Cinquant’anni dopo, gli abitanti di Derry, la seconda città dell’Irlanda del Nord, ricordano i loro morti e protestano perché nessuno ha mai pagato per quanto accaduto nella Bloody Sunday.
Era il 30 gennaio 1972, ed era una domenica, quando 13 manifestanti nordirlandesi furono uccisi dai paracadutisti britannici trasformando quella tragica giornata nella “Bloody Sunday”, il giorno più simbolico dei tre decenni di conflitto in Nord Irlanda, i cosiddetti “Troubles”.
I parenti delle vittime hanno organizzato per oggi una manifestazione proprio in quelle strade dove, mezzo secolo fa, i paracadutisti inglesi del aprirono il fuoco sui manifestanti, che sfilavano per i diritti civili.
Secondo l’iniziale versione dell’esercito, era stata la reazione alle provocazioni dell’Ira, l’organizzazione indipendentista irlandese che si opponeva alla presenza dei britannici in Irlanda, ma dopo molti anni di inchieste questa versione è stata smentita, anche se solo nel 2010 sarebbero arrivati il riconoscimento dell’innocenza delle vittime e le scuse del governo di Londra.
“Dopo la battaglia di Bogside e i pogrom di Belfast contro i cattolici nel 1969, lo Stato aveva perso il controllo delle sue forze di polizia (la Royal Ulster Constabulary) ed era sull’orlo del collasso a causa delle sue stesse misure repressive” – afferma in una intervista a Il manifesto, lo scrittore ed ex prigioniero politico Tom Doherty – “All’inizio del 1970 divenne chiaro che i soldati britannici erano venuti per sostenere lo Stato unionista che, a sua volta, era già coinvolto nella creazione degli squadroni della morte formati dai paramilitari lealisti e nell’attuazione di misure draconiane come l’internamento senza processo contro cui era stata convocata anche la marcia del Bloody Sunday. I parà avevano cominciato ad uccidere persone innocenti su larga scala già nel 1971 a Belfast, senza che vi fosse alcuna «complicazione» legale: quando arrivarono a Derry erano ben addestrati”.
La reazione alla strage fu l’adesione in massa dei giovani irlandesi all’Ira, che avrebbe combattuto fino all’accordo pace del 1998 (il cosiddetto accordo del Venerdì Santo) una vera e propria guerra civile che ha provocato 3.500 vittime. Nessuno dei militari dell’epoca ha mai subito un processo.
Le commemorazioni della Bloody Sunday non avverranno però sulla base di una “memoria condivisa”. The Guardian rileva che il primo ministro del DUP dell’Irlanda del Nord, Paul Givan, si è rifiutato di partecipare a nessuno degli eventi questo fine settimana (invece, giovedì, i suoi alleati hanno commemorato l’uccisione di due agenti di polizia nei giorni precedenti la Bloody Sunday). Il leader dell’SDLP, Colum Eastwood, il cui collegio elettorale include Derry, ha affermato che il reggimento di paracadutisti è stato “mandato nella mia città per uccidere” ed ha chiesto le scuse ufficiali all’esercito. A Derry domenica dovrebbe essere presente il primo ministro irlandese, ma non, sembra attualmente, quello britannico.
In questi ultimi mesi, gli effetti della Brexit hanno evidenziato la fragilità dell’accordo di pace del 1998. Le disposizioni doganiere destinate a evitare le frontiere terrestri con l’Irlanda, ma stabilendone una di fatto con la Gran Bretagna, sono ancora motivo di trattativa fra Londra e Bruxelles, mentre a Belfast hanno nuovamente dato vita a contrapposizioni e mobilitazioni.
“Quando iniziarono i troubles nel 1968-69 fu davvero l’inizio della fine per l’apartheid dell’Irlanda del Nord. Ora credo che quel sistema sia arrivato alla fine” – commenta Tom Doherty – “L’idea dell’Irlanda in Europa dopo che gli inglesi hanno scelto la Brexit è emozionante. Tuttavia, può essere anche una fase pericolosa”.
Le prossime elezioni locali, in maggio, si preannunciano determinanti per il fragile equilibrio politico: se gli unionisti arretreranno, i repubblicani potrebbero avere la meglio e provare, come auspica il Sinn Fein, di procedere entro 5 anni con un referendum sulla riunificazione con la Repubblica di Irlanda.
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