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I “boat people” degli articolisti sansonettiani

Per pericolosa quanto insana curiosità, nei giorni scorsi ho comprato il foglio (le dita sulla tastiera non ce la fanno ad associare il nome di quello che fu il giornale del PCd’I, a quello del personaggio che oggi dirige quelle pagine) diretto da Piero Sansonetti.

Un numero interamente dedicato all’ennesima carneficina di migranti in fuga dagli inferni di miseria, schiavismo, razzia in cui l’imperialismo ha ridotto i loro paesi.

Un titolo, in particolare, mi ha incuriosito: “Boat people, quando l’Italia salvava i profughi in fuga dal Vietnam”. Un titolo che, di per sé, pare esprimere nient’altro che “buona volontà”, esortazione a “fare del bene”, un appello a seguire “esempi virtuosi”; quasi a dire: vedete, a differenza di oggi, quando l’Italia era quella di Sandro Pertini e Giulio Andreotti (citati nel servizio; Il primo, quasi sicuramente pellegrino nel purgatorio dantesco; il secondo in grossa compagnia nelle malebolge), si sapeva come agire e cosa fare per salvare vite umane.

Una considerazione, di per sé, sufficientemente “neutra”, anche se abbastanza superficiale, se non si ricorda, almeno per minimi punti, quale fosse la politica estera italiana (pur ligia, anche allora, ai dettami USA e NATO) negli anni ’70-’80, in particolare in direzione del Vicino Oriente; quali fossero le dimensioni delle migrazioni dell’epoca; se si sorvola sui “vincoli europei” che dettano oggi le regole, in politica estera e interna, se non si accenna una minima riflessione sui doveri che regolano le attività marittime.

Ma, in primo luogo, se si tace sul dovere della lotta a quel boia che affama i paesi del Sud del mondo (quei paesi che Antonio Pesenti invitava a non definire eufemisticamente “in via di sviluppo”, dal momento che, perdurante lo sfruttamento imperialista, difficilmente potrebbero godere di un autentico sviluppo) e che risponde al nome di imperialismo.

Senza una minima riflessione su quali siano i reali compiti affidati alle unità di navigazione – vuoi della Marina, vuoi della Guardia di Finanza, vuoi della (cosiddetta all’americana) Guardia costiera – nel quadro delle regole tanto “europee” che della NATO, si esprime in definitiva soltanto una sequela di “buoni propositi”.

Se si riduce tutto a una questione di “umanità” – presente, si dice, in alcune epoche e in altre no – e si ignora o si tace, nelle tragedie dei migranti, il ruolo dell’imperialismo, allora, nel migliore dei casi, si finisce nel solco di quella tradizione spirituale che Lenin definiva “tolstojana” e che non fa danni a nessuno.

Ma non è questo il punto del servizio che più attira l’attenzione del lettore. In particolare, di un lettore che, all’epoca della missione di navi “Vittorio Veneto”, “Andrea Doria” e “Stromboli”, nel luglio-agosto 1979, ha avuto il “privilegio” di ascoltare le considerazioni – per carità, singolarissime, personalissime e parzialissime – di qualche sottufficiale della Marina Militare appena rientrato dal viaggio nell’Oceano indiano e che suonavano, più o meno così: «ci hanno mandato là per fare réclame ai nostri incrociatori. Ma, quelli là hanno fatto trent’anni di guerra per avere il comunismo: che se lo tengano!».

Ecco, nel cinismo e nell’anticomunismo di quelle parole che, nella voluta ignoranza, vedevano dei “pericolosi comunisti”, già pienamente “indottrinati”, anche in coloro che, come al tempo (mutatis mutandis) dell’emigrazione bianca dalla Russia, lasciavano un paese incamminatosi sulla strada socialista, c’era molta più concretezza che non nelle considerazioni del redattore sansonettiano.

Accostare – per quanto, probabilmente, con le migliori intenzioni “cristiane” – le circostanze e i protagonisti dell’epoca dei “boat people”, alla tragedia dei milioni di migranti che, quarant’anni dopo, affrontano il mare per fuggire dalle guerre, dalla miseria, dalle nefandezze della schiavitù salariale che, quasi sempre, è non tanto salariale, quanto schiavitù pura e semplice, cui i capitali stranieri e i loro manutengoli locali costringono i popoli del sud del mondo.

Azzardare un simile accostamento appare certo superficiale, ma soprattutto antistorico, antipolitico e liberal-borghese.

Questo, a voler sorvolare su certa terminologia che occhieggia qua e là nel servizio di tal foglio.

Ora, già per vetero-insofferenza personale al solo associare i termini “regime” e “comunista”, uno drizza i labirinti auricolari e, dunque, si mette sul chi va là leggendo che non il Nord Vietnam aveva raggiunto la riunificazione del paese, dopo che per due decenni l’imperialismo yankee lo aveva diviso, bensì che «dopo la sconfitta militare del Vietnam del Sud da parte del regime comunista del Vietnam del Nord, decine di migliaia di persone che temevano di essere considerate compromesse con il regime filoamericano e corrotto di Saigon o anche solo desiderose di libertà e democrazia», tentarono la fuga via mare, ecc.

Si scopre che addirittura un «popolo intero si identificava con le proprie fragili barche, piene di donne e di bambini». Insomma, dal Vietnam infine liberato, dopo un secolo di colonialismo francese e due decenni di intervento sanguinario americano, che aveva scaricato sul Nord del paese qualcosa come 14 milioni di tonnellate di bombe, defolianti, napalm, dal Vietnam finalmente unito, dopo la vittoria del 30 aprile 1975 e per i quattro anni seguenti, “fuggono tutti”.

Fugge «un popolo intero», secondo la “nuova” Unità. Sia i Vietcong – che a quella vittoria avevano sacrificato la parte migliore delle proprie forze umane – e sia anche gli affaristi, i magnaccia, i bottegai del Sud Vietnam, rimasti per decenni al soldo e al servizio delle truppe americane.

“Fuggono tutti”: nord e sudvietnamiti «desiderosi di libertà e democrazia», insieme agli ufficiali dell’esercito di Saigon, insozzatisi del sangue dei propri compatrioti agli ordini degli ufficiali americani e degli agenti della CIA, distintisi nelle centinaia di operazioni di “pulizia del territorio”, nelle distruzioni di interi villaggi insieme ai loro abitanti, come MyLai, cui nel 1968 le truppe yankee riservarono lo stesso destino che SS e banderisti ucraini avevano riservato nel 1943 al villaggio bielorusso di Khatyn’.

In Sud Vietnam, gli USA avevano messo in piedi un esercito di oltre un milione di uomini, duecentomila poliziotti, centinaia di migliaia di funzionari, una forza militare circondata da una borghesia totalmente dipendente dai capitali americani, europei, giapponesi.

Il tutto con una urbanizzazione forzata che doveva servire in particolare a togliere terreno ai Vietcong nelle campagne, e l’opera di centinaia di “consiglieri culturali” che impartivano quelle “lezioni” di CIA e USIA volte a dare l’impronta neo-coloniale allo stile di vita del Sud e che si sarebbero rivelate essenziali al momento dell’esodo.

Esodo che, d’altra parte, i vietnamiti avevano sempre detto di non voler ostacolare, a parte alcune decine di migliaia di criminali che avevano preso parte ai peggiori crimini dei regimi di Diem, Van Thieu, Cao Ky.

Il Vietnam moderno ha conosciuto tre grandi esodi: nel 1954, 1975 e 1978-’79.

Dopo la storica vittoria vietnamita di Dien Bien Phu e gli accordi di Ginevra, le forze francesi si spostarono a sud del 17° parallelo, seguite da poco meno di un milione di persone: soldati, poliziotti, funzionari, commercianti.

Nel 1973, dopo gli accordi di Parigi e il ritiro delle truppe americane, gli USA misero a punto un piano di evacuazione di diverse centinaia di migliaia di persone. Circa 150.000 persone furono evacuate per via aerea e di mare nelle ultimissime settimane prima della caduta di Saigon: alti ufficiali sudvietnamiti, membri dei vari governi filo-USA, ministri, deputati, alti funzionari, tutti considerati dagli americani “ad alto rischio”, insieme a commercianti e industriali, personale di “bassa forza” che era stato alle dipendenze degli americani, come anche agenti sudvietnamiti.

C’erano anche, come scrivevano all’epoca i resoconti vietnamiti, «persone che non avevano alcuna ragione di fuggire, ma che erano in preda al panico, perché i servizi di guerra psicologica USA diffondevano voci terrificanti: i comunisti vincitori avrebbero massacrato tutti, ci sarebbe stato un bagno di sangue, le donne che si tingevano le unghie avrebbero avuto le dita tagliate, tutti sarebbero stati mandati ai lavori forzati», ecc.

Il terzo massiccio esodo si ebbe dopo il 1978, quando cominciò a esser sollevata la questione degli Hoa (persone di origine cinese residenti in quasi tutti i paesi del Sudest asiatico) e, in particolare, dal marzo 1979, con quella che la Pechino dell’epoca definì “dare una lezione al Vietnam”.

In quel periodo, sembra che la maggioranza di mercanti e trafficanti Hoa, pur incitata da Deng, non avesse intenzione di emigrare in Cina, ma preferisse passare dal Vietnam in Thailandia, Filippine, Malaysia, Indonesia, nelle cui economie erano da tempo ben inseriti alcune decine di milioni di loro compatrioti.

In definitiva, e per concludere, al di là degli esercizi di intrattenimento giornalistico, paragonare il pur pesante problema dei “boat people” – in larga parte espressione del destino di chi è stato al servizio dell’occupazione coloniale e imperialista del proprio paese.

Quante decine di migliaia di collaborazionisti ucraini, russi, baltici, fuggirono al seguito delle truppe naziste in ritirata da est – all’immane tragedia di milioni di profughi costretti loro malgrado a prendere il mare, proprio a causa dei saccheggi, stragi, guerre dell’imperialismo, è non solo ingenuo, ma rasenta l’insulsaggine dei gaglioffi liberali.

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