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L’autunno caldo, ma negli Stati Uniti

La “ripresa” mondiale spinge verso l’alto i prezzi di tutte le merci, sia per le materie prime che i prodotti semilavorati.

E inevitabilmente anche la “merce lavoro” scopre di avere un domanda tale da poter spuntare un prezzopiù alto. Almeno nei paesi dove la “ripartenza” dell’economia è reale…

La differenza rispetto alle altre merci è che il prezzo di quelle “inerti” viene fatto nello scambio tra imprenditori (“se vuoi la mia roba, me la paghi di più”). Mentre la “merce lavoro” deve come sempre accorgersi soggettivamente del proprio valore improvvisamente aumentato e servirsi di una rappresentanza collettiva – se non altro sindacale – che non risulti troppo disponibile a cedere davanti agli imprenditori.

Una buona scelta è sempre quella dello sciopero e dei picchetti, che costringono la controparte quantomeno a dover trovare soluzioni nuove, non sempre meno costose (anche i “crumiri” costano; e anche loro capiscono quand’è che si può chiedere una paga migliore).

Tutto questo, in Europa, ancora non si vede. Qui in Italia volano soprattutto i licenziamenti, grazie anche a un governo che sembra avere come unica preoccupazione quella di non far aumentare i salari (basti vedere il muro di gomma sul “salario minimo”, che pure in Germania viene ormai promesso – dalla coalizione di governo per il dopo Merkel – intorno ai 12 euro l’ora, mentre qui sembra scandaloso proporne nove).

In parte ciò è dovuto all’assenza di investimenti, sia pubblici che privati. Quelli legati al Recovery Fund e inseriti come previsione nel Pnrr, e quindi nella “manovra” per il 2022, sono appunto “promesse”, senza alcun effetto pratico, per ora.

Negli Stati Uniti, invece, dove la ripresa è spinta anche da massicci investimenti pubblici (4.000 miliardi di dollari, complessivamente), e una massa sterminata di lavoratori falciata o debilitata dal Covid (quasi 750.000 morti, non tutti anziani pensionati, oltre 45 milione di contagiati censiti, di cui una quota rilevante con conseguenze debilitanti sul fisico), ci si è trovati abbastanza sorprendentemente davanti a una relativa scarsità di “occupabili”, anche in attività che richiedono “competenze” non proprio di primo livello.

Gioca un peso negativo – quasi paradossalmente – anche l’abnorme massa di “disoccupati scoraggiati”, da anni fuori dal mercato del lavoro (quasi 100 milioni, sui poco più di 320 milioni di abitanti), ormai fuori dai radar e della possibilità di “recupero” (non vengono più conteggiati per il calcolo del tasso ufficiale di disoccupazione, che censisce solo chi è attivamente alla ricerca di un posto).

Sta di fatto, dunque, che negli Usa c’è un refolo di “autunno caldo” incentrato sui salari, la “buona occupazione” e i diritti, con forme di lotta tradizionali ma non “acquietate”. E ci sembra inutile fare paragoni con casa nostra…

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Striketober: I lavoratori americani riscoprono i picchetti é

In un mercato del lavoro più ristretto gli scioperanti hanno un po’ più di potere contrattuale rispetto al passato

La pandemia è stata molto positiva per i cornflakes, e molto impegnativa per coloro che li producono. Con così tante persone che passano così tanto tempo a casa, il consumo di cereali è esploso.

Kerry Williams, un tecnico dei macchinari, dice che questo si è tradotto in turni di lavoro straordinario quasi costanti nel suo stabilimento Kellogg’s, in Pennsylvania, a volte fino a 16 ore al giorno.

Questo sarebbe già abbastanza duro da sopportare. Ma ciò che lo rende molto più insopportabile, dice, è vedere Kellogg’s – uno dei più grandi produttori mondiali di cereali pronti per il consumo – tirare su profitti giganteschi anche se la tua paga è aumentata a malapena, di pochissimo.

Sentiamo che è ora che questi soldi arrivino fino a noi, perché senza i lavoratori sul pezzo non ci sarebbe nessuna Kellogg“, dice. Williams e circa 1.400 colleghi delle fabbriche Kellogg’s in tutto il paese, dal Tennessee al Michigan, sono in sciopero da due settimane.

Sono tutt’altro che soli. Il 14 ottobre circa 10.000 dipendenti della John Deere, un produttore di macchine agricole, hanno fermato il lavoro in cinque stati.

In California e Oregon più di 20.000 infermiere e lavoratori di Kaiser Permanente, una società di assistenza sanitaria, hanno votato per lo sciopero.

Anche quasi 60.000 lavoratori del bachstage di cinema e televisione erano pronti a fare i picchetti, dopo aver votato al 99% a favore di uno sciopero, ma un accordo dell’ultimo minuto il 16 ottobre lo ha evitato.

I giornalisti parlano ormai dell’ondata di conflitti aziendali come uno “Striketober”.

In parte è la ripresa di tendenze visibili già prima del covid-19. Quasi mezzo milione di lavoratori sono stati coinvolti in interruzioni del lavoro sia nel 2018 che nel 2019, il massimo da più di trent’anni. Questo rifletteva sia l’insoddisfazione per i salari e le condizioni di lavoro, sia la fiducia dei sindacati che, in un mercato del lavoro ristretto, avevano qualche strumento di pressione in più.

La pandemia ha solo rafforzato queste dinamiche. Dopo essere stati lodati come lavoratori essenziali negli ultimi 18 mesi, tutti, dalle infermiere agli imballatori di cibo, si aspettavano un trattamento migliore. E con le aziende che lottano per trovare personale, i lavoratori sono stati incoraggiati a muoversi.

Una delle caratteristiche dominanti del panorama economico americano negli ultimi decenni è stata la lentissima crescita dei salari per la maggior parte dei lavoratori.

La questione ora è se Striketober segna una svolta, uno spostamento dell’equilibrio del potere economico verso il lavoro. I lavoratori hanno qualche ragione per essere cautamente ottimisti, anche se partono da un punto molto basso.

La quota salariale nella produzione non agricola (la parte della produzione economica che va ai lavoratori attraverso i salari e altre forme di compensazione) raggiungeva il 66% nel 1960. Alla fine del 2019, alla vigilia della pandemia, era vicina al 59%, secondo il Bureau of Labour Statistics.

Ancora più notevole è stato l’aumento della disuguaglianza. Tra il 1979 e il 2019 il decile superiore dei salari, in America, è aumentato del 41% in termini reali, mentre il decile inferiore è aumentato solo del 7%.

Più fattori hanno pesato sui salari dei colletti blu in tutto il mondo ricco. I progressi della tecnologia, compresa l’automazione, hanno intaccato il potere contrattuale dei lavoratori. Così come la globalizzazione della produzione.

In America la debolezza del lavoro organizzato ha esacerbato queste tendenze. Solo un lavoratore su dieci appartiene a un sindacato oggi, la metà della percentuale esistente nei primi anni ’80.

Gli scioperanti sembrano avere l’opinione pubblica dalla loro parte, almeno per ora. In una ventosa mattina d’autunno fuori dallo stabilimento della Kellogg’s a Lancaster, una città della Pennsylvania centrale, alcune decine di lavoratori camminano avanti e indietro davanti ai cancelli, mantenendo un picchetto 24 ore su 24. La maggior parte delle auto che passano suonano il clacson in segno di solidarietà.

I sondaggi suggeriscono che il 68% degli americani sostiene i sindacati, un aumento notevole rispetto a dieci anni fa. “Tutti in questo paese sono un po’ stanchi dell’avidità“, dice Allan Torres, un veterano di mezza età nelle operazioni di imballaggio della Kellogg.

I dettagli di ogni vertenza sono diversi. I lavoratori del cinema e della televisione si sono lamentati dell’eccessivo orario di lavoro. Alla Kellogg’s, i lavoratori si oppongono alle conseguenze di un sistema a due livelli, che permette ai manager di assumere nuovo personale con condizioni contrattuali peggiori. L’azienda ribatte che elargisce salari e benefit da leader del settore.

Eppure una caratteristica comune è la convinzione dei lavoratori di poter avere ora il sopravvento. Gli scioperanti della Kellogg’s dicono che l’azienda ha portato autobus con personale sostitutivo per dimostrare che la fabbrica può funzionare anche senza di loro. Ma, dicono, gli autobus sono stati tutt’altro che pieni. Con solo un leggero filo di fumo bianco si alza dallo stabilimento di Lancaster; la loro ipotesi è che la produzione si sia fermata. “Gli scaffali delle drogherie non avranno un bell’aspetto“, dice il signor Torres.

Anche senza gli scioperi, non c’è dubbio che i lavoratori americani stanno diventando più esigenti. Quasi 4,3 milioni di persone hanno lasciato il loro lavoro in agosto, il massimo nei due decenni circa in cui il Dipartimento del Lavoro ha monitorato questi dati.

Celine McNicholas dell’Economic Policy Institute, un think-tank di sinistra, nota che l’esodo è stato più pronunciato nei ristoranti e nel commercio al dettaglio, settori di servizi con pochi sindacati, bassi salari e poche indennità di malattia.

La gente sta dicendo: ‘Questo non è un lavoro che vale la pena di fare, in questo momento‘”, dice. “Viene chiesto loro di prendere o lasciare, e lo stanno lasciando“.

I sindacalisti sono anche convinti di avere ora un alleato alla Casa Bianca. Joe Biden ha ripetutamente detto che aspira ad essere il presidente più favorevole ai sindacati nella storia americana.

Liz Shuler, presidente dell’AFL-CIO, la più grande federazione sindacale americana, ha indicato come una potente combinazione l’avere un’amministrazione “amica”, l’attivismo dei lavoratori e il sostegno dell’opinione pubblica. “Abbiamo tutto pronto“, ha detto in un recente discorso.

Allo stesso tempo, le aziende si stanno piegando alla realtà di diver offrire salari più alti per attirare e trattenere i lavoratori. Amazon ha aumentato a 18 dollari la sua paga oraria media iniziale per i magazzinieri (era di 17 dollari all’inizio di quest’anno), ben al di sopra dei 15 dollari che gli attivisti hanno a lungo chiesto come minimo legale.

Walmart, McDonald’s e CVS, una catena di farmacie, sono tra le decine di altre catene che stanno aumentando i salari, contribuendo ad alimentare il più grande aumento dei salari dei colletti blu a livello nazionale negli ultimi anni.

Ai picchetti della Kellogg’s, i lavoratori strombazzano un vecchio mantra sindacale quando viene chiesto loro per quanto tempo pensano di non lavorare: “Un giorno in più, un giorno più forte“.

Per le imprese americane, un altro slogan può racchiudere la loro strategia di fronte a Striketober: “qualche dollaro in più, e la spinta sindacale cadrà”.

* The Economist

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