Sabato prossimo 19,5 milioni di taiwanesi saranno chiamati alle urne per scegliere un nuovo presidente e rinnovare il parlamento, lo Yuan legislativo (113 seggi). Gli elettori avranno tre schede: per il presidente (vince chi ottiene anche solo un voto in più); per la camera-maggioritario, con cui vengono eletti 3/4 dei parlamentari; per la camera-proporzionale, con cui viene eletto 1/4 dei deputati.
Per la presidenza è corsa a tre, tra William Lai Ching-te (Partito progressista democratico, Dpp), Hou Yu-ih (Kuomintang, Kmt) e Ko Wen-jie (Partito popolare, Tpp). Per quanto riguarda lo Yuan legislativo, c’è grande attesa per il possibile exploit del Tpp – fondato nel 2019 da Ko – che, spinto dal voto dei giovani e degli indecisi, potrebbe infrangere il tradizionale duopolio politico Dpp-Kmt.
A determinare chi la spunterà saranno le proposte dei candidati su lavoro, tasse, ambiente… non soltanto le rispettive posizioni sul futuro delle relazioni tra Taiwan e la Repubblica popolare cinese. Quest’ultimo aspetto resta tuttavia molto rilevante, dal momento che Pechino e Washington hanno trasformato Taiwan in uno degli hotspot della loro rivalità geostrategica.
Se William Lai diverrà presidente (dopo due mandati della sua collega di partito Tsai Ing-wen), confermerà la linea di un continuo allontanamento dalla Rpc, che considera Taiwan una sua provincia, da “riunificare”. Se invece a prevalere fossero Ho o Ko, potrebbe verificarsi un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi otto anni, con la ripresa del dialogo interrotto da Pechino nel 2016 per il rifiuto di Tsai e del Dpp di riconoscere il Consenso del 1992 raggiunto tra rappresentanti del Kmt e del Partito comunista cinese.
Lai e la sua vice in pectore Hsiao Bi-kim sono stati sempre in testa nei sondaggi. Come reagirà Pechino in caso di vittoria dei due che considera “indipendentisti irriducibili”? Una risposta militare è improbabile: le presidenziali e legislative non sono un referendum sull’indipendenza di Taiwan, e alle ultime due consultazioni vinte dal Dpp (nel 2016 e nel 2020) la Rpc non ha replicato sfoggiando i muscoli.
Anche la fragile “tregua” siglata tra Xi Jinping e Joe Biden il 15 novembre scorso a San Francisco induce la leadership cinese a un approccio prudente, così come la possibilità che il prossimo presidente di Taiwan si ritrovi con un parlamento diviso o un governo di minoranza, assai meno gestibile della camera uscente, nella quale il Dpp ha 63 deputati su 113.
Tuttavia la terza presidenza di seguito agli “indipendentisti” rappresenterebbe un problema politico per Xi, che nel suo discorso di Capodanno ha ripetuto che «la riunificazione della madrepatria è una certezza storica». Intanto però soltanto il 7,4 per cento dei taiwanesi è favorevole ad associarsi alla Rpc. Nel 1994 erano il triplo, da allora sono diminuiti costantemente.
E l’economia dell’isola sta compiendo passi concreti per dipendere meno dall’altra sponda dello Stretto e avvicinarsi sempre più ad altri partner.
Con 152 miliardi di dollari Usa di esportazioni nel 2023 la Rpc è rimasta il primo mercato per i prodotti taiwanesi, ma in flessione del 18%, al 35,2% del totale delle esportazioni taiwanesi, il minimo da 21 anni. Gli Stati Uniti e i paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) hanno accolto entrambi prodotti taiwanesi per circa 72 miliardi di dollari Usa, con gli Usa che ne ricevono ormai il 17,6% del totale, il massimo negli ultimi 21 anni.
Xi ha fissato l’orizzonte per la “riunificazione” di Taiwan al 2049, centenario della fondazione della Rpc. A Taiwan i governi cambiano e in futuro potrebbero formarsene di più dialoganti con Pechino. Intanto però Taiwan è sempre più lontana.
* da Rassegna Cina
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