La stampa mondiale, italiana compresa, è “andata a nozze” col matrimonio a Pietroburgo di un erede della nobiltà zarista Hohenzollern-Romanov, il granduca Georgij Mikhajlovič, con la borghese italiana Rebecca Bettarini: tutti a sbavare per lo sfarzo della cerimonia, la liturgia ortodossa, le dinastie coronate, “regnanti e non”, presenti.
Tutti a dibattere se quello del Goša Romanov odierno sia davvero il ramo “legittimo” della “casa reggente”, anche perché il suo bisnonno, Kirill Vladimirovič Romanov, cugino di Nikolaj II, a febbraio del ’17 aveva fiutato l’andazzo e aveva varcato in tempo il confine.
In Russia, peraltro, l’attenzione si è appuntata soprattutto sulla presenza di un drappello del reggimento Preobraženskij, quale guardia d’onore, sull’attenti durante il rito nuziale, e poi, sciabole sguainate, all’uscita dalla chiesa.
Una settimana dopo il fattaccio, il Ministro della difesa russo Sergej Šojgù (quello che si fa il segno della croce ogni volta che passa per la porta della torre Spasskaja del Cremlino, sopra la cui arcata campeggia di nuovo da 20 anni un’icona che era stata eliminata negli anni ’30) ha parlato di provvedimenti disciplinari nei confronti del comando che ha autorizzato la presenza del drappello.
Proprio Šojgù, tra i cui consiglieri c’è, ad esempio, il tenente-generale Andrej Il’nitskij, che prospetta un «modello» di Russia come «impero popolare, fondato sul principio della “autocrazia”, non nel senso della restaurazione della monarchia, ma di un potere popolare con a capo un forte leader-sovrano», accanto a un «forte autogoverno locale, quale fu, ad esempio, lo zemstvo alla fine del XIX secolo». Il tutto, secondo la sperimentata formula del conte Sergej Uvarov, al tempo dello zar Nikolaj I: “Ortodossia. Autocrazia. Nazione”.
Šojgù vorrebbe insomma dirci che qualche ufficiale avrebbe davvero deciso di testa propria di inviare il picchetto d’onore, sulla base di un immaginario “autogoverno” dell’esercito, che consentirebbe a ogni ufficiale di spostare a piacimento i propri reparti.
Insomma, proprio come se al Cremlino si fosse all’oscuro di atti e scene della commedia nuziale, stando alle parole del portavoce presidenziale Dmitrij Peskov («in alcun modo la cosa ha a che fare col nostro calendario»), la cui figlia era però tra gli ospiti di riguardo, insieme alla senatrice Ljudmila Narusova (vedova dell’ex primo sindaco della restaurata Pietroburgo, Anatolij Sobčak, di cui Vladimir Putin fu all’epoca fido collaboratore).
C’era anche l’ex deputato Pavel Astakhov, consigliere di stato effettivo di 1° classe (secondo i ranghi burocratici zaristi, tornati in voga nella Russia odierna, al pari della carica di governatore), pare, insieme alla portavoce del Ministero degli esteri, Marija Zakharova (quella che, parlando di Stalin e Hitler, solfeggia che «i leader che uccidono i propri concittadini bruciano all’inferno con fiamme più alte rispetto agli altri»), la quale definisce il giornalista Alexandr Stepanov, “Šarikov” (l’uomo-cane bulgakoviano) e lo schernisce con «finalmente avete smesso di atteggiarvi a persone normali».
La “colpa” si Stapenaov? Aver egli scritto sul comunista ROT Front che «i russi dovrebbero guardare in modo diverso alla crudele decisione presa da Jurovskij e dai suoi compagni sotto la pressione dei lavoratori degli Urali», intendendo la decisione di giustiziare la famiglia imperiale nel luglio 1918, all’avvicinarsi delle truppe bianche.
Insomma: ufficialmente, a Piter, si è trattato di una “questione privata”.
Ci ha pensato il poco-sobrio capo della cancelleria della casa imperiale russa, Aleksandr Zakatov, a mettere i panni in piazza, dichiarando che tutti gli aspetti della sceneggiata nobiliar-dinastica, compreso il picchetto d’onore del reggimento Preobraženskij, erano stati concordati «con tutte le autorità: stato, chiesa, militari, secondo le modalità di legge».
Lo stesso Zakatov, in un’intervista a pravda.ru, ha detto che la faccenda del matrimonio nella cattedrale di Isacco (monumento storico-culturale federale) ha alle spalle 30 anni di storia: la «prima visita a Pietroburgo del nonno del granduca Georgij Mikhajlovič, il granduca Vladimir Kirillovič, nel 1991, aprì la strada al ritorno in patria della casa imperiale e al processo di reintegrazione della dinastia nella vita sociale».
Già: Vladimir Kirillovič Romanov, proprio lui che, il 26 giugno 1941, quattro giorni dopo l’attacco nazista all’URSS, scriveva: «In quest’ora terribile, quando la Germania e quasi tutti i popoli d’Europa hanno dichiarato una crociata contro il comunismo-bolscevismo, che ha ridotto in schiavitù e opprime da 24 anni il popolo della Russia, Io mi rivolgo a tutti i figli fedeli e devoti della nostra Patria con l’appello a sostenere, a misura di forze e possibilità, il rovesciamento del regime bolscevico e la liberazione della nostra Patria dall’orribile giogo del comunismo».
Dunque, c’è aria di restaurazione monarchica sulle rive della Neva? Non scherziamo. Nonostante vari illustri invitati al banchetto granducale si siano sbilanciati in tanti «e perché no?», Veronika Krašeninnikova ha scritto su IA Regnum che «Per la maggior parte dei gruppi di capitali e interessi russi, l’idea della monarchia è assurda… Tuttavia, per la classe dirigente, se ha bisogno di rimanere al potere per decenni, è abbastanza vantaggioso trastullarsi con l’idea monarchica. L’ideologia conservatrice è stata proclamata ufficialmente proprio per conservare il potere; quella dei “valori tradizionali” non è che una messinscena per il popolo».
D’altra parte, la nostalgia per «la Russia che abbiamo perduto» va avanti sin dai tempi della perestrojka.
Il capitale russo, per operare a proprio agio, non necessita di un Romanov o un Hohenzollern a Piter o a Mosca, e «il processo di reintegrazione della dinastia nella vita sociale» di cui va fiero il cancelliere-capo della casa imperiale, va avanti da trent’anni, senza bisogno di una “casa regnante”: già così, non è forse il Cremlino stesso a sponsorizzare l’inaugurazione di monumenti a ex imperatori, a ministri forcaioli del regime zarista, a generali bianchi?
Non è forse il capo del Cremlino che porta fiori ai monumenti allo zar Aleksandr III (quello, per intendersi, che mandò alla forca il fratello di Lenin), a Stolypin, a Solženitsyn, in attesa che il granduca Georgij Mikhailovič presenzi all’inaugurazione a Čeljabinsk del monumento allo zar Aleksandr II?
Nel 2015, il principe Dmitrij Romanov, pro-pronipote dello zar Nikolaj I, fu accolto con tutti gli onori in Crimea e nelle varie ex residenze zariste, e un altro erede delle vecchie casate nobiliari, il principe Aleksandr Trubetskoj, propose l’installazione nel centro di Sebastopoli di un monumento a uno degli ultimi generali bianchi che combatterono contro il giovane stato socialista, il barone Pëtr Vrangel.
Tempo cinque anni e quel monumento è stato realizzato; e non cambia nulla, il fatto che in esso sia rappresentato non il solo Vrangel e sia chiamato ufficialmente “Monumento al 100° anniversario della guerra civile” o “Monumento alla riconciliazione”: all’inaugurazione, la scorsa primavera, dal palco delle autorità è stato detto che si deve «smetterla di dividerci in rossi e bianchi» e gli oratori “più in vista” hanno intimato ai “rossi” di fare pentimento, per il «superamento della divisione della società russa» causata dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Tutto, in nome della riconciliazione, del «consenso nazionale», come aveva fatto lo stesso Putin, inaugurando a Mosca, nel 100° anniversario dell’Ottobre, la “Basilica dei Nuovi martiri vittime dell’idea comunista”, dedicata a coloro «che soffrirono per la fede nel periodo della lotta contro dio».
Non sono forse i canali televisivi ufficiali a sostenere che il numero di monumenti a «Lenin, il quale rimane figura dubbia e fonte di discordia», è tuttora sproporzionato rispetto a quelli a Kolčak, Denikin, Vrangel, ai quali è tempo di «innalzare monumenti», poiché «in ognuno di essi c’è un contributo, un’idea, una tragedia»?
Non è dunque l’ora di erigere monumenti a tutti quei generali bianchi che nel 1920 combatterono contro la Russia sovietica e, vent’anni più tardi, furono in gran parte complici dei nazisti, dai Krasnov ai Škuro ai Kononov?
Non è forse il capo del Cremlino a ingiuriare i bolscevichi, affermano che la pace di Brest sarebbe «stato un atto di tradimento nazionale» e che nel 1917 «l’impero russo cessò di esistere e la Russia perse territori colossali»?
Non è forse il Comitato Investigativo di Russia (secondo il sito ufficiale, si occupa di «reati particolarmente gravi contro l’individuo, la sicurezza e l’ordine pubblico, il potere statale, la giustizia e l’economia»), alle dirette dipendenze del Presidente russo, che, appena pochi giorni prima del “matrimonio imperiale”, ha pubblicato il primo di tre tomi su “Il crimine del secolo”, la fucilazione della famiglia zarista?
Ma basta: la sintesi, soprattutto dopo le centinaia di fermi e arresti di comunisti per le proteste contro i brogli elettorali alle elezioni del settembre scorso, è affidata a un “navigatore” di facebook: «Russia, XXI secolo: 40 milioni di poveri, un Romanov si sposa nella cattedrale di Isacco, dappertutto si arrestano comunisti».
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