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L’Armenia si arrende subito, ma le tensioni restano

Ieri alle 13 ora locale è entrato in vigore il coprifuoco, mediato dal contingente russo, tra le autorità dell’Artsakh e le truppe azere.

Le richieste formulate dal governo dell’Azerbaijan come condizione per la fine della “operazione antiterrorismo” sono state sostanzialmente accolte in toto: le formazioni militari dell’Artsakh saranno disarmate e sciolte e domani le autorità si incontreranno a Yevlakh, in territorio azero, per concordare il pieno reintegro del Nagorno Karabakh sotto la sovranità azera e le garanzie di sicurezza per la popolazione armena.

Popolazione che non si fida molto (e probabilmente fa bene) e che si sta rifugiando nelle basi russe (nella foto civili armeni entrano in quella di di Ivanyan) o nell’aeroporto di Stepanakert, dove c’è un contingente russo. Al momento le autorità russe comunicano la presenza nelle loro basi di 2621 civili armeni.

Pashinyan, intanto, continua la sua politica che definire ambigua è poco, scaricando la responsabilità dell’intera situazione sulla Russia.

Ieri aveva comunicato che l’Armenia non era implicata in alcun modo nella questione dell’Artsakh e, dopo l’inizio delle proteste contro di lui, parte dei suoi sostenitori avevano inscenato una contro-protesta, ovviamente sotto l’ambasciata russa.

Oggi [ieri, ndr], dopo avere dichiarato in un’altra diretta Facebook (alla De Luca, diciamo) che la Russia non è amica dell’Armenia e che l’Armenia non ha preso parte ai negoziati tra Arsakh e Azerbaijan (mi sfugge il nesso tra le due cose), ha aggiunto che ora tocca ai peacekeepers russi assumersi la responsabilità di proteggere la popolazione dell’Artsakh e garantire che possano vivere tranquilli sotto il governo azero senza discriminazioni.

Stranamente non ha però chiamato in causa né gli USA, i cui soldati hanno lasciato il paese dopo le esercitazioni congiunte, né gli altri paesi occidentali con i quali si è consultato ieri, primo fra tutti la Francia.

La traiettoria futura della sua carriera politica resta abbastanza incerta e non saranno le manifestazioni sotto l’ambasciata russa a Erevan che lo metteranno al riparo da un’opposizione che, al di là dei cortei in piazza, presto gli chiederà conto in Parlamento di quanto successo e del fatto che i “nuovi amici” non hanno mosso un dito, come era ovvio, dopo che dal 2018 a questa parte non ha fatto altro che mettersi contro i “vecchi” i quali, molto diplomaticamente (Zacharova) e col solito stile (Medvedev) gli hanno ricordato ieri che, come dice il nostro proverbio, “ognuno dorme nel letto che si è fatto“.

Repubblica, come era ovvio aspettarsi, si è unita in pompa magna al treno anti-russo, come se di questa tragedia immane l’unica cosa che conti sia questa, con ben due articoli.

Il primo, “Nagorno Karabakh, l’analista Frappi: “Mosca che sta a guardare è la minaccia più grande per gli alleati di Erevan”, è, al di là del titolo, molto bilanciato e non assegna nessuna responsabilità.

Il secondo un’intervista a Marut Vanyan, giornalista abbastanza schierato, ed è di tenore ben diverso a partire dal titolo: “Le voci dal Nagorno Karabakh, nei rifugi a Stepanakert con le bibbie e i video: “I russi ci hanno traditoe dalla conclusione: “… gli abitanti di Stepanakert non sanno cosa aspettarsi dal futuro e si sentono abbandonati dal mondo e soprattutto dalla Russia.”

Quando la gente parla dei peacekeepers russi li ricopre di insulti“, continua Vanyan. “In molti si aspettavano che avrebbero garantito la pace ed ora che veniamo bombardati non fanno nulla. È difficile pensare che non fossero al corrente di questo attacco. Sono qui ma è come se non ci fossero“.

Colpa della Russia, quindi, in un articolo nel quale Vanyan riesce a non nominare mai Pashinyan e il fatto che l’Armenia in primis non ha mai riconosciuto l’indipendenza dell’Artsakh.

Ieri poi sono successe parecchie altre cose, le riassumo molto brevemente.

I discorsi di Biden e Zelenkly all’Assemblea delle Nazioni Unite non hanno portato nessuna novità e nessun colpo d’ala, e in pratica hanno ripetuto gli stessi punti di sempre. Con una eccezione significativa: l’accenno di Zelensky al fatto che in Europa “alcuni” mostrano solidarietà, ma poi “seminano discordia” facendo il gioco di Mosca.

L’accenno è ovviamente rivolto alla Polonia, con la quale i rapporti stanno precipitando per l’annosa questione dell’export agricolo ucraino, che la Polonia, insieme a Ungheria e Slovacchia, ha deciso comunque di vietare sul suo territorio nonostante il parere negativo dell’Unione Europea (la Bulgaria prima ha deciso di autorizzarlo e poi, dopo le prime proteste degli agricoltori locali, condite da un churchilliano “non trattiamo coi terroristi” pronunciato senza ombra di imbarazzo dal primo ministro Nikolay Denkov, ha detto che ci ripenserà e vedremo…).

La decisione ucraina di presentare reclamo contro questa decisione alla World Trade Organization invece che all’Unione Europea ha ovviamente provocato un ulteriore irrigidimento da parte della Polonia, che ha prima dichiarato che anche altri prodotti ucraini potrebbero diventare oggetto di embargo e ha poi cancellato l’incontro che doveva tenersi ieri a New York tra Zelensky e Duda.

Anche l’incontro tra Zelensky e Lula è stato cancellato dal Brasile. la scusa ufficiale è che Lula è stanco e ha problemi all’anca, ma certamente al suo malessere deve avere molto contribuito l’atteggiamento manifestamente ostile della delegazione ucraina durante il suo discorso.

L’articolo del New York Times nel quale si annuncia ciò che era evidente da subito, ovvero che la strage al mercato di Kostantinivka il 6 settembre non è stata causata da un missile russo ma da uno ucraino, ha ovviamente provocato una reazione molto forte da parte delle autorità ucraine che senza mezzi termini accusano il giornale di diffondere fake news e di “promuovere la narrazione russa“.

Per quanto riguarda il fronte, poche novità di rilievo, tranne che un drone “Lantset” russo ha colpito un Mig-29 ucraino sulla pista dell’aeroporto di Dolgintsevo, vicino Kryvyj Rih. Il che non sarebbe una notizia molto degna di nota se non fosse che l’aeroporto dista dalla prima linea 66 chilometri e, a giudicare dalle riprese, l’attacco è avvenuto da nord, quindi da distanza ancora maggiore.

Il che o significa che da quelle parti agisce un gruppo di sabotaggio russo, o che la gittata del “Lantset” è stata aumentata, o che l’antiaerea ucraina da quelle parti ha fatto un pessimo lavoro (cosa che potrebbe essere confermata dal fatto che sopra l’aeroporto in questione volteggiava indisturbato un drone russo da osservazione che ha ripreso tutto).

Infine, l’F-35 “perduto” in South Carolina. Scusate ma sto ancora ridendo, magari ne parliamo un’altra volta (nella seconda foto, il tracciato dei voli di ricerca).

* da Facebook

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1 Commento


  • bruno mariani

    finalmente della vera informazione in un contesto medievale che ricorda la caccia alle streghe

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