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18 lunghissimi mesi cruciali

Proviamo, come sempre, ad uscire dalla trappola della quotidianità. Quella costruita dal binomio tra classe politica e media padronali secondo cui, come sempre, quello cui apparteniamo è il migliore dei mondi possibili e se ci troviamo male è solo colpa nostra.

Nel tran tran quotidiano c’è spazio solo per le questioni inessenziali, quelle che non spostano nulla, tra un Fazio che firma un nuovo contratto e un Salvini che si finge autore della sua scelta.

Ma fuori di questo micromondo sta succedendo molto. Ed è decisivo capirlo, altrimenti le nostre “scelte politiche” saranno solo adattamenti tardivi a qualcosa che si è già consolidato.

Sfruttiamo perciò un editoriale di TeleBorsa – agenzia di stampa specializzata in economia, come si intuisce – per seganalare alcuni dei processi in corso che mettono in forse la continuità del business as usual.

L’elenco è forse incompleto, ma quel che c’è è già sufficiente a disegnare in modo attendibile la crisi di sistema dell’imperialismo euro-atlantico.

Le elezioni in Turchia non hanno modificato “l’anomalia” di un paese Nato che gioca per conto suo. Ed il fatto che si sia votato, che il voto sia stato relativamente incerto nell’esito (al netto di possibili brogli e la pratica corrente di dare soldi agli elettori, per mano dello stesso Erdogan a favore di telecamera) comunque incrina un po’ quella definizione sbrigativa di “dittatore” regatagli da Mario Draghi.

Si voterà anche in Russia, il prossimo anno. E anche qui c’è un “dittatore” che regolarmente si presenta alle elezioni, le vince con scarti variabili, è costretto ad usare una vasta serie di strumenti per accaparrarsi il consenso, invece di eliminare una volta per tutte il rito elettorale (come farebbe un dittatore vero…).

Si voterà anche nell’Unione Europea, democraticissima, per eleggere uno pseudo-parlamento che – unico al mondo – non possiede il potere che caratterizza per definizione i Parlamenti veri: quello legislativo. Nella UE, ma ben pochi ne parlano, le “leggi” vengono fatte dal “governo” (la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen), e il parlamento al massimo può disapprovarle.

Il prossimo parlamento, però, potrebbe segnare un certo cambiamento di maggioranza a favore delle destre vere e proprie, mettendo fine all’ammucchiata ultraliberale di “popolari”, “liberali” e “socialdemocratici” che ha comunque elaborato finora le scelte fondamentali della UE.

Un cambiamento che potrebbe segnare un di più di scontri tra interessi nazionali diversi, fin qui “sedati” dallo strapotere dell’asse franco-tedesco sul piano economico.

Ed è proprio la guerra in Ucraina a minare quello strapotere, gonfiando le pretese e i consensi per destre nazionaliste a parole e filo-Washington nei fatti. Il che, però, metterebbe a rischio la stessa unità operativa dell’Unione Europea in un frangente decisamente complicato (segnato dall’alta inflazione, il venir meno dei rapporti di fornitura energetica con la Russia, la riduzione dei mercati di sbocco per le merci europee, gli alti costi del riarmo, la crescita esponenziale del debito pubblico di tutta l’area, con cui è stata contenuta la crisi e sostenuta la “crescita” negli anni della pandemia e subito dopo della guerra).

Un bel rebus, a sua volta complicato dal fatto che si vota anche negli Stati Uniti, probabilmente per scegliere tra due ottantenni (Trump avrà allora 78 anni) selezionati per disperazione da una “società” spaccata e sull’orlo di una guerra civile. Confusamente consapevole che la “grandezza dell’America” non è più tale da costringere il resto del mondo all’obbedienza.

Ma non stiamo ovviamente parlando solo di “politica”. Sottotraccia si muovono le faglie tettoniche dell’ordine mondiale, ridisegnato da una assai diversa configurazione dei poteri economici. E quindi anche di quelli politici, diplomatici, militari.

L’invito alla lettura di questo editoriale, dunque, serve come antidoto al veleno mentale del “suprematismo bianco euro-atlantico” spacciato da un sistema mediatico mai così “chiuso” davanti al dubbio che le cose, in fondo, non stiano andando per nulla bene. Poi, certo, lo si può fare con qualche abilità e pretese di “progressismo” (alla Mentana e Zoro, insomma) o nel modo piatto e volgare dei Del Debbio, Porro, Minzolini (in attesa delle meraviglie alla Pino Insegno…).

Ma sempre di propaganda di fine epoca si tratta…

Buona lettura.

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18 lunghissimi mesi cruciali

Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa *

C’è già stata la prima svolta decisiva, in Turchia.

Nel ballottaggio di domenica scorsa, il 28 maggio, il Presidente Recep Tayyip Erdogan ha battuto lo sfidante Kemal Kiliçdaroglu, dopo aver conseguito la maggioranza assoluta della Grande Assemblea Nazionale nella tornata elettorale di due settimane fa.

La coalizione che sostiene Erdogan, l’Alleanza del Popolo, ha riportato il 49,5% dei voti e ben 323 deputati eletti su 600 seggi di cui si compone l’Assemblea. La coalizione dello sfidante Kiliçdaroglu, Alleanza Nazionale, ha ricevuto il 35,6% di voti, con 268 eletti.

Rispetto alle elezioni di cinque anni fa, c’è stata una limitata erosione di voti per l’Alleanza del Popolo che aveva avuto 344 deputati ed un consistente incremento dell’Alleanza Nazionale che ne aveva avuti solo 189, ma non tali da far venir meno la maggioranza assoluta a favore della Alleanza del Popolo.

Con la conferma alla Presidenza di Erdogan, la Turchia si mantiene su un’orbita ellittica rispetto all’Occidente: eterodossa in campo economico, visto che non aumenta i tassi di interesse nonostante una inflazione elevatissima, ha una strategia fortemente autonoma in politica estera mantenendo stretti rapporti con la Russia pur essendo membro della Nato.

Se avesse vinto invece lo sfidante Kiliçdaroglu, il beniamino delle Cancellerie occidentali, la Turchia sarebbe tornata ad essere un partner affidabile e soprattutto malleabile: si pensava già ad un rafforzamento della partnership con l’Unione europea, magari facendola aderire al Trattato di Schengen. Pur non rinunciando del tutto all’area di influenza che è costruita in questi anni, avrebbe cercato di “fare da ponte” tra Est ed Ovest.

Ma ormai il dado è tratto, e la Turchia continuerà nella sua strategia neo-Ottomana di Erdogan, dando un bel po’ di filo da torcere agli Stati Uniti ed alla Nato.

In prospettiva, 
a marzo dell’anno prossimo, ci sono le elezioni a Mosca. Se ne parla ancora assai poco: la rielezione di Vladimir Putin è lo snodo attorno a cui si gioca tutto. C’è di mezzo non solo la guerra in Ucraina, ma l’ambizione della Russia di tornare ad essere una grande potenza politica e non solo una fonte di risorse energetiche e di minerali a buon prezzo.

L’Occidente mira a ricondurre Mosca alla “mansuetudine”, mettendola con le spalle al muro con le sanzioni: una sfida pesante soprattutto per l’Europa, che ha beneficiato per decenni del gas russo, una risorsa abbondante ed economica. I primi a farne le spese sono stati i tedeschi, che con il raddoppio del North Stream avevano cercato di togliere alla Ucraina l’unico vantaggio strategico di cui poteva disporre, rappresentato dal gasdotto proveniente dalla Russia che la attraversava.

Nessuno sa esattamente che cosa succederà alle elezioni in Russia, perché c’è un gioco coperto di una nuova generazione di tecnocrati che stanno facendo esperienza politica in tutta la periferia dell’impero, lontani dal groviglio di potere che da sempre circonda il Cremlino. D’altra parte, sono le stesse sanzioni ad essere salutari per l’economia e l’industria russa: la riduzione della rendita mineraria impone scelte produttive interne, lo sviluppo della tecnologia.

Si supererebbe finalmente l’errore strategico che risale addirittura ai tempi di Krusciov, che decise di usare la leva del petrolio e del gas venduti in Occidente ai prezzi di mercato per ottenere le risorse che servivano all’URSS per tenere legati a sé i Paesi del Comecon: in questo modo si è distorto tutto l’asse dello sviluppo della Russia, che in precedenza era divenuta un campione di capacità tecnologica autonoma, come fu dimostrato dallo sviluppo dell’armamento nucleare e delle iniziative in campo spaziale.

Da Krusciov in poi, la Russia cominciò a vendere petrolio e gas anche ai Paesi del Comecon in cambio dei loro manufatti industriali di bassa qualità: una politica basata sulla rendita mineraria, che l’ha resa sempre più tributaria delle importazioni e sempre meno dinamica.

L’Europa sarà messa alla prova della resistenza in campo energetico: nel prossimo inverno non potrà più contare sugli stoccaggi di gas russo che sono stati riempiti durante la scorsa estate. Nonostante la riduzione dei prezzi del gas sul mercato internazionale, c’è una debolezza economica generale che viene sostenuta solo dalle spese pubbliche finanziate in disavanzo: se la transizione energetica rappresenta l’unico traino disponibile per avviare processi di investimento, i suoi costi si stanno rivelando sempre più elevati e la convenienza sempre più scarsa.

Per questo aumentano continuamente le norme europee che impongono cambiamenti dei consumi e degli stili di vita, strumentali a sostenere la domanda di prodotti innovativi come l’auto elettrica.

Una montagna di debiti pubblici sta servendo questo processo di innovazione tecnologica e di investimenti, senza che la domanda dei privati cresca a sufficienza per renderli sostenibili.

Bruxelles i giochi sono tutti da rifare: la risicatissima maggioranza che portò alla nomina della Presidente della Commissione Von der Leyen non c’è più, per via della dissoluzione della pattuglia italiana eletta dal Movimento 5 Stelle. Anche la componente francese che la sostenne fortemente, guidata dal Presidente Emmanuel Macron, è in crisi per il contemporaneo rafforzarsi della sinistra dei Nupes e della destra del RN.

movimenti no-Vax e no-War delineano la nuova frontiera del dissenso: sistematico, pervasivo e poco controllabile, che dubita fortemente della stessa fondatezza dell’emergenza climatica. Una minoranza attiva, motivata, che si muove al di fuori dei canali ufficiali, che clona la strategia psicologica ed organizzativa della guerra rivoluzionaria, in cui ogni soldato è un generale: insieme è combattente sul campo e stratega.

Si andrà a delineare una divaricazione profonda, su base geopolitica ed economia: da una parte il Nord Europa che fronteggia la Russia e dall’altra parte il Sud che si trova ingabbiato nell’euro forte. Non c’è in gioco solo l’impalcatura del NGUE, sostenuta dalle lobby che vogliono arricchirsi con tutti questi programmi di spesa europea e nazionale, ma la stessa tenuta di un quadro troppo frammentato: la guerra in Ucraina potrebbe non essere più un collante sufficiente per tenere unita l’Europa, trasformandosi piuttosto nell’innesco di una sua deflagrazione.

Per questo va evitata ad ogni costo la recessione economica in Europa: manderebbe all’aria un consenso che è basato solo sulla rassegnazione.

Non va meglio negli Usa: tutto è tenuto in piedi da un debito crescente, sia quello pubblico interno che quello commerciale verso l’estero, nella speranza che gli equilibri geopolitici consolidino la strategia di isolamento della Russia e della Cina. L’accordo sull’elevazione del tetto al debito federale, che è stata appena annunciata, sembra un accomodamento provvisorio che non scontenta nessuno, rinviando a dopo le elezioni del 2024 ogni revisione strategica sul bilancio.

Nessuno dimentica la strategia di Trump, che ritirò la firma dal Trattato di Parigi sul clima: il paradosso sta nel sostegno politico che in America ora viene dato contemporaneamente sia alle fonti energetiche fossili che a quelle rinnovabili. 

L’America è diventata infatti esportatrice netta di gas liquefatto e di prodotti petroliferi e contemporaneamente punta di diamante della strategia ambientalistica che punta a cambiare radicalmente i processi di sviluppo ed i modelli di consumo.

Quello dell’auto elettrica è un tema assai lontano dalla sensibilità popolare, e non è su questo che voterà a novembre del 2014 per il Presidente, per il rinnovo dell’intera Camera dei Rappresentanti e di un terzo del Senato: tutti pensano al “qui ed oggi” delle tasse, dell’inflazione, del posto di lavoro e dei sussidi federali.

Sullo sfondo rimangono tre questioni: la strategia geopolitica, nell’alternativa tra il mantenimento dell’Unilateralismo o la accettazione di un Mondo multipolare; la strategia economica, nella alternativa tra una Società assistenziale di massa finanziata col debito estero o la reindustrializzazione; la strategia ambientale, nella alternativa tra un modello di radicale cambiamento globale che serve a sostenere la Green Finance o una lotta che si limiti all’inquinamento ambientale.

Nel frattempo, tutto rimane legato ad un filo sottilissimo: qualsiasi crisi economica, finanziaria e sociale sarebbe irreparabile.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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5 Commenti


  • Salvatore Michele De Marco

    Bisognerebbe parlare al “passato”
    L’articolo si chiude tra alternative dalla cui scelta prossima dipende il destino dell’umanità. Meglio sarebbe stato declinare al passato l’enunciato, perché le vie da seguire sono state già tracciate, dal momento stesso che il capitalismo si è imposto in ogni anfratto del mondo sfruttando la debolezza degli uomini che in esso hanno visto la possibilità di soddisfare il loro egoismo senza badare agli “effetti collaterali”. Infatti, le tre questioni elencate dall’articolo, come sostengo anche nei miei scritti, sono oramai irreversibili e dunque la “fossa” è già scavata: il multilateralismo è solo la bella “parola” dietro la quale si nasconde lo “sgomitare” di un numero di nazioni sempre più ricche (ai vecchi ricchi si aggiungono i BRICS) che cercano ossessivamente spazio commerciale per non perdere il benessere raggiunto; l’enorme montagna dei debiti complessivi nel mondo renderà sempre più urgente, e non solo per shock esogeni, il ricorso alla “società assistenziale di massa” finanziata dal debito pubblico interno e internazionalizzato (debito estero), spogliando di significato i valori fondanti della pacifica convivenza, quali il produrre, il lavorare, il merito, l’impegno e il sacrificio per raggiungere obiettivi civili; infine, l’inquinamento, che nella smania di competere, non permette ai blocchi continentali competitivi di prevenire, perché facendolo equivarrebbe ad un “disarmo unilaterale” e scomparsa dal panorama economico. La conclusione è che non bisogna meravigliarsi dell’esito infausto le cui condizioni già sono operative, perché, come tutte le cose che conoscono il mondo, anche il capitalismo se è nato è destinato a morire.
    Salvatore Michele De Marco


    • Redazione Contropiano

      Il consiglio, in casi come questo, è sempre lo stesso: distinguere ciò che la redazione dice e scrive e ciò che, pur tornando decisamente utile sul piano analitico, è elaborazione di qualità svolta da altri, con prospettive diverse.


  • Felpo

    In inizio: QUOTIDIANITÀ, non quotidianEita’.


    • Redazione Contropiano

      Grazie per la segnalazione…


  • Salvatore Michele De Marco

    Alla Redazione
    Il mio commento critica l’incertezza sul futuro che l’editoriale inietta e non il Vostro articolo introduttivo all’editoriale che recepisce la certezza dell’ammaloramento del capitalismo sulla quale convengo. Ringrazio per il Vostro intervento che ha fornito al sottoscritto l’occasione di precisare il precedente scritto.

    Salvatore Michele De Marco

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