Il conflitto arabo-israeliano, con al centro la lotta di liberazione del popolo palestinese, ha assunto ormai da tempo un carattere sempre più “regionale” ma un profilo sempre più internazionale con azioni dirette degli alleati del sionismo nella regione.
Nella notte di lunedì, Antony Blinken, è arrivato in Israele, una delle tappe del suo tour diplomatico – preceduta dalla visita in Giordania, cui seguiranno Cisgiordania ed Egitto -, in uno dei momenti più tragici con più di 250 palestinesi che hanno perso la vita nelle 24 ore precedenti.
Un momento particolare visto l’intensificarsi dei bombardamenti israeliani in Libano, nei quali sabato scorso è morto Wisam Tawik, comandate della forza d’élite Radwan, responsabile del lancio dei razzi nel nord d’Israele, e l’inasprirsi del confronto in Mar Rosso.
Per il diplomatico statunitense la guerra sta volgendo a prendere la forma di una «metastasi» in Libano, Cisgiordania e Mar Rosso. Ma potrebbero essere tranquillamente aggiunti Iran, Iraq e Siria…
Sulla missione di Blinken, entreremo più a fondo dopo.
Prendiamo ora in esame il Mar Rosso appunto, in cui il conflitto si è internazionalizzato a causa della risposta che una parte dei governi occidentali hanno dato alle precise richieste dei “ribelli” Houthi che sono venuti in soccorso ai palestinesi.
Le forze statunitensi e britanniche hanno abbattuto, martedì 9 gennaio, di sera, 18 droni e tre missili sparati nel Mar Rosso dai ribelli.
Il governo britannico, mercoledì, ha stimato che si sia trattato del «più importante attacco» avvenuto fino ad ora.
La nave da guerra della flotta britannica Diamond e diverse navi da guerra nord-americane avrebbero respinto l’attacco «con successo», secondo quanto riferisce il ministro della difesa inglese, Grand Shapps, sul suo account di X.
Shapps, specifica che non ci sono stati feriti tra l’equipaggio, né danni materiali.
I militari statunitensi hanno fatto sapere che si è trattato di un attacco «complesso», segno delle capacità militari dei “ribelli”, che vengono dipinti a sproposito dalla stampa mainstream come “pirati” (ricorda da vicino il “banditen” con cui i nazisti qualificavano i partigiani).
A quanto riferisce il Centcom – ovvero il Comando militare americano in Medio-Oriente – si tratta del 26simo attacco compiuto.
Per sventarlo da parte nord-americana sono intervenuti degli aerei da combattimento partiti dalla porta-aerei Dwight-D.Eisenhower, e da tre destroyers.
Come riporta un articolo del quotidiano francese Le Monde del 3 gennaio, scritto da Jean-Michel Bezat: «malgrado la creazione di una forza internazionale sotto l’egida degli Stati Uniti, la situazione è distante dall’essere ritornata normale in Mar Rosso».
E l’ultimo attacco ne è la conferma.
Prima di quest’azione, gli Houthi avevano colpito una porta-container dell’armatore francese CMA CGM, la Tage, e prima ancora un’altra porta-container della compagnia di navigazione danese AP Moller-Maersk, la Maersk-Hangzhou, il 31 dicembre.
Minacciata di essere “abbordata” da 4 imbarcazioni yemenite, 3 di queste sono state affondate dalle navi della 5° Flotta statunitense.
Questo tipo di azioni stanno destabilizzando il traffico mondiale delle merci in mano ad una manciata di aziende, considerando che il 12% del traffico mercantile globale e 20mila imbarcazioni l’anno passano per il Canale di Suez, di cui 2/3 dei manufatti e delle materie prime destinate all’Europa.
L’unica alternativa al passaggio attraverso il Canale è la circumnavigazione dell’Africa, con un aumento di tempi e costi che si riverbera sulla filiera produttiva ed il ciclo delle merci.
Insieme al Mar Rosso è il Libano il territorio che sta vivendo la maggiore escalation, ai suoi confini meridionali, con Israele che vorrebbe costringere Hezbollah a retrocedere ben al di là dei confini Libanesi – il fiume Litani, dove non arrivò nel 2006 – , mentre sono proprio i territori a Nord dell’entità sionista ad essere stati costretti all’evacuazione dei civili.
In una intervista al New York Times, il portavoce militare israeliano Harari ha affermato che una uscita diplomatica è impensabile senza che Hezbollah si ritiri dalla zona più vicina con il confine; fino ad allora l’aviazione israeliana utilizzerà la stessa strategia che viene usata contro Hamas a Gaza.
Che poi è la stessa dottrina militare mutuata dal conflitto israeliano-palestinese del 2006.
Come ricorda il quotidiano spagnolo El País: «Dopo l’attacco con più di 60 razzi che sabato ha causato gravi danni al Centro di Controllo Aereo di Maron, nella zona di frontiera, l’aviazione israeliana ha replicato con una ondata di bombardamenti».
Intanto, mercoledì 10 gennaio si è giunti al 96simo giorno della guerra a Gaza, estesa anche alla Cisgiordania, sempre più “sigillata” ed occupata dai sionisti.
Circa il 90% degli abitanti della Striscia sono stati allontanati dalle proprie case, e gli ultimi ospedali funzionanti nel centro e nella parte meridionale di Gaza stanno per essere evacuati a causa dell’avvicinarsi dei combattimenti, con condizioni catastrofiche a livello alimentare e sanitario, e, bisogna sempre ricordarlo, l’annichilimento dell’1% della popolazione dell’intera Striscia. Finora…
65 mila case sono state distrutte, mentre 300 mila hanno subito danni importanti e circa mezzo milioni di abitanti della Striscia non sanno dove potere andare dopo la fine dell’operazione israeliana, con Tel Aviv che non cessa la sua opera di pressione per fare accettare ai paesi confinanti, sul proprio territorio, i Palestinesi cacciati da Gaza verso L’Egitto, la Giordania e il Qatar; o persino altre mete anche piuttosto distanti dal Medio Oriente, in Africa.
Finora ha ricevuto picche.
Gli spazi di manovra di Blinken – per evitare il consolidamento del conflitto nell’anno delle elezioni presidenziali fare un parziale “passo indietro” agli israeliani, nel mentre dive gestire un’altra “gatta da pelare” come la guerra in Ucraina – sembrano piuttosto risicati.
La posizione ufficiale dell’entità sionista venerdì scorso ha reso noti i propri piani per la Striscia, su cui vorrebbe realizzare un controllo militare permanente, con una amministrazione molto parziale basata su “comitati locali” di proprio gradimento.
Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano, non ha neppure citato l’ANP nella gestione post-conflitto della Striscia, ma – senza specificare ulteriormente – ha lasciato una porta aperta per un ruolo importante dell’Egitto (che se guarda bene…).
Nei piani ufficiali non sembra per ora prevista la presenza di “civili israeliani”, cioè coloni, nonostante le pressioni delle frange di estrema destra dell’attuale governo – tra cui i ministri Ben Gvr e Bezalel Smotrich – che vorrebbero invece re-insediarsi dopo la loro evacuazione nel 2005.
Intanto, la guerra continua e sono ancora 136 gli ostaggi israeliani nelle mani dei palestinesi.
Occorre ricordare che nessun “ostaggio” israeliano è stato liberato dai sionisti manu militari, ma solo all’interno di una dinamica di scambio di prigionieri, in cui Hamas ed in generale la Resistenza palestinese ha “dettato” le condizioni con la mediazione di alcuni stati arabi; e le manifestazioni dei familiari contro l’attuale premier a Tel Aviv continuano.
Secondo quanto riporta la Reuters, sia il Qatar che l’Egitto, che avevano cercato di mediare per un nuovo cessate il fuoco, hanno ripreso i colloqui.
La ripresa avviene dopo che una delegazione israeliana si è recata in Egitto per discutere della possibilità di un cessate il fuoco duraturo in cambio del rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza, dicono alcune fonti della sicurezza egiziana.
Intanto all’Aja, alla Corte di Giustizia Internazionale (ICJ) iniziano le prime sedute rispetto alla accuse di genocidio formulate dal Sud Africa, che si avvale di un qualificassimo team legale guidato da John Dugard.
É la prima volta che la United Nations’ Genocide Convention – che teoricamente obbliga i membri dell’ONU a prevenire o a punire un genocidio – viene usata contro Israele.
É dal 30 ottobre che lo Stato Africano usa correttamente nei suoi documenti ufficiali il termine “genocidio” per descrivere quello che sta succedendo a Gaza, ed è interessante notare che 400 cittadini israeliani hanno firmato un appello in favore della sua azione al ICJ, in netto contrasto con la rabbiosa reazione dell’attuale governo di Netanyahu, spalleggiato anche in questo caso dagli stati Uniti.
Gli USA, attraverso le parole del portavoce del National Security Council, hanno definito l’azione del SudArica presso la corte: «infondata, controproducente, e completamente assente di una qualsiasi base fattuale».
Un’azione, quella sudafricana, che ha invece cominciato ad avere uno spettro importante di sostenitori, in costante aumento, mentre le crepe del mondo unipolare a guida euro-atlantica si allargano.
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matteo
Curioso come l’unico atto concreto d’accusa contro il genocidio perpetrato da Israele ai danni dei palestinesi, provenga proprio da quella parte di mondo definita “giungla” da J. Borrell, ovvero il Sudafrica. Nel “giardino” euroatlantico invece si va dal sostegno aperto a Israele, ai penosi balbettii di sedicenti “progressisti” capaci solo di ripetere stanche formulette come quella del “due popoli due stati”. La storia giudicherà duramente l’Occidente per quello che si sta rivelando come il più grande e grave crimine dalla fine della Seconda guerra mondiale.
salvatore drago
“la storia giudicherà” quale sia(o sia stato) il più grande crmine: Quello del Vietnam,, Cambogia e Laos, quello del Cile, Argentina e Paesi Latini o quello compiuto adesso nei confronti de popolo palestinese. La storia… la sttoria che noi non siamo in grado di scriverla; con caratteri cubitali saranno altri a scriverla se noi non vogliamo gridare che le loro basi nella nostra italietta, non vogliamo le loro basi nel nostro territorio, che vogliamo l’uscita dalla NATO dall’Italia e l’Italia fuori da quella associazione a delinquere chiamata NATO.