Menu

Il “Peruanazo” e la linea di faglia latino-americana

Sale a 21 il numero delle vittime tra i manifestanti che dal 7 dicembre, giorno della destituzione del legittimo presidente Pedro Castillo, stanno animando le strade e le piazze del Perù.

La prima vittima è stata un 15enne, Atequipa Quispe; la seconda un giovane appena maggiorenne, Beckam Romario Quispe Garfias, entrambi nati a Andahuaylas, una regione della zona Sierra Sur del Paese. Almeno 7, tra i 21 morti, non superavano i 19 anni.

Solo nella giornata dello sciopero nazionale del 15 dicembre sono state assassinate 10 persone, ma il bilancio potrebbe aggravarsi nelle prossime ore, mentre le proteste continuano e non sembrano scemare.

8 sono morti solo nella regione di Ayacucho – e 52 i feriti – negli scontri che si sono verificati quando un gruppo di manifestanti ha tentato di invadere l’aeroporto ed è stato represso dalla polizia. L’ultima vittima, è un giovane di 17 anni colpito da una bala (proiettile) mentre aiutava un ferito all’esterno dello scalo Alfredo Mendívil Duarte.

I blocchi stradali, l’occupazione delle centrali idroelettriche e l’invasione degli scali aereo-portuali, insieme alle manifestazioni, erano stati i principali e più incisivi strumenti di lotta in quella che ha preso la forma di una insurrezione di massa e ha intaccato a fondo le attività economiche delle regioni in cui si è maggiormente sviluppata, impattando fino ai 3/4 del valore della produzione, specie nel settore minerario ed agricolo.

Secondo quanto riporta National Callao tv, che mostra le immagini, Ospedale Regionale di Ayacucho è collassato a causa dell’arrivo dei feriti, costringendo il personale a montare tende di emergenza per assistere a coloro che arrivavano con ferite de bala.

Polizia ed esercito, a cui la proclamazione dello Stato d’Emergenza attribuisce ampi poteri, sparano spesso ad altezza d’uomo e non in aria per disperdere la folla, come dimostrano vari filmati trasmessi dai canali “comunitari”, tra cui Kaysay Pacha Tv.

Sono spalleggiati da una parte dei deputati del Congreso e dai media mainstream, che sin dall’inizio delle proteste hanno parlato di terroristi (nonostante non esista più da tempo alcuna attività guerrigliera), e hanno chiesto di “reprimere nel sangue” le mobilitazioni.

Non ha usato mezzi termini il deputato Jorge Montoya che ha affermato “siamo in guerra”; ed ancora più esplicito è stato Alejandro Cavero, con il suo “uccidere o morire”.

Nonostante, o forse proprio grazie a quello che è successo, il Comitato Esecutivo Nazionale di Fuerza Popular, la formazione maggiormente rappresentativa al Congreso, la cui leader è la figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori – più volte candidata presidente ed uscita sconfitta dalla sfida elettorale con Pedro Castillo – ha affermato espressamente con un comunicato del 16 dicembre: «giusto o no, Dina Boluarte è l’attuale presidente del Perù ed è lei che deve guidare un processo che non si realizzerà in maniera immediata e nemmeno con le minacce».

Di fatto un nulla osta per continuare nella direzione intrapresa, nonostante il massacro, e blindarne l’appoggio.

Alcuni tra i maggiori quotidiani peruviani nelle loro prime pagine omettono completamente la strage di Ayacucho del 15 dicembre, come mostra il canale informativo Wayka. mostrando le testate di “El Comercio”, “Perù 2” e L’expreso”.

Ma l’escalation di violenza ha fatto aprire le prime brecce all’interno della compagine governativa, con il Ministro della Cultura, Jair Perez, che ha rinunciato all’incarico proprio a causa delle vittime dovute alla feroce repressione, così come della Ministra dell’Istruzione, Patricia Correa, ha dato le sue dimissioni irrevocabili per l’uso della violenza “sproporzionata e generatrice di morte”. Anche il governo della regione di Ayacucho è stato molto duro su ciò che è successo.

Un segnale di “spaccatura” che non potrà che estendersi con l’incapacità di risolvere l’attuale crisi politica.

Chi porta la maggior responsabilità in questa mattanza, oltre alle alte gerarchie delle Forze Armate e della Polizia, che hanno voltato le spalle a Castillo nonostante il suo appello il 7 dicembre; sono la (vice)presidente Boluarte, così come il Ministro dell’Interno César Cervantes e quello della Difesa, Luis Alberto Otárola.

Il Coordinamento Nazionale dei Diritti Umani (Cnddhh) del Perù ha chiesto una inchiesta sui responsabili della morte in Ayacucho: “esigiamo che cessi l’intervento militare e riteniamo responsabili di questi crimini le più alte autorità del Paese”, ha scritto su Twitter.

Anche la Defensoría del Pueblo si è rivolta al Comando Congiunto delle Forze Armate esigendo “il cessate immediato dell’uso delle armi da fuco e di bombe lacrimogene lanciate dagli elicotteri”.

Numerose immagini e video mostrano infatti in azione i blindati e gli elicotteri in uno scenario che ricorda più la guerra civile a bassa intensità che la gestione dell’ordine pubblico, supportata da una narrativa che non può che portare alla giustificazione del massacro in corso.

Il dialogo non è una strada percorribile in ‘guerra’. Il cedere, molto meno. Ascoltare il ‘nemico’ non è possibile in una ‘guerra’. Il ‘nemico’ si combatte e basta. Questa è la strategia discorsiva del repressore che giustifica l’operato delle Forze Armate”, scrive Laura Arroyo nell’editoriale di Wayka.pe

Quale sia il modus operandi delle Forze Armate è visibile in un filmato del Ministero della Difesa, risalente al 2020, in cui si simulano differenti scenari di mancato rispetto delle regole in un contesto di “stato d’eccezione permanente”, allora per la gestione militare della pandemia ed ora di militarizzazione del conflitto sociale.

La Missione in Perù dell’ONU sui diritti umani (OACNUDH in spagnolo) ha denunciato questo venerdì l’aumento della violenza nel paese in mezzo alla crisi politica.

La Missione ha trasmesso la sua “seria preoccupazione” per ciò che sta avvenendo in termini di vittime e di mancanza di rispetto del diritto di “riunione pacifica”, annullato con l’instaurazione dello stato d’emergenza che prevede anche la violazione del domicilio da parte delle forze dell’ordine; cui si è aggiunto – in una quindicina di regioni – un vero e proprio divieto di muoversi, la immovilizatión social obligatoria.

Intanto il Giudice Juan Carlos Checkley, del Juzgado de Investigation Pretaratoria della Corte Suprema, ha imposto la carcerazione preventiva per 18 mesi all’ex-presidente Pedro Castillo per presunta “ribellione” e altri reati.

Più che una arbitraria custodia cautelare sembra essere un vero e proprio sequestro da parte di quella trama di poteri che, dal suo insediamento, ha cercato di destituirlo, e che gli ha rifiutato un esilio “di fatto” in Messico, dove aveva chiesto asilo politico.

Una gestazione lunga di questo Colpo di Stato, che ha profonde similitudini con i tentativi di destabilizzare governi progressisti nella regione “per via giudiziaria” – su cui torneremo più analiticamente in altri contributi – ben compresa sin da subito da una serie di leader latino-americani a Cuba, in Messico, Bolivia, Argentina e Venezuela.

Il mancato riconoscimento della “presidente usurpatrice” è un segnale importante che isola la destra golpista peruviana e fortifica l’autonomia politica del variegato fronte progressista latino americano, che ha visto tanti suoi esponenti cadere – o rischiare di cadere – sotto i colpi del lawfare giudiziario di cui il Perù e l’Argentina non sono che gli ultimi esempi.

Manuel Zelaya, Fernando Lugo, Rafael Correa, Evo Morales, i leader brasiliani Dilma Rousseff e Lula sono solo alcuni esempi…

Nonostante gli errori ed i tentennamenti, Castillo è riuscito a stabilire una “connessione sentimentale” che non potrà essere facilmente recisa con i popoli del Perù, da cui ha ricevuto più di 8 milioni e mezzo di voti su una popolazione di poco inferiore ai 24 milioni di abitanti, ed anche un certo credito presso le esperienze progressiste latino-americane, non da ultimo il presidente colombiano Gustavo Petro.

La realtà è che Pedro Castillo era al governo, ma non poteva esercitare il potere, né contrastare chi continuava a detenerlo senza fare ricorso alla mobilitazione popolare contro la borghesia compradora.

Pedro, “El Profe”, era un insegnante nella regione andina settentrionale di Cajamarca, ed un leader sindacale che ha guidato lo sciopero dei docenti del 2017, prima di essere candidato vincente tra le fila di Perù Libre, con cui aveva rotto quest’estate.

Era stato un successo strepitoso che aveva bypassato i tradizionali partiti peruviani, soprattutto se si considera che – ad un mese dal primo turno delle elezioni dell’11 aprile – non compariva nemmeno nei sondaggi tra i sei possibili presidenti, risultando poi il più eletto (con il 18,9% dei voti) contro la figlia di Fujimori.

Un risultato poi confermato, nonostante le accuse di brogli della sfidante, al ballottaggio: segno che la polarizzazione sociale durante la pandemia e la messa in luce della vera natura del modello di sviluppo neoliberista inaugurato proprio da Fujimori padre, avevano avuto uno sbocco politico radicale progressista.

Quello che ha spinto la destra oligarchica ed i propri sponsor occidentali a passare alle vie di fatto il 7 dicembre, probabilmente sbagliando i propri calcoli, è riassumibile in tre ragioni.

La prima è che credevano di avere di fronte un personaggio indebolito e rinunciatario, ma che invece ha dimostrato un notevole coraggio politico nel mantenere dritta la barra anche, e soprattutto, nella sua condizione attuale di prigioniero politico.

La seconda è da rintracciarsi nella necessità che un paese produttore di materie prime strategiche per le produzioni tecnologicamente avanzata – il Perù è il secondo produttore mondiale di rame, dopo il Cile, ed uno dei principali fornitori di zinco, oltre ad essere ricco di oro e argento, e di idrocarburi come petrolio e gas – potesse decidere di sganciarsi definitivamente dalla filiera occidentale ed attuare l’ambizioso progetto di riforme sociali presentato in campagna elettorale: nazionalizzazione dei settori strategici, tassazione alle imprese, e riforma costituzionale.

La terza è l’avere creduto che questo sarebbe stato accettato, magari obtorto collo, dagli altri paesi latino-americani. Ma così non è stato.

Per questo, quello che si sta sviluppando in Perù determinerà il corso politico a venire per il continente: o vince la contro-rivoluzione, ringalluzzendo tutta la destra oligarchica latino-americana ed i suoi burattinai di Washington e Madrid, ricreando sfiducia nel variegato campo progressista latino-americano circa la possibilità di determinare un proprio piano politico autonomo; oppure vince la “volontà del popolo”, ricacciando nella pattumiera della storia i figli, non solo politici, di uno dei peggiori macellai che ha conosciuto Nuestra America, oltre a tutta la cricca di oligarchi, politici corrotti, narcotrafficanti e operatori professionali della disinformazione che hanno governato il paese.

Difficile vedere una qualche ipotesi conciliatoria come via d’uscita dalla crisi politica.

Di fronte a questo, per i comunisti, i progressisti, od anche i “sinceri democratici” la domanda “da che parte stare?” non si pone nemmeno.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *