Il gioco si fa più teso e tetro, se possibile. La decisione dell’Opec+ – l’associazione dei produttori di petrolio, allargata alla Russia – era nell’aria, ma quando è arrivata ha cambiato il quadro per quanto riguarda le attese sull’economia globale.
Il taglio della produzione di due milioni di barili di petrolio al giorno, a partire dal prossimo mese di novembre, è una spinta decisa verso il rialzo dei prezzi del greggio, visto che in tutto il pianeta se ne estraggono poco più di 80 milioni al giorno.
La decisione è stata presa, si legge nel comunicato finale dell’organizzazione, “alla luce dell’incertezza che circonda le prospettive economiche e del mercato petrolifero globale e della necessità di migliorare le linee guida a lungo termine per il mercato e in linea con l’approccio vincente di essere proattivi“.
L’elemento decisivo, ufficialmente, è nel relativo rallentamento dell’economia cinese, che riduce la domanda totale in modo giudicato consistente.
Ma in piena guerra e crisi energetica, e con la Russia all’interno del cartello dei produttori, la mossa non poteva non avere una forte valenza politica e geopolitica.
L‘amministrazione statunitense aveva lanciato infatti nei giorni scorsi una campagna di pressione nel tentativo disperato di dissuadere gli alleati mediorientali dal tagliare drasticamente la produzione.
La mossa potrebbe causare un aumento dei prezzi della benzina negli Stati Uniti a cinque settimane dalle elezioni di medio termine. E per un presidente indebolito come Biden questa rischia di essere la botta decisiva che lo priverebbe del controllo del Congresso, peraltro fondato solo sul voto di differenza fornito dalla vice, Kamala Harris.
“È chiaro che con la sua decisione , l’Opec+ si sta allineando con la Russia“, ha sintetizzato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. Lo stesso Biden è intervenuto giudicando la decisione “è un errore“, “miope”, e che il taglio “non era necessario“.
In una dichiarazione successiva la Casa Bianca ha fatto fa sapere che “l’amministrazione si consulterà con il Congresso su ulteriori strumenti e meccanismi per ridurre il controllo del cartello sui prezzi dell’energia“.
Per il Wall Street Journal la decisione dell’Opec+ potrebbe minare anche il piano del G7 di limitare il prezzo del petrolio russo sul mercato globale, parte fondamentale della battaglia economica dell’Occidente contro Mosca.
E ovviamente ci saranno ulteriori conseguenze rialziste anche sull’inflazione, che le principali banche centrali mondiali – Fed e Bce in primis – stanno tentando di contrastare agendo ottusamente sui soli tassi di interesse.
La “spiegazione” offerta dall’amministrazione Usa e dai principali media ha un forte fondo di verità, ma proprio per questo delinea la gravità della frattura che si è creata nel sistema di produzione e rifornimento mondiale, e che risale a ben prima dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
Se infatti gli Usa e in generale l’Occidente neoliberista (o “euro-atlantico”) pensavano di poter decidere dell’egemonia sul pianeta muovendo gli strumenti principali in proprio possesso – mercati finanziari, sistema dei pagamenti Swift, forme di pressione varia (dal finanziario al militare) – la situazione che si va delineando è parecchioi diversa.
Gran parte del mondo non solo non aderisce alle “sanzioni” decise in ambito euro-atlantico, ma reagisce con decisioni magari non univoche, fondate certamente su interessi tra loro diversi, ma in qualche modo nel senso contrario ai desiderata di Washington e Bruxelles.
Se in queste capitali qualcuno pensava che sarebbe stato complicato ma fattibile creare un “cartello dei clienti” in grado di imporre il prezzo di gas e petrolio, il “cartello dei fornitori” fa vedere che questo al momento è un sogno. La Storia è andata avanti, l’America non riesce più a imporre il suo volere come avveniva prima.
Basti ricordare che non è certo la prima volta che l’aumento o la diminuzione della produzione di petrolio influisce sugli equilibri mondiali. Solo che si è rovesciato questa volta il segno. Per esempio, il 18 settembre 1985 l’Arabia Saudita annunciò un drastico aumento della produzione aggiuntiva. Una rottura del “cartello” che doveva portare ad una drastica caduta del prezzo del greggio.
In soli quattro mesi, l’estrazione saudita passò da due milioni a 10 milioni di barili al giorno, e i prezzi crollarono da 32 dollari al barile a 10 dollari. Per l’economia dell’URSS – già abituata a redditi esorbitanti derivanti dal petrolio – questo fu un colpo mortale. Nel 1986 l’URSS perse più di 20 miliardi di dollari (circa il 7,5% del profitto annuo nel paese). Il seguito è noto, con il crollo tra il 1989 e il 1991…
Ora a farsi male è soprattutto l’economia euro-atlantica, abituata spadroneggiare ovunque nel mondo, con le buone (il dollaro) o le cattive (le invasioni). Ma chi ha potuto vedere da vicino la fuga dell’esercito Usa (e Nato) dall’Afghanistan – i sauditi più di tutti – sa che anche le minacce militari di Washington sono molto meno “convincenti” di prima. Non è più il tempo, insomma, di “guerre fino alla vittoria”. Se si vuole che il mondo sopravviva, cercare una pace vera è l’unica soluzione realistica. Soprattutto per gli euro-atlantici…
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EuroDeliri
Mi si perdoni se mi ripeto.
In quanto sudditi del governo italiano, siamo i picciotti della cosca perdente.