutazioni ottusamente ottimistiche, è bene sapere che “il primo ministro pensa di aver trovato una formula vincente con un approccio interventista di centrosinistra all’economia e un approccio duro di centro destra alla legge e all’ordine, all’immigrazione e alle guerre culturali. In assenza di un’alternativa coerente da parte dei laburisti, potrebbe avere ragione.

Nell’Unione Europea, e in Italia in particolare, si segue invece un approccio di destra su entrambi i fronti, anche se definire di “centrosinistra” il discorso economico di Johnson è possibile solo per chi condivide ancora le categorie del “pensiero unico” neoliberista.

In realtà, e fuori di ogni definizione “ideologica”, Johnson sta prendendo atto che l’epoca della “globalizzazione” è finita, che un’economia avanzata non può più far conto sulla certezza dei rifornimenti di qualsiasi genere (dal carburate ai microchip, dagli alimentari alle centraline elettroniche, ecc), specie se a basso costo e provenienti da qualsiasi angolo del pianeta.

E neanche può più fare affidamento sull’importazione di manodopera (di basso o di altissimo livello), ma deve coltivarla con molta più attenzione anche proprio interno.

In una parola, deve sviluppare il proprio mercato interno, dunque la crescita dei consumi (per questo servono salari mediamente più alti), mettendo fine a 30 anni e più di mercantilismo “orientato alle esportazioni” (ancora un dogma, nella UE e soprattutto in Germania).

Di fatto, è un abbozzo di piano concreto per gestire il post-Brexit, mentre i suoi avversari (liberisti “vecchio stile”) possono solo continuare a rimpiangere il legame con il mercato unico europeo, ormai alle spalle. E, per il ruolo di “orientamento” assunto già 40 anni fa con la Thatcher, Londra anticipa quel che va del resto maturando sia negli States (con il maxi-piano di spesa presentato da Biden) e nella stessa UE (molto più lentamente, specie ora che non si sa chi comanderà a Berlino).

E’ la situazione che spiega l’afasia della nuova leadership laburista, e che conferma la maggiore lungimiranza dei “laburisti pro-Brexit, che temevano sarebbe successo proprio questo. Essi sostenevano – come sta facendo ora Johnson – che lasciare l’UE presentava un’opportunità per ristrutturare l’economia e avvertivano che se un partito di sinistra non ne avesse fatto un obbiettivo positivo per il cambiamento, allora il vuoto sarebbe stato riempito dalla destra.”

Anche in Italia, rispetto all’Unione Europea, “a sinistra” c’è una confusione abbastanza simile. Anche se, per fortuna, la destra fascioleghista si è dimostrata enormemente più “malleabile” dall’establishment (del resto, è espressione di una fascia di capitale molto più debole, medio-piccola).

Ma la confusione è conseguenza diretta di una mancanza di analisi o, peggio, dell’introiezione del “discorso pubblico” suggerito dal mainstream Repubblica style (che, ricordiamo sempre, è un giornale della famiglia Agnelli, non il megafono del “progressismo”…).

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