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Il conflitto tra poli imperialisti e l’alternativa socialista nei Sud del mondo

Sia la questione del rapporto tra Stato e popolo sia quella della democrazia, se entrambe sono concepite nell’ottica che postula un rapporto dialettico tra sovranità e conflitto, richiedono un’adeguata riflessione critica sui modi più appropriati di organizzazione territoriale del potere, per una transizione in direzione socialista.

Rifiutare l’ideologia antistatalista che la sinistra aveva sposato dalla fine degli anni ’70 non significa riabilitare la visione centralista e gerarchica dello Stato, che ha caratterizzato le esperienze del socialismo reale (e ancora ispira il socialismo cinese).

Dire che le classi popolari devono diventare Stato, nelle parole di Gramsci, significa che è necessario trasferire tutto il potere possibile alle classi subalterne.

Per intraprendere la strada del socialismo non basta aumentare la parte del surplus economico controllato direttamente e indirettamente dallo Stato: è anche e soprattutto lo Stato che deve essere restituito al controllo popolare e democratico.

Questa tesi ricorda immediatamente l’affermazione di Antonio Gramsci secondo cui le classi lavoratrici non devono “prendere il potere” ma piuttosto “diventare uno Stato”.

Un punto di vista che non solo contraddice la vocazione puramente “governativa” dei populismi di sinistra, cioè l’idea che basti prendere il controllo del governo per avviare una trasformazione della società, ma indica anche una prospettiva radicale: per esercitare la loro egemonia, le classi inferiori devono piuttosto creare un nuovo tipo di Stato, attraverso l’evoluzione storica del processo di transizione socialista.

I movimenti sociali e sindacali di base dei paesi che intendono applicare il distacco in chiave socialista dal sistema capitalista devono armarsi di coraggio e mettere in moto un sistema di solidarietà basato sulla cooperazione Sud-Sud, in cui non si perpetuino i meccanismi di sfruttamento centro-periferia.

Un sistema che va lanciato come un nuovo modello, basato sulla complementarità, in cui le nazioni possono programmare liberamente i propri investimenti in attività produttive realmente utili al miglioramento delle condizioni di vita dei popoli.

Tuttavia, la Repubblica popolare cinese ha pagato il prezzo di questa contraddizione e, in particolare, dell’adozione del modo di produzione capitalistico, compresa la contraddizione ecologica, l’indulgenza al consumo compulsivo e la distanza sempre crescente tra il centro e il periferia.

Tuttavia, ha preservato alcune specificità cinesi, come l’accesso alla terra da parte dei contadini, la pianificazione e il ruolo dei cittadini nell’economia in settori chiave, come quello bancario.

Questa situazione di nuovo attore internazionale di peso della Cina determina una guerra economica che ha influito sui cambi con un aumento del valore del dollaro rispetto allo yuan.

L’Europa, dal canto suo, svolge il ruolo di apparente sostegno a questi nuovi paesi emergenti sulla scena mondiale, cercando di sfruttare il clima di superamento dell’egemonia statunitense per emergere come polo imperialista globale di riferimento anche per nuove economie come la Cina.

I tentativi dell’amministrazione Trump e in modalità diverse ma sempre con aggressività imperialista da Biden di fornire una nuova base allo sviluppo industriale degli Stati Uniti si sono scontrati ad alto livello non solo con la Cina, ma anche con le potenze europee, che hanno reagito lentamente creando un nuovo spazio di accumulazione militare, sempre all’interno il quadro istituzionale statunitense della NATO, ma con l’obiettivo di diventare una forza autonoma per la difesa degli interessi del capitale europeo.

E così, tra i due poli imperialisti, è sorta una contesa sui territori indispensabili per il nuovo equilibrio internazionale e per contrastare una crisi economica di accumulazione e sovrapproduzione che è ormai di natura strutturale e sistemica.

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