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Il Giorno della Vittoria a Mariupol

La mattina presto del 9 maggio 2022, con i miei colleghi e amici Bruno de Carvalho e Maurizio Vezzosi ci siamo diretti verso il porto di Mariupol, sul Mar d’Azov, per coprire la celebrazione del Giorno della Vittoria sovietica sulla Germania nazista nel 1945. A Donetsk le consuete cerimonie erano state sospese, per timore di un attacco dell’artiglieria ucraina al centro della città, che, contrariamente a quanto tutti ci aspettavamo qualche settimana prima, aveva cominciato ad intensificarsi.

A quel tempo Mariupol era una città praticamente in rovina, devastata dalla battaglia e dalla pratica ucraina di utilizzare gli edifici residenziali e pubblici come punti di combattimento, con la popolazione civile come scudo. Eravamo già stati lì molte volte, e le testimonianze concordavano in modo schiacciante sul fatto che i nazionalisti piazzassero carri armati e cannoni negli ampi cortili degli edifici di costruzione sovietica, per poi ritirarsi bruciando le residenze, con i loro abitanti rinchiusi negli scantinati.

La battaglia per Mariupol non era finita: i gruppi nazionalisti neonazisti e dell’esercito ucraino si erano trincerati nello stabilimento metallurgico di Azovstal, il più grande d’Europa, costruito dall’Unione Sovietica per resistere a un attacco nucleare, con una solida protezione in cemento, e immensi sotterranei con labirinti collegati tra loro e uscite mimetizzate verso l’esterno. Sarebbero usciti con le braccia alzate, un paio di settimane dopo.

Come in tutte le città sovietiche, un immenso parco e una spianata sono il luogo dell’omaggio ai 27 milioni di cittadini sovietici caduti in difesa della loro patria socialista dopo l’invasione tedesca del 1941. Sono monumenti che mettono in risalto sia l’umanità dei soldati che il sacrificio dei lavoratori.

Sono spazi che commuovono in tempo di pace, ancor di più perché sono a pochi isolati dall’acciaieria, con le continue esplosioni di artiglieria a fare da cornice alla celebrazione. Mariupol detiene il titolo di Città Eroe dell’Unione Sovietica, come evidenziato da un muro di marmo rosso, sul quale sono riportati anche i nomi di molti dei caduti, e dove le famiglie vengono a deporre fiori.

A un’estremità del muro è stata aggiunta una nuova scultura: l’effigie della famosa “babushka” (nonna) contadina che nella zona di Kharkiv ha tirato fuori dalla sua soffitta la bandiera sovietica per salutare quelli che pensava fossero soldati russi. Ma erano nazionalisti ucraini che le hanno passato del cibo e calpestato la bandiera per scherno.

La donna ha restituito loro il cibo e recuperato la sua bandiera, gridando loro in faccia il significato di quel panno rosso nella lotta contro gli invasori nazisti. La sua immagine è diventata l’emblema dell’Operazione Militare Speciale, che molti soldati e ufficiali russi portano sul petto.

A Mariupol in quei giorni non c’erano elettricità, comunicazioni, acqua, carburante, e la gente cucinava con qualsiasi pezzo di legno nei giardini degli edifici che erano rimasti ancora in piedi. Negli edifici distrutti, molti, si viveva in scantinati costruiti proprio per l’eventualità di una guerra, però non tra russi, bensì con possibili invasori stranieri.

Per la prima volta da febbraio si ascoltava musica, prodotta con generatori. Canzoni della Grande Guerra Patriottica. Centinaia di abitanti della città si sono incamminati verso i monumenti per deporre fiori, o semplicemente per rendere omaggio ai propri genitori e nonni. Si è tenuta una marcia, guidata dal leader della Repubblica Popolare di Donetsk, Denis Pushilin. Tutto questo, ripeto, in mezzo agli incessanti bombardamenti ad Azovstal.

Era una calda giornata primaverile. Ho intervistato molte persone, chiedendo perché fossero lì. Abbiamo visto una famiglia numerosa, guidata da una donna sulla sessantina.

Quando ha saputo che venivo dal Cile, mi ha abbracciato e con gli occhi lucidi ha detto che era stata molto dispiaciuta per il colpo di stato del 1973, e in particolare per la morte di Víctor Jara, e che sperava che qualcosa di così atroce non accadesse mai più. Tutta la famiglia ci ha circondati, ci hanno raccontato le loro difficoltà e la loro speranza che la guerra finisse presto e ricostruissero le loro vite, avevano fatto molta strada per arrivare dove si teneva la celebrazione della Vittoria ed erano contenti di essere tornati in Russia.

Mi sono trovato lì nella strana situazione di essere consolato per un colpo di stato avvenuto nel mio paese natale 49 anni prima, da una famiglia che stava vivendo una tragedia molto più grande, ma con quello spirito molto russo che alcuni chiamano resilienza. Non sarebbe stata l’unica volta che mi sarei trovato in una situazione del genere.

In un’altra occasione, una coppia di anziani cucinava il borsch, la tipica zuppa ucraina, fuori dalla porta del loro edificio. Ho registrato la cottura, non senza acquolina, e l’uomo ha chiesto da dove venissi. — “teleSUR, Venezuela“, e lui esclama – come mi sarebbe accaduto molte volte in seguito – “Venezuela! Chávez, il Presidente del popolo!“, per poi aggiungere che questa guerra almeno stava facendo sì che gli Stati Uniti riducessero la pressione del blocco.

Ancora una volta, qualcuno che pensa al [resto del] mondo in mezzo a quell’orrore, solidale pur in mezzo alle rovine della propria vita. Un fenomeno che poi avrei verificato come molto russo.

Diversi mesi dopo sarei stato gravemente ferito da un proiettile ucraino in pieno centro di Donetsk. Due costole rotte hanno impedito a una scheggia di una carica da 155 mm, di fabbricazione francese, di penetrare nei miei polmoni. La scheggia fa parte del mio corpo oggi, proprio come il ricordo di quel 17 settembre e delle settimane che seguirono: l’ospedale pubblico, i dottori, le dottoresse, i soldati feriti, le autorità di Donetsk.

Altro esempio dello spirito russo, che ancora oggi contrasta nettamente con l’atteggiamento della stampa nel mio paese natale, che ha ignorato il fatto per non dover parlare degli attacchi ucraini ai civili. Così pure ha fatto il governo “progressista” per cui ho votato nel 2021, che non ha mai nemmeno chiesto informazioni sulla mia salute. O l’Albo dei Giornalisti a cui appartengo, che pure non ha mostrato alcuna reazione.

Come sarebbe andata se fossi stato un giornalista di un canale commerciale, vittima di una proiettile russo sul suolo ucraino? Per molto meno sono stati fatti scandali internazionali.

Sono simboli politici e ideologici del mondo che è cambiato, e della crescente inconsistenza di termini come “sinistra” e “progressismo”: i comunisti in Cile e in Spagna partecipano a governi che sostengono Zelensky, che perseguita e uccide i comunisti. Un regime che glorifica Stepan Bandera e i collaborazionisti degli invasori, che non solo non celebra il 9 maggio, ma demolisce i monumenti ai propri eroi sovietici, brucia libri, cerca di riscrivere la storia per presentare le orde genocide di Hitler come liberatrici.

Alla fine di marzo, quando siamo arrivati ​​in Donbas, lo stesso giorno in cui siamo arrivati, abbiamo assistito a una conferenza stampa del capo del governo davanti a un bancomat nel centro della città di Donetsk, dove quattro giorni prima un missile ucraino Tochka Uno aveva causato la morte di 20 persone. Lì Pushilin ha lanciato un ottimistico monito che poi è stato smentito dalla realtà: questo, disse, sarebbe stato l’ultimo attacco di grande entità dei nazionalisti, gli otto anni di continui bombardamenti contro i civili stavano per finire.

In quei giorni il ministero della Difesa russo organizzava tour giornalistici nelle zone vicine ai combattimenti. Anche una volta a Mariupol, in aprile, per visitare il teatro che, secondo il regime di Kiev, era stato distrutto da aerei russi con tremila persone all’interno. A quel tempo la battaglia era ancora in corso nel centro della città e questi tour non erano privi di pericoli. Anzi.

Ogni tour ci portava in luoghi appena coperti dalla Russia, alcuni senza aver sparato un colpo, come Kherson, Berdyansk o Melitopol, dove la vita si stava rapidamente russificando: passaporti, targhe di auto, banche, valuta, ecc. Erano luoghi dove non si svolgevano battaglie, e c’era un’atmosfera tranquilla, normale, con caffè e viali pieni di gente.

A Kherson ho incontrato Kirill Stremousov, giovane ed energico vice governatore della regione. Entusiasta, parlava un po’ di spagnolo imparato in America Centrale e in Messico. Un ammiratore di Chávez e del Ché, mi disse. Indossava un abito grigio e sotto un giubbotto antiproiettile bianco. Portava sempre un fucile AK. Mi disse che dopo la guerra in quella parte dell’Ucraina meridionale sarebbe stata costruita una società giusta, “anche migliore dell’Unione Sovietica“.

Anche se sembrava tutto sotto controllo, evidentemente non era così, si respirava tensione. Quella stessa notte un attentato terroristico ha scosso il centro della città. Che Stremousov girasse sempre armato era un altro segno: di lì a poco sarebbe morto in un confuso incidente stradale. Mesi dopo, le truppe russe si sarebbero ritirate da lì verso la sponda orientale del grande fiume Dnepr.

A quel tempo, aprile, quasi tutti pensavamo – forse stupidamente – che fosse possibile una rapida fine del conflitto. Che il 9 maggio ci sarebbe stata una parata per la vittoria anche sul regime di Zelenskyj.

Quel 9 maggio il mio giovane collega, amico e compagno di avventure Nikita Tretyakov non andò a Mariupol, preoccupato per il discorso di Vladimir Putin alla parata militare. Temeva che il Presidente soccombesse alle forze interne dell’élite russa che stavano promuovendo, e stanno promuovendo, un accordo di pace che lasci le cose come stanno e consenta loro di tornare alle loro vite precedenti e ai loro affari. Un anno dopo, quell’ansia è sempre lì: il mondo è cambiato radicalmente da allora, ed è, per questo, molto più pericoloso di quanto si prevedesse.

L’attentato contro Vladimir Putin con i droni nello stesso Cremlino alla fine ha portato la guerra in una Mosca moderna e cosmopolita che sembrava non avere nulla a che fare con essa. Per infliggere un colpo finale al conflitto, è ogni giorno più evidente che dovranno essere mobilitate più riserve e si genereranno più tensioni all’interno della società, dell’élite e della burocrazia russa.

Per la Russia questa è una guerra per l’esistenza, che non può perdere. Ma lo è anche per un sistema di dominio mondiale unipolare che si sta sgretolando sotto i nostri occhi e i cui leader sono disposti a tutto pur di mantenerlo. Anche a costo di distruggere l’Ucraina e l’intero pianeta.

* giornalista – https://madmimi.com/p/71d1461?pact=4893001-173352069-7004672224-a87d3dd63abd973cd95e287112647a5bd912b0e0

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