Il periodo di “cento giorni” ed il rimpasto governativo non hanno portato alcun contributo per l’allargamento della maggioranza relativa all’Assemblea nazionale francese.
Dopo il movimento di lotta contro la riforma delle pensioni, la “dissoluzione” – fortemente voluta dal Ministro dell’Interno – del collettivo ecologista Les Soulèvements de la Terre, e le rivolte urbane successive all’assassinio di M.Nahel a fine giugno, il solco tra il Presidente dei ricchi (ed il governo che esprime) e la popolazione è aumentato.
La scelta di mantenere l’odiata prima ministra Elisabeth Borne, e di scegliere 6 tra gli 8 nuovi entranti dell’esecutivo (5 di Renaissance e uno di MoDem) dei suoi “fedelissimi” per il rimpasto governativo, segna una una sorta di “commissariamento” politico del governo, che ha escluso quelle figure della società civile di cui si vantava come ‘segno di apertura’, in una operazione di marketing politico oramai esaurita.
Si tratta di marconisti “della prima ora” come Thomas Cazenave, Prisca Thevenot e Sabrina Agresti-Roubache, oppure di destinati ad una sicura ascesa all’interno del governo dopo essere stati a lungo dei tuttofare, come Gabriel Attal, 34 eletto nella Hauts-de-Senne, dalla brillante carriera politica finora.
Nessun segno di apertura è stato mostrato nemmeno nei confronti delle opposizioni sia di destra (in apparenza) che di sinistra.
É un segnale chiaro infatti che nei posti chiave rimangano ministri provenienti dalla destra: Bruno Le Maire all’economia, Gérald Darmanin all’Interno, e Sébastie Lecornu alla Difesa.
Non è peregrino pensare che l’allontanamento del Ministro dell’educazione, Pap Ndiaye, sia dovuto alle sue esternazioni estremamente critiche nei confronti dell’estrema-destra, mentre per ciò che riguarda quello di Marlène Schiappa si è trattato di una mera operazione d’immagine nei confronti di una figura imbarazzante per l’esecutivo, visto l’ultimo scandalo che l’ha travolta.
Marine Le Pen, dopo avere spinto per una repressione più marcata durante il periodo delle rivolte urbane, insieme ai gollisti di LR ed ai fascisti di Zemmour, ha affermato: «il fatto di mantenere Elisabeth Borne al suo posto è un segnale che giustamente non cambierà nulla».
Più ficcante il politologo Bruno Cautrès intervistato da Libération: «Questo nuovo governo è un esecutivo di continuità e di riaffermazione della spina dorsale del macronismo».
Come ha affermato il leader de La France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, a proposito del rimpasto: «ancora una volta abbiamo visto la nullità della visione liberale dello Stato. Macron crede che lo Stato sia un dispensatore di servizi e vede il suo personale come degli esecutori senza cervello» di ordini altrui.
Continua ad ostentare il paradigma culturale di un privato efficiente e di un pubblico ristagnante, riottoso ad ogni novità.
L’unica cura per una simile stagnazione sarebbe quella di «dinamizzare, facendoli dirigere da persone provenienti dalle gerarchie del privato». Con una certosina attività di distruzione di quella parte dello Stato non asservito all’impresa.
Premiata la fedeltà dei suoi, l’esecutivo dovrà gestire – dopo la pausa estiva – il corso politico con una delegittimazione diffusa in varie porzioni della società, ed un arroccamento dentro i perimetri della macronie nella gestione parlamentare, con il nuovo governo Borne che continuerà ad essere “di minoranza”, cioè a non avere la maggioranza nell’Assemblea.
Tutto il contrario di quanto annunciato in un’intervista su TF1 e France 2 il 22 marzo, quando Macron aveva annunciato “cento giorni di distensione” per girare pagina, dopo la contestazione sociale della riforma delle pensioni: «continuare ad allargare questa maggioranza governativa fino a che si potrà», convinto che «alcuni politici con le loro convinzioni (…) sono pronti a lavorare con le forze della maggioranza».
Macron, dando ancora fiducia alla Borne, aveva allora affermato: «spero che ci riesca».
Fallito miseramente questo tentativo, il governo sarà costretto ad andare avanti “testo per testo” configurando di volta in volta la possibile cornice di consenso parlamentare per fare passare i propri provvedimenti legislativi senza ricorrere al famigerato articolo della Costituzione gollista 49.3, che permette – si – di bypassare il voto all’Assemblea nazionale, ma obbliga l’esecutivo a sottoporsi a quel voto di sfiducia che ha rischiato di “fare andare sotto il governo” durante la caustica fase del voto sulle pensioni.
Sotto la pressione di un’opposizione trasversale, la “mozione di sfiducia” aveva spaccato in un primo momento i gollisti, che in parte (1/3) l’avevano votata.
Il bilancio legislativo è fin qui di 49 testi approvati, 3 dei quali senza il voto parlamentare: i due testi sul bilancio, “blindati” dal governo, e quello sulla riforma pensionistica.
Da allora il governo ha potuto approvare diversi progetti legislativi perché presentavano un profilo piuttosto consensuale, oppure per il ricorso cavilloso a dispositivi piuttosto tecnici che ne inibiscono l’opposizione parlamentare. Come per la legge di programmazione militare e quella della giustizia, quella sui Giochi Olimpici e para-olimpici del 2024 e su “partage de la valeur”, e infine il testo sull’”industria verde”, approvato nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 luglio.
Finora l’esecutivo ha evitato di mettere al centro della propria attività legislativa i dossier più polarizzanti, suscettibili di risvegliare delle divisioni – anche ideologiche – difficilmente conciliabili. Ma prima o poi dovranno essere affrontati da un esecutivo che continuerà a “navigare a vista”, dopo la pausa estiva, con un conflitto sociale latente.
Uno degli scogli più duri è la legge di programmazione finanziaria che decide la traiettoria delle spese pubbliche fino al 2027.
Come ha scritto nel proprio editoriale, il giorno successivo al rimpasto, il quotidiano francese Le Monde: «Per la prima volta, il capo dello Stato sembra riconoscere che non ha la chiave per orientarsi nel labirinto nel quale è chiuso da un anno, dalla perdita della maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale».
Questo in un contesto in cui stanno emergendo con forza le storture del modello di sviluppo cui si è votato l’Esagono, ben prima del doppio mandato presidenziale di Macron: l’avanzato stato di distruzione della Sanità Pubblica con la crisi sanitaria permanente, la crisi climatica le cui conseguenze sono ormai tragicamente visibili anche in tutto l’Occidente, la situazione in cui versano i quartieri popolari ed i Territori d’Oltremare (DOM-TOM), la natura strutturalmente razzista della polizia francese, l’inflazione che continua a mordere, a cominciare dai prezzi energetici che saranno destinati di nuovo ad impennarsi da questo agosto e… potremmo continuare.
Ancora una volta il Re è nudo e sempre più solo.
Macron è espressione di quell’oligarchia europea che pensa di risolvere i problemi con un presuntuoso approccio manageriale neoliberista e continue operazioni di comunicazione che, nella loro seriale inefficacia, stratificano una serie di tentativi fallimentari nel ripristinare non solo il consenso nei confronti della sua figura, ma dell’ideologia neoliberale in genere, implosa ormai dai tempi dei gilets-juanes.
Lui, come altri liberal-conservatori nell’Unione Europea, ha scelto di demolire il fronte repubblicano contro l’estrema destra cannibalizzandone le politiche, o appoggiandosi a chi – come i gollisti – le ha fatte proprie.
É un’Europa in cui l’exit strategy delle oligarchie liberiste consiste nell’abbracciare in pieno le politiche belliciste, strutturando un blocco euro-atlantico che è fisiologicamente a destra. Anzi: all’estrema destra.
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