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Sudan. La resistenza popolare nelle strade non cede al golpe

Il colpo di Stato di lunedì 25 ottobre in Sudan è stata la più pesante battuta d’arresto del difficile processo di transizione politica dopo la caduta del regime islamico di Al-Bashir, che aveva guidato il paese per trent’anni, dal 1989 all’aprile del 2019.

Già il periodo successivo alla caduta Bashir era stato da subito pieno di incognite, come aveva dimostrato il massacro del 3 giugno del 2019.

La crisi politica è stata accelerata dalle dimissioni di Abdallah Hamdok, all’inizio di quest’anno, che era stato rinominato dalla giunta come Primo Ministro in novembre – sotto forti pressioni internazionali – dopo la sua defenestrazione di fine ottobre.

Da allora le manifestazioni contro il putsch da parte di coloro che di fatto detenevano già il potere non si sono mai fermate, nonostante la violenza di parte statale e le vittime di piazza, più di una sessantina all’oggi.

Recentemente il movimento che si oppone al golpe, e che chiede la rimozione dei generali, ha rifiutato la mediazione offerta dall’inviato dell’ONU per intavolare un processo di dialogo che includa i militari, mentre una parte che era entrata nel processo di transizione consentirebbe a riprendere il dialogo.

Le mobilitazioni per defenestrare Bashir erano iniziate il 19 dicembre del 2018 ed avevano avuto come punto culminante il 6 aprile dell’anno successivo, l’inizio del sit-in di fronte al quartier generale dell’esercito il 6 aprile.

Il movimento di opposizione aveva avuto – ed ha – tra le sue punte di lancia la Sudan Professional Associations – una coalizione che raggruppa differenti organizzazioni professionali – ed i Comitati di Resistenza territoriali.

I militari, che hanno preso il potere nell’aprile del 2019 e che sono stati poi i veri arbitri del processo di transizione, sono stati parte integrante del sistema di dominio durante la dittatura.

Una parte importante della Comunità Internazionale e gli attori rilevanti a livello regionale, come l’Unione Africana e Lega Araba, avevano condannato il golpe di fine ottobre, insieme a gli Stati Uniti e la filiera di interessi a loro riconducibili, che hanno preso una posizione ferma e congelato gli aiuti sborsati per il paese: 700 milioni di dollari per ciò che concerne gli USA e 2 miliardi di dollari da parte della Banca Mondiale.

Una misura presa come prova di forza anche in ragione del fatto che i militari erano stati “sordi” alle pressioni statunitensi, espresse a ridosso del golpe.

L’Unione Africana ha sospeso la partecipazione del Sudan, mentre l’Unione Europea ha condannato la presa di potere dei militari.

L’ipotesi del golpe era da tempo nella gamma delle possibilità degli sbocchi all’impasse politico dovuto a contraddizioni strutturali del Paese, allo scontro tra i maggiori attori della transizione ed ai cambiamenti negli equilibri politici dell’area, che vedevano i maggiori sponsor dei militari al potere – come l’Egitto – dare probabilmente il nulla osta a una tale azione.

Vi è una competizione sempre più agguerrita tra i maggiori player in quello che gli Stati Uniti volevano – e vogliono – rendere uno dei perni di contrasto all’influenza militare russa e a quella economica cinese, legando il Paese, tra l’altro, al suo maggiore alleato “Medio-Orientale”, cioè Israele.

È chiaro che i militari appaiono per gli Stati Uniti difficilmente gestibili e non possono incarnare quel ruolo di pedine nello scacchiere regionale. Questo, tenendo tra l’altro conto della maggiore autonomia che hanno assunto i maggiori attori politici regionali – in Etiopia ed in Somalia, per esempio – e la loro spregiudicatezza nello stabilire relazioni internazionali, segno che la catena della gerarchia imperialista a guida USA si è notevolmente incrinata, così come il modello di sviluppo da loro proposto.

Una tendenza che la sconfitta in Afghanistan ha certamente ulteriormente sviluppato.

Per l’Unione Europea già a metà del decennio scorso, quindi ancora sotto Al Bashir, il Sudan era una pedina importante per il controllo dei flussi migratori affidati alle RSF, che da milizie contro-insurrezionali utilizzate in Darfur sono diventate la gendarmeria per conto di “Bruxelles” a guardia della spinta migratoria.

Queste poi sono divenute gli ufficiali ed i reclutatori dei mercenari (14 mila) che svolgevano il ruolo di fanteria nella coalizione a guida saudita che ha invaso lo Yemen: una delle peggiori catastrofi umanitarie, ma anche un lucroso affare per l’industria militare dei paesi europei, che hanno venduto e continuano a vendere armi alle petromonarchie del Golfo.

USA e UE in primis comunque preferiscono fare sfoggio di realpolitik, sapendo che i militari sono il “male minore” rispetto all’avanzamento di un processo politico che si liberi della loro influenza nel Paese.

Dall’altra parte il Sudan è un Paese dalla mai sopita tradizione rivoluzionaria per la Liberazione Nazionale, dove i livelli di organizzazione popolare hanno sventato successivamente al raggiungimento dell’Indipendenza – con vere e proprie insurrezioni – i tentativi di svolte autoritarie che ne hanno caratterizzato la storia.

È un Paese con un Partito Comunista dotato di radicate organizzazioni di massa che non ha voluto prendere parte alla gestione di un processo politico di transizione minato sin dalle sue origini da insanabili contraddizioni, ma che riversa ora nelle mobilitazioni tutto il suo potenziale.

Nessuna negoziazione, nessun compromesso, nessuna condivisione di poteri”, rimane lo slogan delle strade sudanesi in rivolta.

Una situazione complessa quindi, dov’è bandito qualsiasi approccio semplicistico alla sua lettura, ma che necessita di un ulteriore approfondimento insieme a chi si sta mobilitando qui e là contro il golpe, affinché le aspirazioni della Rivoluzione di dicembre non vengano annichilite.

Di questo si parlerà a Roma venerdì 28 gennaio con la Comunità sudanese di Roma; Abdal Monim Himmat, giornalista sudanese; Jacopo Resti, ricercatore; Giacomo Marchetti (Rete dei Comunisti); Mila Pernice (RdC Roma).

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