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Congo. Alle origini della ribellione dell’M23

La sera del 5 agosto 1998 nella base militare di Kamina, nell’attuale provincia dell’Alto-Lomami situata all’estremo sud della Repubblica democratica del Congo (RDC), un centinaio di militari delle Forze armate congolesi (FAC) originari delle etnie rwandofone (Tutsi e Hutu) dell’Est son disarmati, torturati e uccisi su ordine proveniente da Kinshasa, la capitale, dove era in atto un pogrom contro i cittadini sospettati d’appartenere a queste comunità. Le vittime si conteranno a decine.

Quel giorno, alla prime luci dell’alba, il generale rwandese James Kabarebe, ex capo di Stato-maggiore delle FAC, destituito pochi giorni prima dal presidente congolese Laurent-Désiré Kabila dopo la rottura delle relazioni col Rwanda e l’Uganda che l’avevano aiutato a prendere il potere nel maggio del 1997 (alla fine della prima guerra del Congo, 1996-1997), stava tentando, a partire da Kitona, nel Basso-Congo, un colpo di forza per reagire alla decisione del suo vecchio alleato.

La sua intenzione era di arrivare a Kinshasa, probabilmente per tentare di destituirlo mettendo al suo posto un uomo più legato agli interessi di Kigali. L’iniziativa falli’ 11 giorni dopo in seguito all’intervento delle truppe dell’Angola e dello Zimbabwe a sostegno di LD Kabila.

Ma l’episodio, di per sé grave, fu cruciale perché divenne emblematico della volontà d’ingerenza rwandese negli affari congolesi ribadita in tutti i discorsi ufficiali e cominciamento di una narrazione in cui a Kigali sarà assegnato il ruolo di capro espiatorio di tutti i problemi della RDC.

Fu così che le violenze contro i civili e i militari Tutsi e Hutu congolesi, i primi in particolare, si sarebbero ripetute ad ondate successive nel corso della lunga crisi della RDC, che perdura ancor’oggi, come testimoniano i fatti a cui stiamo assistendo da qualche settimana.

In questi ultimi giorni infatti, arrivano sempre più frequentemente dal Congo notizie di episodi di caccia all’uomo contro i Rwandofoni per le vie di Kinshasa, ma anche in altre regioni e provincie, come il Maniema, il Katanga e il Kivu. Questa componente della popolazione congolese è accusata di sostenere la ribellione del Movimento del 23 Marzo (M23), che il governo considera come un gruppo terrorista e dietro il quale agirebbe per procura il Rwanda.

Le politiche dell’odio

In seguito agli avvenimenti d’agosto 1998 a Kamina e a Kinshasa, e quali che siano le responsabilità del Rwanda nel susseguirsi degli eventi -che saranno peraltro oggetto di una prossima analisi approfondita da parte nostra-, i regimi che si sono succeduti al potere nella RDC hanno periodicamente utilizzato in chiave ultra-nazionalista il tribalismo e la xenofobia comme armi di divisione e di controllo delle popolazioni.

A tal punto che le politiche dell’odio e della paura, peraltro subappaltate nelle provincie orientali del Nord et del Sud-Kivu agli ex genocidari delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (FDLR) -il gruppo armato hutu che sogna di rientrare in Rwanda per rimettere al poter l’ancien régime monoetnico- sono assurte in alcuni momenti -come quello presente- a religione di Stato.

Queste politiche sono la causa principale della crisi e al tempo stesso l’elemento di diversione che occulta le altre cause : la predazione delle risorse naturali e del budget dello Stato e i massacri periodici di civili, quest’ultima essendone il corollario.

Con questa premessa o pre-condizione di un’avversità nei confronti del Rwanda e dei Congolesi rwandophoni, instillata e radicata nell’opinione con tecniche di manipolazione sofisticate, la seconda guerra del Congo, che –per via della partecipazione di numerose nazioni del continente- è passata alla storia come la «Prima guerra mondiale africana», si svolse tra le forze governative e due movimenti ribelli principalmente: il Raggruppamento congolese per la democrazia (RCD), poi diventato RCD-Goma (RCD-G), sostenuto dal Rwanda, e il Movimento di liberazione del Congo (MLC) di Jean-Pierre Bemba, appoggiato dall’Uganda.

Quando, dopo un anno di guerra, i combattimenti stavano volgendo alla sconfitta dei governativi, un cessate-il-fuoco fu imposto à Lusaka (nello Zambia, il 10 luglio 1999) dalla comunità internazionale, 6 mesi prima de l’assassinio del presidente LD Kabila, a cui succederà il figlio adottivo Joseph nel gennaio del 2001, intronizzato su forti pressioni angolani ed anche dell’allora presidente dello Zimbabwe, Mugabe.

Poi, il Dialogo intercongolese (DIC) di Sun City (Africa del Sud) fu organizzato dal 24 febbraio 2002 per definire un Accordo tra i tre principali belligeranti : gli ex-governativi, il RCD-G e il MLC.

Per facilitare i lavori del DIC, il primo agosto 2002 fu firmato a Pretoria, sempre in Africa del Sud, un Accordo di pace tra la RDC e il Rwanda, che si impegnava a ritirare definitivamente il suoi soldati dal Congo mentre la controparte avrebbe dovuto procedere, tempo 90 giorni, al disarmo e al rimpatrio in Rwanda delle FDLR.

Seguì, il 17 dicembre 2022, l’Accordo globale e inclusivo di Pretoria che chiuse il DIC fissando i principi generali della ripartizione del potere tra gli ex-belligeranti, della nuova Costituzione e della formazione del nuovo esercito, da realizzare attraverso l’integrazione tra le FAC e le ali militari del RCD-G e del MLC.

Le forzature di Sun City

Contro venti e maree, la comunità internazionale, con in testa Francia e Stati-Uniti spalleggiati da alcune potenze regionali, come l’Angola e lo Zimbabwe, imposero il mantenimento al potere di Joseph Kabila. Il giovane presidente era inviso a gran parte delle popolazioni e dei militari dell’ex RCD-G dell’Est del paese, dove aveva lasciato imperversare i suoi alleati delle FDLR ed altre milizie tribali e tribaliste chiamate Mai-Mai. Un insieme di bande armate che in particolare avevano come obiettivo persone e soldati appartenenti alle comunità Tutsi e Hutu.

Questa forzatura non lasciava prevedere nulla di buono nella prospettiva della pacificazione del paese. Prima ancora dell’Accordo definitivo, che fu firmato da tutte le componenti il 2 aprile 2003 a Sun City stabilendo la formazione di un governo unitario per un periodo di Transizione di 2 o 3 anni da concludere con le elezioni, una prima grave crisi mise in pericolo il fragile consenso realizzato fino a quel momento.

Con un colpo di forza, di fatto avallato dal Comitato internazionale d’accompagnamento della Transizione (CIAT), creato dopo Pretoria ed il cui zoccolo duro era formato dai 5 paesi membri permanenti del CSNU- Joseph kabila cambiò i principi costitutivi delle nuove Forze armate e dei Servizi d’informazione e procedette ad un sistema non d’integrazione, ma di cooptazione delle forze che l’avavano combattuto nel suo esercito, di cui peraltro ne assicurava il controllo pieno, avendone esercitato il ruolo di capo di Stato maggiore.

Les ex-FAC, caratterizzate da una forte presenza di ufficiali katanghesi come Kabila figlio, che non nascondevano l‘avversione nei confronti dei loro colleghi rwandofoni dell’Est, spesso soggetti a discriminazioni e violenze, divennero cosi’ la struttura portante del nuovo esercito, la cui genesi sfuggi’ ai criteri principali di formazione osmotica fissati a Sun City.

Tutto questo avvenne perché le forze presenti nel CIAT -di cui facevano parte anche il Belgio, l’Angola, l’Africa del Sud, il Gabon, il Canada, l’Unione Africana (UA), l’Unione Europea (UE) e la Missione delle Nazioni Unite in Congo (MONUC, creata dalla Risoluzione 1279 delle NU il 30 novembre 1999) ritenevano Kabila il più incline a patteggiare con le grandi potenze la gestione delle immense ricchezze del paese mediante l’applicazione di contratti «leonini» (favorevoli al contraente-acquirente straniero), a differenza di Kabila padre, che aveva caratterizzato la sua ascensione al potere con un atteggiamento chiaramente anti-occidentale.

Il peccato originale

La piega che prese la Transizione portava in sé i germi di nouve divisioni e del risorgere dei conflitti a causa di queste decisioni unilaterali, di cui fu vittima anche l’oppositore storico del dittatore Mobutu, Etienne Tshisekedi. Principale avversario civile di Kabila figlio, colui che era soprannominato la Sfinge di Limeté (quartiere di Kinshasa) fu escluso dalla nuova architettura istituzionale con un colpô di mano quanto meno proditorio.

Per sintetizzare, il peccato originale di questro processo di pacificazione imperiale, poco aderente ai bisogni delle popolazioni che erano in cerca di una riconciliazione effettiva dopo due guerre estenuanti e particolarmente dispendiose in vite umane, si può riassumere nella parzialità di alcune scelte imposte, di cui la principale ha prodotto l’avvento di un esercito, le Force armate della RDC (FARDC), privo di una dottrina di protezione delle popolazioni e di difesa delle frontiere nazionali.

Al contrario, le FARDC divennero portatrici, attraverso l’influenza esercitata dai suoi quadri principali, di una filosofia virulenta dell’esclusione nutrita da riflessi apertamente xenofobi e continuarono, come le ex-FAC, a collaborare con le FDLR, la cui presenza 19 anni dopo ancora sul suolo congolese, rappresenta l’altra contraddizione stridente del ruolo giocato dalla comunità internazionale nelle gestione della crisi dai tempi di Sun City.

Già nell’accordo rwando-congolese di Pretoria, una delle clausole principali prevedeva lo smantellamento di questo gruppo armato ad opera del governo provvisorio congolese et delle NU. Decisione reiterata decine di volte in tutte le Risoluzioni e in tutti i rapporti dell’ONU, ma sistematicamente restata lettera morta.

Fu così che queste politiche dell’odio tribale e delle violenze contro i civili ereditate dalla guerra diventeranno sistemiche. Esse restano le cause principali e mai rimosse della crisi, di cui il conflitto di oggi tra le forze governative e l’M23 è l’espressione.

Questo movimento ha infatti la sua origine nelle faglie appena esaminate della gestione della Transizione successiva alla fine della seconda guerra congolese.

E’ in quel periodo che nasce la ribellione nkundista, di cui l’M23 est l’ultimo avatar.

Il primo atto di questa rivolta si consuma quasi in sordina, ma è da ricordare come il prodromo di una lunga storia ancora in corso.

A inizio agosto 2003, il generale tutsi Laurent Nkunda, ex membro del RCD-G, rifiuta de rendersi a Kinshasa per integrare le FARDC in gestazione. «Il punto di disaccordo principale col processo in corso verte sulle lacune del compromesso sulla sicurezza. Laurent Nkunda manifesta le sue preoccupazioni spiegando che il problema dell’insicurezza all’Est provocata dalle FDLR non è risolto e che le famiglie rifugiate in Rwanda e gli sfollati interni non potranno rientrare nei loro villaggi prima che si trovi una soluzione alla questione », spiega Steward Andrew Scott nel suo Laurent Nkunda et la rébellion du Kivu (Karthala 2008, in italiano: Laurent Nkunda e la ribellione del Kivu).

Nato il 6 febbraio 1967 a Mirangi, villaggio situato nello chiefdom di Bwito del territorio di Rutshuru, nel Nord-Kivu, Nkunda viene da una famiglia che resideva a Jomba, in un altro chiefdom (lo Bwisha) di Rurshuru. I genitori fuggirono a Mirangi nel 1953 quando la loro comunità fu oggetto di violenze da parte di altri gruppi etnici.

E’ al tramonto dell’epoca coloniale infatti, che le autorità belghe cominciarono a strumentalizzare le rivalià identitarie tra le diverse comunità, provocando guerre contadine e conflitti tra agricoltori e pastori.

Cinque anni dopo l’Indipendenza, nel 1965, scoppiò nel Nord-Kivu la guerra, detta di Kanyarwanda, tra gli Hunde, che si consideravano autoctoni, e quella componente della popolazione rwandofona che i coloni avevano fatto immigrare (a due ondate, nel 1929 e nel 1956) dal Rwanda.

Più tardi, durante i suoi primi studi agli inizi degli anni 1970, il giovane Laurent Nkunda apprenderà l’importanza del fenomeno del tribalismo, le sue varie ramificazioni storiche e geografiche nella regione e l’uso cinico che i poteri, quello coloniale e quelli locali, ne avevano fatto e continuavano a farne.

Scoprirà sui banchi di scuola che molti dei suoi compagni Tutsi erano d’origine rwandese, provenienti da famiglie fuggite dal Rwanda tra il 1959 e il 1960, nel periodo dei primi pogrom anti-Tutsi successivi alla ‘rivoluzione’ Hutu (1959-1961), che destitui’ con la violenza la monarchia Tutsi.

L’humus in cui cresce Laurent Nkunda è importante per capire le origini di un movimento che occupa la cronaca dei nostri giorni da una parte; e nello stesso tempo, all’opposto, l’uso che ne hanno fatto i regimi congolesi che si son succeduti e gli attori internazionali. Il tutto nell’applicazione del famoso principio del divide et impera, forma atavica e purtroppo scontata di controllo delle popolazioni, il cui costo in termini di sangue versato è da tempo esorbitante.

Dopo essersi impregnato della storia della sua terra ed aver studiato psicologia all’Università di Kisangani (capoluogo della provincia dello Tshopo, nel nord-est della RDC), Nkunda intraprende la carriera militare.

Entra nelle Forze armata zairesi (FAZ) durante il periodo della dittatura mobutista, poi, nel 1994, si arruola nella resistenza dell’Esercito patriottico rwandese che combatteva le forze responsabili del genocidio dei suoi congeneri Tutsi in Rwanda. In seguito è ufficiale nelle Forze armate congolesi (FAC) dopo la presa de potere di LD Kabila nel 1997, l’anno prima di raggiungere la ribellione del RCD-G (1998).

La presa di Bukavu

Se l’Accordo di Sun City avava lasciato irrisolti i problemi del Kivu, le modalità del processo di formazione del nuovo esercito sotto il dominio delle xe-FAC di Joseph Kabila li aggravavano considerevolmente: «Dalla formazione del governo di transizione a giugno del 2003, i soldati (del RCD, ndr) si sentono abbandonati all’Est del paese, mentre molti dei membri fondatori del RCD-G diventano ministri… 2003 è un anno doloroso per questi soldati, che assistono all’entrata nel sistema dei loro ex dirigenti politici, che dimenticano quelli dei loro che son rimasti sul posto all’Est»… (S. A. Scott, opera citata, pagine 145-46).

Nkunda non resta inattivo, mantiene il controllo di una parte delle sue truppe nel RCD-G e fonda la Sinergia nazionale per la pace e la concordia (SNPC) al fine di riconciliare tutte le etnie dei due Kivu. Le violenze inter-comunitarie sussistono, provocate dagli uomini politici in concorrenza per il potere locale. Il generale stesso è costretto a far partire da Goma, capitale del Nord-Kivu, i membri della sua famiglia oggetto di minacce.

Ad aprile del 2004 a Bukavu, capitale del Sud-Kivu, scoppia una rivolta di militari banyamulenge, dei Tutsi originari degli altipiani dell’Itombwe. La comunità munyamulenge è sotto pressione, le voci di un pogrom nascente si diffondono e alcuni banyamulenge sono uccisi.

Alla testa delle ex ‘Brigate autonome’ del RCD-G, Laurent Nkunda marcia su Bukavu e la occupa. Dopo aver messo fine alle violenze, abbandona la città e si ritira a Minova, cittadina del territorio di Kalehe, nel Sud-Kivu, dove resiste agli attacchi delle forze del generale Mbuza Mabe, inviato da Kabila.

Gatumba: la Transizione deve continuare

Il 13 agosto dello stesso anno a Gatumba, in Burundi e nei pressi della frontiera congolese, un campo di rifugiati Banyamulenge e Babembe, che erano fuggiti da Bukavu durante i fatti d’aprile, è attaccato da una coalizione di FDLR e di bande armate tribali, i Mai-Mai, appartenenti alla «casa militare» di Kabila.

Le casupole sono incendiate in piena notte e i superstiti sono finiti a colpi di machete e d’arma da fuoco. Le scene dell’eccidio sono orribili. Alla fine, si contano 147 morti all’incirca.

Quello di Gatumba è uno dei primi massacri dell’era Kabila, ma la comunità internazionale riunita nel CIAT fa profilo basso: la Transizione deve continuare. A quel punto, il generale ribelle crea una struttura di auto-difesa per difendere le comunità vulnerabili, l’Anti-Genocidio Team (AGT). Se la protezione delle comunità rwandofone è prioritaria, reclutamento e sensibilizzazione s’orientano verso tutte le etnie del Kivu, grazie anche all’attivismo dei membri della SNPC.

Intanto Kabila decide di farla finita con Nkunda ed a dicembre invia nel Nord-Kivu 10 000 uomini, per lo più reclutati nelle fila dell’ex-esercito del MLC di Jean-Pierre Bemba. A Kanyabayonga, località del territorio di Lubero, nel ‘Piccolo Nord’ del Nord-Kivu, le truppe di Nkunda stoppano l’avanzata delle forze nemiche e la «prima guerra» del Kivu si conclude con la vittoria del generale ribelle.

L’avvento del CNDP

Vista la piega presa dagli avvenimenti -Kabila intende riprendere tutte le leve del comando all’Est marginalizzando le popolazioni rwandofone e i soldati dell’ex-RCD-G-, Laurent Nkunda cerca d’allargare l’area del consenso politico alla sua azione rivolgendosi a membri influenti delle altre etnie (Nande, Fuliro, Shi, Nyanga etc) da una parte; e rafforzando le sue capacità militari dall’altra.

Prima trasforma l’AGT nel Comitato militare per la difesa del popolo (CMDP), poi lo fonde con la SNPC e crea il Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP) il 25 agosto del 2005 a Bwiza, nei pressi di Kichanga (territorio di Masisi, Nord-Kivu).

La geografia non è anodina in questo caso, e Nkunda lo ripeterà spesso per affermare la sua autonomia nei confronti del Rwanda e anche rispetto alla sua precedente esperienza nel RCD-G, ribellione (1998-2002) tributaria del Paese delle mille colline.

«L’AFDL (Alleanza delle forze democratiche di liberazione del Congo, che nel 1996-97 ha condotto e vinto la guerra contro la dittatura di Mobutu, ndr) e il RDC-G sono nati a Kigali, in Rwanda. Il CNDP è nato à Bwiza, nella RDC, ed è un movimento congolese che si batte per gli interessi e la difesa delle popolazioni congolesi».

Dopo la presa di Bukavu infatti, numerose voci si erano levate da importanti settori della comunità internazionale e nella RDC accusando il Rwanda di essere dietro a questi primi segnali della ribellione nkundista: in particolare in Francia, dato il persistere di una viva polemica tra le autorità di Kigali e quelle di Parigi sulle responsabilità francesi nello sterminio dei Tutsi del 1994; ma anche da parte di una potente lobby anti-rwandese transnazionale, con forti addentellati nel mondo anglosassone e spesso incline a posizioni apertamente negazioniste per le quali, e secondo le varianti più o meno estreme di qiesto discorso, i Tutsi a loro volta avrebbero commesso un genocidio degli Hutu, o addirittura provocato il loro uccidendo il capo dello Stato hutu Juvénal Habyarimana ed infiltrando le milizie che massacravano i loro congeneri.

La lobby anti-rwandese

Questo coacervo di forze eterogenee si impegnò da allora in una intensa battaglia comunicazionale volta a sventare con la forza qualsiasi forma di opposizione suscettibile di mettre realmente il discussione il potere partorito a Sun City dalle grandi potenze e da alcune potenze regionali (Angola, Africa del Sud..).

Un’opposizione di questo tipo doveva essere necessariamente disconosciuta, ignorandone e travisandone il progetto politico, fino a diabolizzarla con story telling in cui doveva essere considerata come il puro strumento delle ambizioni di espansionismo militare ed economico di Kigali. E fu la sorte riservata prima el CNDP, poi all’M23.

I media mainstream si sono imposti come portavoce di spicco di questa vulgata ufficiale che invitava nel suo argomentario la tesi del doppio genocidio (quello degli Hutu da parte delle vittime del primo sterminio, come abbiamo visto in precedenza), le teoria dei 5 milioni di morti Congolesi – evocata in concorrenza vittimistica o addirittura per produrre l’ipotesi di un ‘triplo genocidio’ -, ma che fu poi smentita da uno studio fatto svolgere dall’UE nel quadro del censimento elettorale del 2006, o quella della pretesa volontà di balcanizzazione della RDC), che avrebbe favorito gli interessi del Rwanda, da parte di ribellioni ‘telecomandate’. Le quali in realtà, mai hanno posto tra i loro obiettivi quello della secessione del Kivu.

Giornalisti ed analisti non sono gli unici ad essere stati messi a contributo. La Francia, grazie al controllo esercitato sul Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace (DOMP ou DPKO, secondo l’acronimo inglese, più usato) organizzava il lavoro degli ‘esperti’ onusiani che dovevano redigere rapporti orientati per il SGNU.

Uno di questi esperti attivisti fu individuato come simpatizzante delle milizie genocidarie Interahamwe, che lo stesso aveva qualificato di « sinceramente nazionaliste» nella sua pagina facebook. Insieme agli altri del suo staff era stato reclutato da Jason Sterns, un ricercatore americano a cui era stato affidato il ruolo di coordinatore del gruppo e che numerose fonti indicano comme vicino anche lui agli ambienti dell’opposizione armata a Kigali.

L’uomo è estremamente accorto nella gestione del suo ruolo. Per rendersi credibile quando disinforma, usa la tecnica sperimentata di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: nel 2017, per esempio, è stato autore di un rapporto ben organizzato per il suo think tank Gruppo di studio sul Congo, in cui accusa le FARDC di essere implicate nei massacri di Beni, nel Gran Nord del Nord-Kivu.

Salvo che, a decembre del 2008, si rese protagonista di una gaffe clamorosa. Fece redigere un rapporto interamente a carico del Rwanda accusato di sostenere il CNDP, il tutto meno di un mese prima dello smantellamento del movimento nkundista ad opera… del Rwanda. Un evento significativo di cui parleremo più avanti.

Dobbiamo d’altra parte sottolineare come emblematica la reazione dei dirigenti rwandesi in seguito al primo congresso fondatore del CNDP a Bwiza. Qualche settimana dopo e sotto pressione Usa, 47 collaboratori di Laurent Nkunda, tra cui l’attuale presidente dell’M23 Bertrand Bisimwa, rifugiati in Rwanda, sono arrestati dalle autorità locali ed estradati.

E’ ugualmente arrestato il colonello munyamulenge Jules Mutebusi, protagonista del sollevamento di Bukavu. « Laurent Nkunda, oltre a perdere degli elementi preziosi del suo movimento nascente, è confrontato ad un cambiamento d’atteggiamento da parte del Rwanda. Si renderà conto a partire da questo momento, che oltre a non poter più contare sui quadri politici del RCD-G, non potrà più contare neppure sull’appoggio rwandese », nota ancora S. A. Scott (opera citata, pagine 169-170).

Pertanto, il generale non cambia linea politica. La sua battaglia per l’eliminazione del fenomeno FDLR dal suolo congolese gli garantisce almeno la neutralità di Kigali, le cui autorità son comunque ben contente della presenza di un movimento cha fa da scudo, in prossimità della frontiera comune, alle incursioni delle forze genocidarie.

Il missaggio del 2007

A gennaio 2006, il nuovo comandante delle FARDC inviato nel territorio du Rutshuru (Nord-Kivu) da J Kabila, l’ex-Mai Mai Kasikila, si rende responsabile di atrocità contro la comunità Tutsi, di cui alcuni membri sono bruciati vivi col supplizio del pneumatico.

Dopo aver atteso invano l’intervento dell’esercito, Nkunda sbaraglia le truppe de Kasikila impadronendosi di numerose località ed estendendo l’area geografica in cui le sue unità – uscite prevalentente da tre Brigate ‘autonome’ del RCD-G (la 81, 82 e 83), poi rafforzate da altre adesioni, comme quelle delle Local Defence Forces del governatore hutu Eugène Serefuli -, si occupano della sicurezza delle differenti comunità.

Poi, nella cittadina di Sake, linea di fronte che separa il CNDP dalle FARDC, la tensione è forte tra i due schieramenti. Il 21 novembre, la 11esima Brigata delle FARDC attacca l’Esercito nazionale congolese (ANC, in acronimo francese), ala militare del CNDP), ma perde la battaglia.

Le forze di Nkunda avanzano verso Goma, la capitale provinciale, ma son fermate dall’intervento degli elicotteri da combattimento della Missione dell’Onu (MONUC). Che, per la prima volta, deroga al principio di neutralità onusiano e entra in guerra contro il CNDP.

Le trattative tra la ribellione e il nuovo governo, uscito dalla presidenziale dello stesso anno 2006, che ha confermato al potere J Kabila in una situazione confusa di irregolarità che avrebbero penalizzato il vero vincitore, Jean-Pierre Bemba, si svolgono durante il mese di dicembre. Si concludono con un gentleman agreement che sarà applicato via l’Accordo di Goma del 16 gennaio 2007.

Secondo le sue clausole, le forze dell’ANC e quelle delle FARDC si riuniranno in un processo di missaggio in cui ogni unità preserverà la propria integrità sotto un comando unificato. Un procedimento chiaramente di compromesso, officiato per la componente governativa dal generale John Numbi, figura di punta del regime, e che rivela tutta la diffidenza persistente tra i due campi, ciascuno dei quali mantiene la propria catena di comando.

In posizione d’inferiorità militare, Joseph Kabila é stato obbligato a trattare con un movimento il cui programma non si limita più alla protezione di una comunità, alla riconciliazione dei diversi gruppi etnici dell’Est e allo smantellamento delle bande genocidarie delle FDLR. Il CNDP s’investe ormai nella critica radicale di un regime basato sul sistema patrimonialista d’appropriazione delle risorse naturali e statuali da parte della classe politica e su un’ideologia nazional-popolare fondata sulla promozione dell’odio tribale, dell’etnicismo e della xenofobia.

Le forze sottoposte al missaggio avrebbero dovuto portare avanti assieme una campagna militare contro le FDLR, con cui tuttavia gli alti ufficiali delle FARDC continuavano ad intrattenere rapporti di collaborazione. Le truppe dell’ANC, comandate da Sultani Makenga, attuale capo militare dell’M23, installate nel Sud-Kivu, ottengono una serie di successi contro le FDLR, cosa che, malgrado gli accordi presi, non era gradita dalle alte gerarchie FARDC.

Così, dopo appena 7 mesi, l’operazione missaggio salta quando a luglio, una brigata sotto comando FARDC attacca le positioni di un’unità ex-ANC.

Il missaggio ha vissuto, ma resta il soggetto di un’altra leggenda congolese. Per spiegare la debolezza congenita del loro esercito, le frange più estremiste ricorrono all’argomento dell’infiltrazione «rwandese» nelle FARDC, infiltrazione che sarebbe appunto avvenuta durante le operazioni di missaggio con le truppe del CNDP. Che oltre tutto durarono qualche mese e non raggiunsero mai lo stadio di una vera fusione…

La Conferenza di Goma del 2008

Comunque sia, dopo Kanyabayonga e Sake, la «Terza guerra del Kivu» procede a fasi alterne e si risolve nelle vittoria spettacolare dell’ANC che riprende il campo di Mushaki, perso in precedenza, con un’operazione militare notturna che sorprende le forze avverse.

In posizione di debolezza, i lealisti firmano il cessate-il-fuoco a dicembre 2007, preludio alla Conferenza di Pace di Goma di febbraio 2008, in cui vengono invitati, oltre al CNDP, i gruppi armati dell’Est, creando un amalgama tra un movimento politicamente orientato e delle bande tribali senza causa, né progetto.

Nell’Accordo conclusivo, Kinshasa s’impegnava a promulgare un’amnistia, organizzare il ritorno dei rifugiati nei paesi limlitrofi, dichiarare il Kivu ‘zona disastrata’ per studiarne un piano di sviluppo, e smantellare le FDLR. Nessuna di queste condizioni fu rispettata e le ostilità ripresero ad agosto nel territorio di Rutshuru.

L’ennesima disfatta delle FARDC, che apre la strada ai negoziati di Nairobi (Kenya), è un segnale d’allarme per il regime che, a questo punto, teme per la propria sopravvivenza di fronte ad un movimento insurrezionale, con ambizioni ormai nazionali.

Il ‘golpe’ di Kigali nel 2009

E qui entra in gioco il Rwanda, in un ruolo che si situa all’opposto di quello che gli attribuiscono le divulgazioni ufficilali, che ne fanno invece l’eterno paese aggressore. Un paradosso della grande battaglia comunicazionale che, in questa parte tormentata della regione africana dei Grandi Laghi, si svolge senza esclusione di colpi dal 1994.

Il presidente rwandese Kagame apre le danze dichiarando: «Se Kunda combatte per proteggere la propria comunità, la sua lotta è rispettabile; ma se Nkunda si batte contro il governo di Kinshasa, allora il suo ruolo è quello di un signore della guerra e, in quanto tale, io lo combatto».

A dicembre 2008, il capo di Stato-maggiore dell’esercito rwandese (RDF), Marcel Gatsinzi, dichiara alla stampa: «Ci stiamo preparando per dare una mano ai nostri amici congolesi, affinché risolvano una volta per tutte il problema della ribellione all’Est».

Abbiamo visto in un nostro precedente articolo (https://www.farodiroma.it/alla-vigilia-della-visita-del-papa-tornano-a-soffiare-venti-di-guerra-l-rosati/) come Kigali opero’ organizzando un ‘golpe’ interno al CNDP, riuscito solo in parte, e procedendo all’arresto di Nkunda, da allora in residenza sorvegliata in territorio rwandese. Poi, ci furono gli Accordi del 23 marso 2009, in cui, a parte le rivendicazioni precedenti, fu stabilito di mettere in atto la Riforma dell’esercito.

La non-applicazione di questi accordi è all’origine della quinta guerra (2012-2013) con lo stesso movimento, che ormai non si chiama più CNDP, ma M23.

Essa si concluse con il Protocolli di Nairobi, le cui clausole non furono neppure questa volta rispettate da Kinshasa. Il che apri’ la strada al conflitto iniziato a novembre dello scorso anno, che perdura in una fase d’incertezza e di tensioni estreme sul piano regionale, e con il Rwanda di nuovo accusato, in particolare dal governo congolese, di sostenere la ribellione congolese.

Strano destino per quelli cha avevano preso le distanze dagli insorti nkundisti già nel 2005 e che, quattro anni dopo, si erano direttamente implicati per portare un colpo durissimo alle ambizioni del movimento. Senza dimenticare che a novembre 2012, quando l’M23 occupo’ per qualche giorno Goma, il Rwanda fu il primo paese che alzo’ la voce intimando ai ribelli di abbandonare la città.

E per ironia della sorte, le autorità rwandesi che furono capaci di ricostruire une pase distrutto dal genocidio mettendo fine all’odio tribale, son indirettamente chiamate a stroncare un movimento che si batte per questo stesso obiettivo…

Il tribalismo assassino

In questi giorni, le masse congolesi hyper eccitate dalla propaganda del governo chiedono di essere armate dalle autorità per «portare la guerra fino a Kigali», mentre la caccia ai Tutsi ha già fatto numerose vittime. All’Est della RDC, la narrazione ufficiale è eretta a verità di Stato e sussume i fatti reali, che scompaiono nella battaglia comunicazionale portata agli esiti estremi del terrorismo psicologico.

Gli estremisti congolesi rifiutano di essere accusati di tribalismo, che considerano estraneo al loro paese. Ma la storia dimostra il contrario. Ce lo ricordano i pogrom contro i cittadini originari del Kasaï, sottoposti ad un’epurazione massiccia in Katanga tra il 1992 e il 1994.

Ma ce lo ricordano soprattutto fatti più recenti, avvenuti durante la presidenza di J. Kabila. Le milizie etniche Tetela e Tshokwe del Kasaï, organizzate per dare la caccia ai Baluba durante la feroce repressione della rivolta di Kamwina Nsapu, nel 2017. Il massacro dei Banunu di Yumbi (provincia di Mai-Ndombe, dicembre 2018) da parte della milizia Batende organizzata dal’attuale governatore di Kinshasa Gentinyi Ngobila.

E tutto il ciclo dei massacri di Beni, nel Grand Nord del Nord-Kivu, in cui le bande etniche autoctone (Vouba, Talinga, Pakombe), manipolate da alcuni graduati delle forze speciali dell’esercito, hanno massacrato e continuano a massacrare una sezione della popolazione Nande, considerata ‘non-originaria’.

Nella RDC, la governance via l’odio, il terrore e la predazione sta per attingere un punto di non ritorno che potrebbe minacciare unità e coesione sociale del gigante dell’Africa centrale, paese tra i più ricchi della terra in risorse naturali strategiche.

* da IlFarodiRoma

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