Donald Trump, 45° presidente degli Stati Uniti e ultra-favorito alle primarie del Partito Repubblicano, è stato accusato martedì 1 agosto di «complotto contro lo Stato Americano» dal tribunale federale a Washington.
A Washington, Trump si è presentato di persona, declinando la possibilità che gli venisse formalizzato il tutto per via telematica.
Ha dichiarato la propria innocenza, e fuori dagli uffici – durante una breve locuzione – ha parlato senza mezzi termini di «persecuzione».
Poco prima della diffusione della notizia, sulla sua seguitissima piattaforma social Truth Social – creata dopo che Twitter l’aveva bandito – aveva anticipato che sarebbe stata lanciata «una nuova accusa-bidone al vostro presidente preferito».
Già il 18 luglio aveva infatti ricevuto un “avviso di garanzia” da parte del procuratore Jack Smith.
Trump ha fatto di quest’ennesimo atto d’accusa un’occasione di campagna per le primarie, ad appena tre settimane dal primo vero dibattito tra gli sfidanti alla candidatura ufficiale dei repubblicani.
Dopo l’annuncio della nuova serie di accuse, un portavoce della campagna di Donald Trump ha pubblicato una nota in cui si paragona questa presunta persecuzione alle pagine più buie dei “totalitarismi” del XX Secolo, della «Germania nazista degli anni Trenta» all’«ex-Unione Sovietica e gli altri regime autoritari e dittatoriali».
Che lo staff di uno dei candidati presidenziali paragoni gli Stati Uniti attuali alla Germania nazista o all’Unione Sovietica, senza che tra le file dei repubblicani nessuno abbia qualcosa da ridire, ci dà la cifra non solo del processo di delegittimazione reciproca in un clima di fortissima polarizzazione politica, ma della crisi di legittimazione tout court delle istituzioni statunitensi da parte di metà del paese.
É bene ricordare che The Orange Man non ha mai espresso il ben che minimo rimpianto per ciò che è successo il 6 gennaio 2021, né tanto meno ha chiesto scusa a chicchessia, né ha mai ammesso la legittimità del potere di Joe Biden.
Bisogna ricordare inoltre che più di un migliaio di persone sono state incolpate per il loro ruolo nell’assalto del 6 gennaio, tra i quali membri dei gruppi di estrema destra che gravitano nella galassia trumpiana, condannati per ‘complotto sedizioso’.
Gli scontri si erano verificati dopo che Trump aveva incitato i propri sostenitori a «battersi come dannati» per «impedire il furto».
Per il Dipartimento della Giustizia si tratta di inchiodare Trump alle responsabilità avute nel tentativo di sovvertire i risultati usciti dalle urne alle presidenziali statunitensi del novembre del 2020 e negli avvenimenti del 6 gennaio del 2021, culminati nell’assalto a Capitol Hill.
Questo a meno da un anno e mezzo delle prossime elezioni presidenziali e a qualche mese dall’inizio delle primarie, sia repubblicane che democratiche.
Un atto tutt’altro che scontato, dal significato epocale e dalle conseguenze difficilmente ponderabili, visto il clima di guerra civile strisciante tra lo zoccolo duro dei sostenitori di Trump; tra i quali i vari episodi giudiziari non hanno assolutamente scalfito – anzi – il consenso per The Donald, assolutamente maggioritario dentro il partito.
L’équipe di Trump, per dirne una, ha già utilizzato 40 milioni di dollari, raccolti grazie alle varie donazioni, per sostenerne le spese giudiziaria prima ancora che sia iniziato un qualsiasi processo.
Si tratta principalmente di 4 capi d’accusa, più pesanti di quelli delle precedenti vicende giudiziarie, per la figura che gode del maggiore consenso nel Grand Old Party.
Per la precisione, il procuratore speciale Jack Smith ha annunciato che il Grand Jury (un panel di 23 cittadini, 12 dei quali sarebbero sufficienti per decidere lo stato d’accusa), riuniti da diversi mesi a Washington, ha approvato 4 dei capi d’accusa contro l’anziano presidente.
Per l’accusa si tratta di “complotto fraudolento contro gli Stati Uniti” (circolazione di false informazioni sulla frode e le macchine per il conteggio dei voti, pressione sulla giustizia e sul vice-presidente, Mike Pence, per incitare a rigettare i voti negli Stati in cui ha vinto Joe Biden, designazione di «falsi grandi elettori» negli Stati); “complotto per privare gli elettori del loro diritto di voto”; “complotto per fare ostruzione a una procedura ufficiale”; e, in ultimo, “tentativo di ostruzione a questa procedura” (la certificazione della vittoria di Joe Biden da parte del Congresso).
In una dichiarazione alla stampa di appena di 3 minuti Jack Smith ha dichiarato che il 6 gennaio del 2021 c’è stato «un assalto senza precedenti contro la sede della democrazia americana (…) l’assalto è stato alimentato dalle menzogne, le menzogne dell’accusato cercando di fare ostruzione a una funzione fondamentale del governo americano: il processo di raccolta, conteggio e certificazione dei risultati dell’elezione presidenziale».
Smith ha incoraggiato i suoi concittadini a leggere integralmente le 45 pagine dell’atto d’accusa – consultabili tra l’altro sul sito del giornale Politico – che integrano e sintetizzano i risultati della Commissione parlamentare sull’assalto a Capitol Hill, comprendenti le testimonianze di coloro che si erano ai tempi potuti avvalere della facoltà di non presentarsi davanti alla commissione: Mark Meadows, e soprattutto, l’allora vicepresidente Mike Pence.
Proprio Pence si è visto rimproverare da Trump il fatto di essere «troppo onesto», quando aveva cercato di fargli credere che alcune delle «infrazioni elettorali» rilevanti erano state registrate dal Ministero della Giustizia.
In maniera ostinata Trump ha sfruttato ciò che era successo nel pomeriggio del 6 gennaio per cercare di di far rinviare ai parlamentari la certificazione del voto, rifiutando la sera stessa di ritirare le sue obiezioni (come gli raccomandava anche il suo consigliere giuridico), mentre il suo avvocato Rudy Giuliani – di fatto complice di Trump – cercava in ogni modo di far deragliare il passaggio dei poteri.
Più che il rapporto della Commissione – dissolta all’inizio del 2023 dalla nuova maggioranza repubblicana scaturita dalle elezioni midterm, ma il cui il rapporto finale era stato reso pubblico nel dicembre 2022 -, l’atto di accusa si sforza di mostrare che Trump sapeva perfettamente di aver perso le elezioni e che le sue rimostranze non avevano alcun fondamento legale.
La Commissione, è bene ricordarlo, aveva raccomandato che dalla giustizia federale fossero promosse contro di lui inchieste penali per reati anche più gravi di quelli poi sono stati formulati.
Sempre la Commissione aveva espresso un giudizio molto politico, stimando che Donald Trump non avrebbe più dovuto svolgere alcuna funzione pubblica.
Nel 46 pagine sono stati menzionati almeno sei cospiratori, senza che ne venisse però fatto il nome, ma ben presto identificati dalla stampa.
Si tratta di avvocati e consiglieri che hanno elaborato il traballante scenario dei «falsi grandi elettori»: Rudy Giuliani, John Eastman, Sidney Powell, Kenneth Chesebro e Jeffrey Clark (un consulente politico).
Il procuratore vuole giungere ad un «rapido processo», di fatto prima delle elezioni presidenziali del 2024, e forse prima che la Convention repubblicana della prossima estate ufficializzi – con ogni probabilità – Trump come candidato presidenziale per il GOP.
Processi e campagna politica presidenziale si intrecceranno quindi costantemente da qui in avanti.
Già in giugno, Trump, era comparso di persona davanti al tribunale federale della Florida, che gli aveva contestato ben 37 capi d’imputazione per avere conservato – e rifiutato di restituire – delle informazioni classificate come “confidenziali” nella sua proprietà di Mar-a-Lago.
Il processo era stato fissato il 20 maggio prossimo, ma altri carichi sono stati aggiunti dal pubblico ministero il 27 luglio, cosa che potrebbe ritardare la procedura.
Nel marzo del 2024 comparirà comunque a Manhattan per la presunta falsificazione di documenti contabili, legati al pagamento di una somma di 130 mila dollari (circa 120 mila euro) all’attrice porno Stormy Daniels; ma il calendario di questo processo potrebbe cambiare, come ha lasciato intendere il procuratore Alvin Bragg.
In conclusione.
Il passaggio pacifico dei poteri era uno dei pilastri della democrazia nord-americana che ne certificava la stabilità e stabiliva una garanzia in grado di legittimarne la sua egemonia come sistema politico tra i più avanzati in Occidente, con una fisiologica alternanza di poteri tra la compagine democratica e quella repubblicana (per decenni molto più simili di quanto venisse raccontato ai margini dell’Impero), senza che ne venissero messi in discussione i fondamenti, almeno dalla fine della guerra di Secessione (1861-1865) in poi.
Ma ora la corsa alla Casa Bianca inizia senza che sia stato sanato quel deficit di legittimità promosso dal trumpismo e dal suo armamentario cospirazionista.
É un aspetto della crisi sistemica che – come ha mostrato il downgrade di Fitch sui titoli di stato Usa – mostra ogni giorno la sua crescente profondità.
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