Domandando alla Commissione europea se intenda aumentare la spesa per la “sicurezza esterna” nel periodo 2023-2027, l’eurodeputato polacco Joachim Brudzinski ha chiesto lo stanziamento di fondi aggiuntivi per la “difesa” della Polonia, adducendo ovviamente la situazione ucraina e la pretesa polacca di «giocare un ruolo strategico» sul fianco orientale della NATO. Non a caso, dalla Polonia passa attualmente quasi il 90% delle forniture militari occidentali alla junta di Kiev.
I fondi europei dovrebbero servire alla modernizzazione delle forze armate polacche: nel 2022 Varsavia ha stanziato per la “difesa” il 2,4% del PIL e le previsioni, a detta del presidente Andrzej Duda, sono di arrivare al 3% già in quest’anno e poi al 4%.
A parere dell’esperto militare russo Andrej Koškin, la Polonia prosegue sulla strada, intrapresa ormai da anni, di tentare di spostare il centro d’attenzione occidentale dall’asse Parigi-Berlino a est, in particolare verso l’area del Baltico, con Varsavia elemento di punta.
Già un mese fa, il Ministro della difesa Mariusz Blaszczack aveva aveva annunciato per il 20 marzo l’operatività della prima guarnigione permanente USA in Polonia, che si occuperà del «supporto infrastrutturale alle truppe americane» nel paese.
E intanto Varsavia mette gli occhi sulla exclave russa di Kaliningrad. Ancora Blaszczack ha dichiarato che presto la 16° Divisione meccanizzata della Pomerania, il cui quartier generale è a Elbląg, a 45 km dal confine russo, verrà rifornita con sistemi a reazione HIMARS, ora che il Congresso USA ha approvato la richiesta fatta nel 2019 da Varsavia per ulteriori 500 lanciatori, munizionamento e altre armi per 10 miliardi di dollari.
È molto importante, ha detto Blaszczack, «che l’esercito polacco sia dotato di armi che si sono dimostrate valide al fronte, in guerra, che nelle mani degli ucraini si rivelano molto efficaci».
A Mosca si suppone che i nuovi lanciatori (che coprono distanze fino a 300 km, mentre la versione che entrerà in servizio quest’anno avrà una gittata fino a 500 km) possano esser dispiegati nell’area di Olsztyn, cioè a 103 km in linea retta da Kaliningrad.
In ogni caso, commentatori russi dubitano che i nuovi HIMARS possano servire da mezzo di pressione psicologica su Mosca, vista la dotazione di sistemi missilistici Iskander-M da parte forze russe schierate nella regione di Kaliningrad.
La spiegazione più logica per il dispiegamento dei HIMARS e la concentrazione di forze NATO attorno alla exclave russa è probabilmente il piano di costringere la Russia a “disperdere” le proprie forze.
In ogni caso, anche l’arrivo dei nuovi lanciatori missilistici, rientra in quella che The Telegraph e Defense24 definiscono la più estesa campagna di riarmo intrapresa da Varsavia negli ultimi 50 anni: in programma, l’acquisto di carri armati (mille K2 sudcoreani e 250 Abrams americani), aerei, elicotteri, sistemi missilistici e artiglieria.
E, appunto, Abrams e K2 armeranno la nuova Divisione polacca, con quattro brigate che saranno schierate nel Voivodato di Podlachia, confinante sia con la regione di Kaliningrad che con la Bielorussia; un’altra brigata di artiglieria sarà armata con obici semoventi Krab polacchi e K-9 sudcoreani.
Non dimentichiamo che nell’estremo nord della Podlachia è situato il famoso “istmo di Suwalki” (“Przesmyk suwalski”, in inglese “Suwalki Gap”): quell’ipotetico corridoio di circa 100 km che, via terra, va dal confine bielorusso alla regione russa di Kaliningrad e coincide grosso modo con la frontiera tra Polonia e Lituania, considerato dalla NATO uno dei punti deboli dell’Alleanza.
Naturalmente, a fronte delle ambizioni polacche (Varsavia ha in programma di portare da 125.000 a 300.000 il numero di militari in servizio), Mosca non sta a guardare: le forze russe di terra nella regione di Kaliningrad, che erano passate da 25.000 uomini nel 1999 a 10.500 nel 2010, vengono ora gradualmente ripristinate.
Già prima dell’avvio delle operazioni in Ucraina, era stata ripristinata la 18° Divisione di fanteria motorizzata della Guardia, che era stata sciolta venti anni fa e si è proceduto alla completa riorganizzazione delle forze della flotta del Baltico, con reparti di fanteria di marina, rafforzate da unità aeree.
Sono di stanza nella regione una brigata di missili Iskander, un reggimento tank (T-72B3M), una brigata di artiglieria e due brigate di fanteria motorizzata; tre reggimenti contraerei armati con S-300 e S-400, due reggimenti di aviazione d’attacco (Su-30SM2) e uno di elicotteri, oltre a una squadriglia di elicotteri dell’aviazione di marina. La base navale di Baltijsk è stata rafforzata da motovedette lanciamissili armate di Kalibr.
A detta degli osservatori, l’ulteriore militarizzazione della Polonia, così come l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO dovrebbe, nei piani dell’Alleanza atlantica, costringere la Russia a dislocare ancora più forze a protezione della vulnerabile Kaliningrad, indebolendo così le forze impegnate in Ucraina. Allo stesso scopo, servirebbe anche il piano NATO di aumento da 30.000 a 100.000 delle truppe stanziate in Polonia, Norvegia e Paesi baltici.
D’altronde, a parte la boutade dell’ambasciatore polacco in Francia, Jan Rosciszewski, secondo cui spetterà a Varsavia «difendere l’onore occidentale» contro la Russia una volta che Kiev cadrà, già un anno fa l’ex comandante delle forze di terra polacche, Waldemar Skrzypczak, aveva detto senza mezzi termini che Kaliningrad è «territorio occupato» dal 1945 e, dunque, «abbiamo il diritto di rivendicare quel territorio».
Ma, qual è di fatto la reale attuale consistenza delle forze polacche? Da qui al 2035, Varsavia ha ordini di armi per oltre 117 miliardi di dollari, e un bilancio per la difesa per il 2023 di 26 miliardi di dollari. Per chiarire però la vera dinamica del rafforzamento delle forze armate polacche, è necessario considerare anche il deflusso di mezzi, in particolare verso l’Ucraina.
Oltre gli ultimi dieci Leopard forniti a Kiev, di cui ha parlato Blaszczak, ci sono stati i circa 60 carri PT-91 Twardy e, a seconda delle fonti, i 230-250 carri T-72 di varie modificazioni: in generale, oltre la metà delle riserve di blindati polacchi sono andati in Ucraina, insieme a droni, lanciarazzi multipli, obici semoventi e altri mezzi.
Lo scorso 14 marzo, il primo ministro Morawiecki ha annunciato la prossima consegna di MiG-29: non è noto il numero, ma Varsavia dispone attualmente 28 MiG-29 di cui, secondo Duda, solo 16 idonei al volo. Nella classifica 2022 dei “fornitori” di Kiev, la Polonia è comunque seconda, dietro agli USA.
Anche con il decantato passaggio a trecentomila uomini, le cose non sembrano così lisce: secondo la società di reclutamento “Gi Group”, il numero di persone, soprattutto in età 25-44 anni, che preferirebbero emigrare, è in notevole aumento e, stando ai sondaggi, sta crescendo l’opposizione alla guerra.
Così che, nota Evgenij Žukov su Life, non è azzardato dire che Varsavia punti sulla vittoria dell’Ucraina, mentre le parole dell’ambasciatore Rosciszewski sulla «lotta per i valori europei» non riflettono il quadro reale della preparazione polacca a una guerra in grande stile.
L’intera riforma militare è infatti progettata sul lungo periodo e, al momento, anche a causa delle forniture all’Ucraina, il paese è praticamente indifeso. E se qualcuno conta sull’intervento degli “alleati” NATO a fianco della Polonia in un eventuale conflitto con la Russia, a parere di Konstantin Sivkov, Varsavia rischia seriamente di rimanere “in uno splendido isolamento“.
In questa fase, nota Sivkov, una previsione più realistica potrebbe essere quella di dar seguito alle vecchie mire polacche, annettendo la Galizia ucraina e avviando operazioni per staccare da essa altre regioni occidentali, trasformandole in zone cuscinetto “per motivi di sicurezza“.
Tanto che il generale Keith Kellogg, presidente del Centro per la sicurezza americana, scrive su American Thinker che il risultato più probabile del conflitto in Ucraina sarà una tregua umiliante per il regime di Kiev, dopo di che il paese cesserà di esistere e dovrà esser diviso: il territorio a est del Dnepr, alla Russia e quello a ovest, alla Polonia.
Così che, a meno di manovre a noi segrete, le parole di Rosciszewski sembrano più a effetto che altro. Come disse il Gran coppiere a Ezechia, parlando a nome del re d’Assiria: «Pensi forse che la semplice parola possa sostituire il consiglio e la forza nella guerra?». Non per questo, però, l’ingordigia della “iena d’Europa” è meno pericolosa.
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Gianni Sartori
ARMENIA ABBANDONATA DA TUTTI, ANCHE DALLA RUSSIA?
Gianni Sartori
Alla fine, pressata da più parti affinché intervenisse (“Russia, se ci sei batti un colpo”), Mosca ha parlato tramite il Ministero della Difesa. Accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appare sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei Curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (“guerra a bassa – relativamente bassa – intensità”) non erano mancati.
Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e nonostante fosse costato la vita di cinque persone, era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto (rivolgendosi anche al tribunale internazionale dell’Onu) l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio ( con oltre 120mila persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali). In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di Pace.
Il pretesto avanzato dai soidisant “ecologisti” azeri che da mesi bloccano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni starebbero compiendo “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, finora da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che “le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo”.
“Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso” aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della Commissione affari esteri dell’Assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh.
Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”.
Ossia, detta fuori dai denti “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia”. Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.
Gianni Sartori