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Il boicottaggio del grano “ucraino” e le terre in cui è messo a coltura

Guardando alle proteste degli agricoltori polacchi (ma, nei mesi scorsi, si erano mossi anche quelli ungheresi, slovacchi, ecc.) contro l’esportazione del grano ucraino, come quelle che si sono rinnovate in questi giorni, ad esempio alla stazione-merci polacca di Medyka, dove i manifestanti hanno riversato sui binari il grano di due dei 40 vagoni merci ucraini in sosta, è il caso di rammentare anche un altro aspetto della faccenda.

La questione non è nuova, ma di tanto in tanto vale la pena di tornarci, per non lasciare troppo in ombra i materialissimi interessi che non si celano per nulla dietro gli apostolici “difesa della democrazia contro la dittatura”, “salvaguardia dei valori europeisti” o «lotta della civiltà contro l’inciviltà».

Sul fronte ucraino delle dispute interimperialiste, si combatte una guerra USA-NATO-UE per l’indebolimento (o l’annientamento) strategico di un pericoloso rivale sullo scacchiere mondiale, come passo preliminare nella prospettiva dell’assalto al principale concorrente planetario dell’imperialismo nordamericano. Questo, in generale. Ma, in terra ucraina, si combatte anche a difesa della sacra proprietà privata (essenzialmente straniera) su ciò che rimane di quelle che erano state un tempo le punte avanzate dello sviluppo sovietico, sia in campo industriale, che agricolo, proprio in Ucraina.

Proteste degli agricoltori in Polonia

Le famose “terre nere” ucraine, che costituiscono circa 1/3 di tutte le terre nere mondiali, la loro privatizzazione, il loro accaparramento da parte grossi latifondisti (non solo ucraini) e soprattutto da parte dei colossi mondiali dell’agroalimentare, rappresentano una parte non secondaria della lotta per il controllo sull’Ucraina.

Nel tracciare alcuni esiti del decennio intercorso dal majdan del 2013-2014 a oggi, il politologo ucraino Rostislav Ishchenko ricorda che nel 2013, alla vigilia del golpe, il debito estero ucraino era di 73 miliardi di dollari, quasi la metà di quei 140 miliardi di debito, che oggi costituiscono l’85% del suo PIL.

Di contro, è dimezzato l’export, anche perché è andato praticamente in fumo il “sogno” di sostituire gli scambi con la Russia con quelli verso l’agognata “Europa”. In compenso, è cresciuto di dieci volte “l’export” di persone, in fuga dalle condizioni sociali disastrose; e altri milioni lasceranno il paese alla fine della guerra.

Questo il quadro complessivo; al cui interno spicca la realtà di oltre la metà della terra ucraina coltivabile finita in mano ai giganti agrari USA, che da tempo avevano allungato le mani sulle ricche terre nere, ma non avevano avuto fretta (la legge non lo consentiva ancora) di comprarsele e si limitavano ad affittarle per cifre miserevoli.

Quindi, dopo che nel 2016 era stata tolta la moratoria sulla compravendita di terre, nel 2021 era entrata in vigore la legge che consente la vendita di terreni agricoli, pur con una sospensione fino al 2024: in ogni occasione, World Bank e FMI hanno avuto la loro parte nel “convincere” Kiev; anzi, secondo la russa Kommersant, la svolta del 2020, con il relativo disegno di legge alla Rada, era stata «quasi la condizione chiave per l’ennesima tranche di finanziamenti dal FMI».

Così che 17 milioni di ettari (oggi probabilmente già molti di più, anche se le cifre scarseggiano) di fertilissime terre nere ucraine finivano in mano a Cargill, Dupont, Monsanto, colossi sui mercati mondiali di cereali, sementi e prodotti agrochimici. Dunque, a voler essere proprio compassionevoli, suscitano appena clemenza quelle “campagne” (vere o false che siano) caritatevoli in giro per l’Italia a «sostegno dei piccoli agricoltori in Ucraina».

In ogni caso, senza aspettare i pruriti della Rada, quei colossi mondiali avevano da tempo fatto rotta sull’Ucraina. Già nel 2015, il sito ucraino Ekologija pravo ljudina lanciava l’allarme su compagnie transnazionali, in primo luogo Monsanto (produttrice del famigerato “agente orange” della guerra in Vietnam e di pesticidi che in vari casi hanno provocato morie di api.

Oggi è proprietà della Bayer), produttrici di OGM in Ucraina e sul governo che lo consentiva quale «originale compensazione alle organizzazioni creditizie internazionali e alla loro “carità”». Monsanto si vanta da sempre di essere stata «la prima impresa straniera ad aver sottoscritto un accordo per la fornitura di fertilizzanti» all’Ucraina, già alla vigilia della fine dell’URSS.

Come mai l’Ucraina, detenendo terre nere, fertilissime di per sé, aveva bisogno di tale intervento, ci si potrebbe ingenuamente chiedere? Secondo uno studio della californiana Oakland University – “Walking on the West Side. The World Bank and the IMF in the Ukraine Conflict” – sulla situazione finanziaria ucraina, l’arrivo nel paese di multinazionali che avrebbero prodotto OMG era una delle condizioni poste da BM e FMI per il prestito a Kiev di 17 miliardi di dollari.

Ora, parlando di majdan e del golpe contro Viktor Janukovic, è il caso di ricordare il suo passo indietro sull’accordo di associazione alla UE, tra i cui termini figurava l’art. 404, con un paragrafo secondo cui entrambe le parti avrebbero cooperato all’impiego della biotecnologia nel settore agricolo; laddove, all’epoca, l’Ucraina proibiva ancora gli OGM.

I ricercatori della Oakland citavano uno studio della banca d’investimento “Piper Jeffrey” che, tra l’altro, recitava: «L’Ucraina, e più in generale l’Europa orientale, è tra i mercati in crescita più promettenti sia per il colosso delle macchine agricole Deere, che per i produttori di sementi Monsanto e Dupont».

Quindi, con majdan in pieno svolgimento, sei delle più grandi associazioni agricole ucraine chiedevano alla Rada di legalizzare l’uso di sementi OGM. L’allora Ministro dello sviluppo economico Aivaras Abromavicius (uno dei tre ministri “americani” del governo Jatsenjuk), dichiarava:

«Ci sono imprese che vedono prospettive in Ucraina. Un buon esempio è l’azienda americana Monsanto, uno dei maggiori produttori mondiali di sementi di mais. Hanno appena cominciato a costruire a Žitomir un impianto del valore di 250 milioni di dollari». E i dollari, si sa, hanno la proprietà di rimanere anche attaccati alle mani di chi li tocchi.

Questo avveniva nel 2014, quando si parlava anche dell’impianto della Monsanto a Vinnitsa e degli accordi con le autorità locali per l’assegnazione del terreno: all’epoca, “solo” in affitto, dato che le lobby stavano ancora lavorando alle leggi sulla compravendita. Dieci anni fa, dunque, Monsanto era ancora dedita a convincere i contadini ucraini a cederle in affitto i terreni più appetitosi.

Le stime del 2013 indicavano che Monsanto occupava già circa il 20% del mercato ucraino delle sementi di mais, che sarebbe arrivato al 30% con l’avvio dell’impianto di Vinnitsa. In quell’anno, nonostante l’assenza di dati esatti su quanta terra Monsanto stesse già coltivando nel paese, l’Associazione granaria ucraina parlava di 6.500 ettari di ibridazione in 11 regioni. Una miseria, si dirà.

Ma ancora la Oakland University rilevava che «L’alta posta in gioco riguarda il controllo del vasto settore agricolo ucraino, il terzo maggiore esportatore di cereali al mondo e il quinto maggiore esportatore di grano… Negli ultimi anni, le società straniere hanno acquisito più di 1,6 milioni di ettari di territorio ucraino». E si era ancora agli inizi.

Nell’agosto 2022, quando le grida euroatlantiche sull’esportazione del grano ucraino cominciavano a farsi più acute, l’agenzia russa Regnum scriveva che, per cercare di raccapezzarsi nella questione, era il caso di partire dalla morte, nel luglio di quell’anno, dell’oligarca Aleksej Vadaturskij, uno dei più forti latifondisti ucraini, proprietario della maggiore impresa logistica granaria ucraina, la Nibulon, il cui contratto per la fornitura all’Egitto di 240.000 tonnellate di frumento era stato annullato dall’acquirente all’ultimo momento. Chissà perché e chissà su pressione di chi.

Le voci secondo cui dietro Vadaturskij ci fossero investitori stranieri si erano infittite quando, nel 2012, Nibulon era stata l’unica impresa ucraina a ottenere parte di quei 125 milioni di dollari di credito stanziati in parte dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e in parte da UniCredit Bank, BNP Paribas, Societe Generale, ING Bank, Hambros Bank.

È il caso di ricordare che, secondo la legge del 2021, fino al 2024 solo i cittadini ucraini avrebbero potuto acquistare terre, seguiti poi dalle persone giuridiche, ma non dagli stranieri; nulla però impediva alle società straniere di possedere quote di terreni (fino a 100 ettari) attraverso ditte-ombra.

C’era inoltre una clausola per cui l’acquisto di terre poteva esser fatto anche da cittadini o imprese straniere che le stessero affittando da almeno tre anni: di questi, in Ucraina, ce ne erano più che abbastanza, e tra l’altro affittavano terre non da tre anni, ma già da qualche decennio. Si tratta anche di imprese registrate come persone giuridiche ucraine, ma “ricche” di capitali euroatlantici, di cui in realtà sono dirette filiali.

E i piccoli e medi agricoltori affittavano volentieri i propri appezzamenti a cifre semplicemente misere per le tasche di colossi quali Monsanto, Dupont, compagnie saudite, o la francese AgroGénéretion, ecc. Ma non solo esse. Sempre nel pieno di majdan, ancora presidente Viktor Janukovic, Giulietto Chiesa aveva parlato di terre, in cinque regioni ucraine, prese in affitto per 50 anni, con diritto di proroga, dalla anglo-olandese Shell e dall’americana Chevron, interessate non all’agricoltura, ma all’estrazione di gas di scisto.

Alla fine del 2019, quei “bolscevichi” della BBC Ukraina affermavano che su oltre 60 milioni di ettari di terreno in tutto il paese, oltre il 70% (42,7 mln) sono a destinazione agricola, di cui un buon 40% costituito da terre nere. Dieci milioni di ha erano di proprietà statale; 31 milioni di proprietà privata, di cui circa 28 milioni divisi in 7 milioni di quote private, a fronte di oltre 25 milioni tra proprietari di terreni e diretti coltivatori di essi. Dunque, secondo dati ufficiali ucraini, tra il 2015 e il 2017, nonostante fosse in vigore la moratoria, 9 transazioni su 10 avevano riguardato proprio terreni coltivabili: per ¾ si trattava di affitto e per 1/5 di trasferimenti per eredità.

Più vicino ai nostri giorni, a maggio 2022, era la Australian National Review a tornare sul tema, scrivendo che Cargill, Dupont e Monsanto, (per inciso: tutte da tempo molto attive anche in Russia) avevano acquistato, in consorzio, 17 milioni di ha (su un totale di quei 42 milioni di cui sopra) di terre coltivabili ucraine, pari ai territori di Grecia e Olanda prese insieme e più delle terre coltivate italiane (16,7 mln di ha).

Un altro 5% di quei 42 mln di ha era stato acquistato da persone giuridiche facenti capo alla Cina: secondo The Wall Street Journal, si trattava del 10%. Tra i principali azionisti delle tre consorziate figurano holding finanziarie quali Vanguard, Blackstone e Blackrock, ognuna delle quali gestisce asset per trilioni di dollari in tutto il mondo.

D’altronde, anche prima della creazione del citato consorzio Cargill-Dupont-Monsanto, si erano già stabilite in Ucraina varie altre imprese agroindustriali: l’americana NCH Capital, le tedesche ADM Germany, KWS, Bayer e BASF, la Saudi Arabian Agricultural and Livestock Investment Company (SALIC). Ma, almeno fino al 2022, le posizioni di comando erano ancora occupate dal triumvirato yankee.

E ciò si è realizzato e si realizza con accordi più o meno temporanei con oligarchi-latifondisti ucraini – alcuni di essi: Jurij Kosjuk (PrJSC MHP), Andrej Verevskij (Kernel), Oleg Bakhmatjuk (UkrLandFarming) il citato Aleksej Vadaturskij, e non può mancare Rinat Akhmetov, le cui attività spaziano in ogni settore – in attesa del passaggio delle imprese ucraine a società miste e, in seguito, totalmente straniere.

Secondo il coordinatore ucraino del progetto Land Matrix, Mikhail Amosov, nel 2020 oltre 50 investitori stranieri controllavano le terre ucraine: le agroholding stavano acquisendo intere aziende o affittando terreni a prezzi stracciati.

Lo schema è semplice: non sono i non-residenti ad acquistare le terre, ma aziende agricole ucraine, che se le erano accalappiate sin dagli anni ’90. E, a detta degli osservatori, il processo si è notevolmente accelerato dopo il 2022, grazie anche al precipitare dei prezzi dei terreni a causa della guerra: un ettaro di terra coltivabile non va oltre i 2.500 dollari e, vicino alle zone di guerra, scende a mille dollari. In Italia, per dire, a seconda delle regioni, si va da 15.000 a oltre 40.000 euro a ettaro.

Per concludere. Circa un anno fa, Ukraina.ru scriveva che la totalità delle terre nere ucraine era valutata approssimativamente intorno ai 500 miliardi di dollari. Cosa ha ricevuto in cambio l’Ucraina dalla vendita di larga parte di esse? Anche se ne avesse ricavato 1/10 di quella cifra, si è trattato di crediti che dovranno essere profumatamente ripagati dalle generazioni a venire.

Se ora si torna per un attimo a tutto il clamore sollevato attorno alla passata questione dell’esportazione di 20 milioni di tonnellate di grano ucraino, si può guardare la cosa da un’altra prospettiva. All’apparenza, si trattava e si tratta di grano ucraino; in realtà americano, o comunque straniero.

Dunque, quando oggi si proclamano le encicliche sulla battaglia europeista a difesa della libera terra ucraina, è forse il caso di ricordare a chi appartenga quella terra.

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