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Francia, “primo turno” con sorpresa

Una prima valutazione sull’esito del voto del primo turno delle elezioni presidenziali francesi di domenica scorsa, deve saper leggerne il significato alla luce alcuni fattori politici di lungo periodo che hanno caratterizzato le ultime due decadi della Quinta Repubblica, i tormentati cinque anni della presidenza Macron e l’escalation bellica iniziata il 24 febbraio in Ucraina.

Al ballottaggio del prossimo 24 aprile, la sfida tra Macron e Le Pen occulterà il nodo delle ineguaglianze strutturali dell’attuale modello di sviluppo “francese”, che è la chiave interpretativa con cui bisogna analizzare i comportamenti elettorali attuali.

La scontro fittizio tra le narrazioni liberale e populista aggirerà l’emergenza della questione sociale, ecologica e democratica poste con forza proprio in questi ultimi 5 anni dai movimenti che si sono succeduti contro il “presidente dei ricchi”.

Queste urgences hanno avuto nel progetto della Union Populaire di Mélénchon la sintesi politica più elevata, in grado di raccogliere il maggiore consenso tra le classi subalterne e di surclassare le forze della sinistra radicale e dell’ecologismo tradizionale.

I dati definitivi ci consegnano comunque un Paese dove circa un quarto degli elettori non ha trovato nell’offerta politica attuale il proprio candidato, nonostante la pluralità di opzioni disponibili in un ampio spettro di scelte, dall’estrema destra all’estrema sinistra, ed in cui l’astensionismo specie tra le classi subalterne ed i giovani è una scelta pressoché maggioritaria.

Il quadro della rappresentanza politica è estremamente frammentato, e le tradizionali forze politiche che ne avevano caratterizzato il bipolarismo si sono ulteriormente sfarinate. Il voto per i primi 4 candidati  totalizza circa l’80% dei consensi, ma sono solo  tre le polarità che sono emerse come vincitrici, per ora, dalle urne. Quanto basta per affermare che il “bipolarismo forzato” imposto dalle leggi elettorali maggioritario non funziona più.

Per farsi un’idea della pluralità e allo stesso tempo della frammentazione, basti ricordare che “a sinistra” di Mélénchon, ad esempio, hanno partecipato due formazioni di ispirazione trotzkista (rispettivamente lo 0,8% con Philippe Poutou per il NPA, e lo 0,6% con Nathalie Arthaud di LO). Oltre al Pcf, che ha totalizzzato il 2,3.

A destra dei Le Pen, oltre al neofascista Zemour – che ha preso più del 7%, piazzandosi al quarto posto – Nicolas Dupont-Aignan di Debout la France, ha preso più del 2%.

Va detto – e bisogna leggere questo dato in prospettiva – che tra le fasce più giovani dell’elettorato, fino ai 35 anni, di cui il 40% non si reca alle urne, Mélenchon è di gran lunga il più popolare con oltre il 34% delle preferenze.

Per ciò che concerne le classi popolari, chi guadagna meno di 1.250 euro vota per Le Pen e poco di meno per Mélenchon.

Il fondatore de La France Insoumise è risultato anche il più votato dei territori d’Oltremare.

Un dato che dice in sé come una fetta importante della popolazione dove ha impattato ed impatterà la crisi è esclusa dai giochi politici imposti dal rigido sistema presidenziale.

Questo per ciò che concerne l’astensione, mentre per ciò che riguarda tutti gli altri appuntamenti elettorali – come le europee del 2019 e le amministrative del 2020 e 2021 – l’astensionismo è risultato più incisivo, praticamente il partito con la maggioranza assoluta.

I risultati ci dicono che tre francesi su quattro tra coloro che si sono recati alle urne hanno concentrato il voto utile su tre pretendenti: il 27,8% a Emanuel Macron, presidente in carica, che ha fondato una propria formazione politica per le presidenziali del 2017, LREM; il 23,1% a Marine Le Pen del RN erede del FN del padre, formazione a lungo e tutt’ora bandita dalla “fronte repubblicano”; il 22% a Jean-Luc Mélénchon, politico di lungo corso con una gioventù da trotzkista, una periodo rilevante tra i socialisti, alla sua terza sfida presidenziale prima con il Front de Gauche e poi con La France Insoumise, ora con una coalizione più ampia denominata Union Populaire.

Macron che 5 anni fa aveva provocato un sisma, con il suo auto-definito “big bang” nella vita politica dell’Esagono, guadagna un milione di voti, mentre la sua sfidante al ballottaggio, incrementa i suoi consensi di 400 mila voti, con un baricentro politico che grazie all’operazione Zemour, si è notevolmente spostato a destra.

Per la seconda volta, Méléchon sfiora il ballottaggio, riuscendo  a catalizzare un bisogno di trasformazione radicale e se l’estrema sinistra che si è candidata (NPA e LO) e/o il PCF – per una volta questo ragionamento solo aritmetico si rivolta contro chi l’ha sempre sventolato – avessero fatto “fronte comune” con gli insoumis/es, la sfida al ballottaggio sarebbe ora tra Macron e Mélenchon.

Un caso da manuale di come la scelta “identitaria”, per logiche di pura sopravvivenza politica di un “gruppetto dirigente”, in alcune circostanze precluda l’apertura di una reale possibilità di cambiamento, sul fronte della rappresentanza.

A parte le tre maggiori polarità politiche, gli altri 5 candidati – tutti insieme – hanno circa gli stessi voti di Mélénchon, e tranne l’outsider di estrema destra Zemour (con il 7,1%), non raggiungono la soglia del 5% fondamentale per il pagamento delle spese elettorali.

Le due tradizionali famiglie politiche francesi che hanno dominato la vita della Quinta Repubblica, cioè gollisti e socialisti, insieme non raggiungono il 7%, e nessuno dei due ha superato la soglia del 5%. La Pécresse, si ferma al 4,8%, mentre la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, non raggiunge il 2%.

Sebbene abbiano mantenuto i propri “feudi elettorali” alle amministrative – dove le clientele consolidate sono ancora il fondamento del voto – sono ormai divenuti ininfluenti nella vita politica nazionale. Qui, infatti, serve saper proporre un visione alta e alternativa sui temi centrali per la vita della popolazione e sulla direzione da dare allo sviluppo del paese, in un contesto internazionale pesantissimo. 

Questa disfatta contemporanea di gollisti e socialisti mette in soffitta la vecchia forma-partito di notabili e clientele tradizionali, con una emorragia di voti dovuta principalmente alla crisi delle classi medie dell’Esagono.

Ha paradossalmente più ragione Macron, quando ha affermato — in una intervista a Le Figaro – che i due tradizionali partiti politici repubblicani sono diventati “partiti di eletti locali”. Che non hanno visione, e dunque appeal a livello nazionale.

I sondaggi pre-elettorali, ancora una volta, sono stati incapaci di dare una lettura anche approssimativa dei possibili sbocchi politici del lungo processo di delegittimazione delle élite dell’Esagono, che data ormai dall’inizio del nuovo secolo, e sono stati costruiti forse più per orientare le scelte degli elettori che non per essere un sismografo attendibile dei sentimenti che animano le classi subalterne, ed in generale i cittadini francesi.

Mélénchon era dato al 17%, 5 punti percentuali sotto la Le Pen, di fatto instillando in coloro che andavano alle urne la sensazione che fosse fuori dalla corsa al ballottaggio (il riflesso del mortale “voto utile”).

Zemmour era stato invece gonfiato ad hoc, fino all’ultimo dai sondaggi – anche quando lo davano in calo – dopo averne fatto un possibile antagonista di Le Pen. La Pécresse, candidata di LR, era data all’8% mente in realtà ne ha avuti 4,8%.

Inutile dire a chi ha giovato questa interpretazione deviante della società francese…

Un’altra riflessione, in parte connessa, riguarda gli effetti dell’attuale conflitto ucraino sul voto.

Le urne non hanno penalizzato le forze che, a torto o a ragione venivano etichettate come “filo-putiniane” – come era stato pronosticato da tutti gli analisti -, ma ha invece premiato coloro che hanno giocato la campagna elettorale sulle conseguenze della guerra sul potere d’acquisto dei francesi (tra questi, anche Marine Le Pen), o hanno messo in discussione l’impianto bellicista e atlantista ufficiale, come Mélénchon che propone una uscita graduale dalla NATO ed ha battuto forte sulla questione sociale.

Il picco di popolarità di Macron, che non ha mai voluto affrontare veramente la campagna elettorale da candidato ma sempre da presidente, dall’inizio dell’escalation bellica è sceso rapidamente, mentre è aumentato il consenso per quelle delle forze che hanno fatto della questione sociale un centro gravitazionali della loro campagna: a sinistra Mélénchon, a destra il RN.

Se dovessimo usare una metafora: il frigorifero ha vinto sul televisore.

Macron ha “vinto” il primo turno delle elezioni presidenziali con un ampio margine di voti – 650 mila vota in più della propria sfidante – ma allo stesso tempo ha già catalizzato la maggioranza delle sue risorse di consenso specialmente tra le classi medio-alte, lo zoccolo duro del “macronismo”.

Macron si è orientato a destra anche per l’azione che ne ha caratterizzato i cinque anni all’Eliseo – le cui scelte sono state vivamente contestate da diversi movimenti di lotta, tra cui i più importanti sono stati i gilets jaunes, le mobilitazioni contro la riforma pensionistica, le iniziative del personale medico-sanitario e gli insegnanti.

Nel suo programma ha ribadito la volontà di procedere all’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni e la riforma regressiva del “Reddito di solidarietà Attiva” (RSA), e quindi non può certo rivolgersi a sinistra.

Anche se alcuni candidati, dopo i risultati del primo turno, hanno già chiesto ai propri elettori di votare Macron al ballottaggio – Anne Hidalgo (PS), Valérie Pecresse (LR), Fabien Roussel (PCF) e Yannick Jadot (EELV) – o hanno affermato che non va dato alcun voto alla Le Pen (come ha subito detto Mélénchon), questo non gli assicura una copertura sufficiente.

Circa la metà degli elettori della LFI, per esempio, sembra orientata all’astensione.

Questo ha creato una sorta di reazione di panico tra gli apparati culturali delle oligarchie europee che vedono in Macron un “pilastro” del rilancio del processo di integrazione europea ed un alfiere del ruolo che dovrà giocare l’Unione nel contesto di competitività strategica, inaspritosi con il conflitto ucraino.

Se quindi l’esito del voto del 24 aprile è più che mai incerto, appare chiaro che chiunque governerà l’Esagono avrà una parte consistente di popolazione – a parte la logica del “meno peggio” che può ispirarne le scelte nell’urna, per un giorno – su cui dovrà provare ad esercitare dominio, ma non certo  egemonia.

E’ forte anche in Francia una perdurante insoddisfazione della politica delle élite con cui chiunque vinca dovrà fare presto i conti, perché la popolazione ha visto nuovamente azzerate le possibilità di cambiamento per via elettorale, e vedrà anche peggiorate le proprie condizioni di esistenza.

Il “fronte interno” preoccuperà l’Eliseo, così come Bruxelles.

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1 Commento


  • Stefano

    Ecco qua: se i trotzkisti e il PC avessero votato Melenchon adesso a sfidare Macron ci sarebbe lui e non Le Pen

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