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Ucraina: Washington decisa a scaricare Jatsenjuk?

Tanto tuonò che, forse, piovve. Ma, per l’ennesima volta, nessuno azzarda una previsione sicura sulle dimissioni del primo ministro Arsenij Jatsenjuk, nonostante che, questa volta, sia stato lui stesso ad annunciarle in televisione, domenica pomeriggio e Victoria-Fuck-the-UE-Nuland abbia già ordinato al presidente Porošenko quali nomi non inserire nel nuovo governo. Il vice presidente USA Joe Biden ha detto poi la parola finale, ringraziando telefonicamente Jatsenjuk per “la collaborazione durante la sua permanenza alla carica di primo ministro”: un caldo benservito, dunque.

Già da un anno la popolarità del premier era finita nel pozzo; lo scorso febbraio la Rada aveva giudicato “insoddisfacente” il lavoro del gabinetto e lo stesso Porošenko aveva parlato della “necessità di riavviare il lavoro del governo”, sottintendendo un ricambio di figure, a partire dal premier; dopo che lo yankee-ex georgiano Mikhail Saakašvili aveva parlato di “golpe oligarchico”, per la mancata sfiducia da parte della Rada al suo concorrente in affari Jatsenjuk e la frazione parlamentare di Autoaiuto aveva gridato al complotto statale-oligarchico, che “usurpava la legittimità del parlamento”, era stato Jatsenjuk stesso a far intendere che dal Potomac non era ancora giunta luce verde per l’avvicendamento. A marzo, alle dimissioni del Ministro allo sviluppo economico, il lituano Aivaras Abromavičius, si era paventato un fuggi-fuggi generale dei Ministri stranieri dalla nave che stava affondando e si erano affastellati i nomi più improbabili (perché di essi mai ha parlato il Dipartimento di stato), a sostituire l’ormai sfumato Jatsenjuk: il segretario del Consiglio di sicurezza e di difesa, Aleksandr Turčinov; il leader del Partito Radicale Oleg Ljaško; il Ministro delle finanze, l’americano-ucraina ex funzionaria del Dipartimento di stato USA, Natalja Jaresko; l’ex premier polacco Leszek Balczerowicz, autore in patria delle terapie shock USA per il passaggio all’economia di mercato nei paesi dell’Europa dell’est; il governatore di Odessa Mikhail Saakašvili e, in ultimo e a questo punto il più probabile, l’attuale speaker della Rada Vladimir Grojsman. Ora sembra che siamo arrivati, forse, al redde rationem.

Nel video postato ieri pomeriggio su feisbuc, Jatsenjuk ha detto di aver “preso la decisione di dimettersi da primo ministro ucraino” e domani “la mia richiesta sarà presentata al Parlamento”. In una sceneggiata autosacrificale, Arsenij ha detto che il “desiderio di cambiare una persona ha accecato i politici e paralizzato la loro volontà di cambiamento reale”; dunque, dato che la guerra nel Donbass deve andare avanti a ogni costo, “non possiamo permettere la destabilizzazione del potere esecutivo durante la guerra” e quindi “dichiaro la mia decisione di trasferire obblighi e responsabilità di capo del governo”.

A ogni modo, pur se Jatsenjuk presenterà le dimissioni ufficialmente solo domani, Nuland ha già detto quali nomi non dovranno figurare nel nuovo gabinetto: l’attuale Ministro per l’energetica Vladimir Demčišin, non ”abbastanza professionale” per il Dipartimento di stato e il Ministro per le politiche sociali Pavel Rezenko che, a detta della sua collega Jaresko, “frena le riforme sociali” dettate dal FMI circa l’innalzamento dell’età pensionabile e il taglio all’assistenza sociale. A dire addio al governo sarebbero anche (non è chiaro se su direttiva del Dipartimento di stato) il Ministro degli interni Arsen Avakov e quello della giustizia Pavel Petrenko.

In attesa del voto della Rada, già fioccano i commenti sulle dimissioni del premier. I media ucraini mettono l’accento soprattutto sulla svalutazione di quasi tre volte della grivna (da 9 a oltre 26 per 1 dollaro) e sulla caduta del PIL che, dal +4% del 2013 (183 miliardi $), già nel 2014 era precipitato al -28% (oggi si aggira sugli 80 mld $), con una crescita dei prezzi del 43% nel 2015 rispetto al 2013. Tutto ciò, nonostante le continue iniezioni di crediti del FMI, programmati in 17 mld $ – ma fermi per ora a meno di 5 – e condizionati ad aumenti stratosferici, fino a 7 volte, delle tariffe su elettricità, gas, riscaldamento. Intanto l’export ucraino, rispetto a prima della “rivoluzione per la libertà e la democrazia”, è diminuito del 14% nel 2014 e di un ulteriore 30% nel 2015. Il tasso di disoccupazione è al 10% (1,6 milioni di senza lavoro) e i salari reali sono diminuiti del 30% rispetto al periodo che la servile “l’Unità” definisce della “involuzione autoritaria del regime di Yanukovich”.

In questa situazione, le prime dichiarazioni dopo l’annuncio delle dimissioni di Jatsenjuk – che, secondo il giornalista ucraino Vladimir Skačko, non è detto vengano confermate domani – riguardano la continuazione della guerra nel Donbass, testimoniata dall’intensificarsi dei bombardamenti ucraini e unico modo per cercare di distogliere l’attenzione delle persone dalla catastrofica situazione economica. Skačko, ripreso da Komsomolskaja Pravda, ricorda come tutte le ultime uscite di Jatsenjuk non siano state altro che “un gioco, un intrigo e che il premier ha le spalle coperte a Washington, sebbene anche là i diversi gruppi rilancino ognuno la propria figura”. Se si giungerà veramente alla crisi di governo, resta a vedere come verranno spartite le poltrone che in tal modo si renderanno vacanti: speaker della Rada, nel caso Grojsman vada davvero a sostituire Jatsenjuk (Jatsenjuk (su questo punto, pare che Porošenko sia riuscito a superare una certa diffidenza di Washington, dichiarando che in tal modo terrebbe il governo sotto controllo, dato che Grojsman è un suo uomo e avrebbe avuto anche il benestare dell’oligarca concorrente Kolomojskij, inizialmente orientato su Jaresko); Banca centrale, con gli amici di Porošenko, e così via, mantenendo l’attuale equilibrio dei vari raggruppamenti oligarchici. Secondo il politologo Sergej Černjakovskij, Jatsenjuk non è risultato all’altezza delle aspettative USA e, comunque, chiunque vada a sostituirlo, i cambiamenti saranno ben miseri (…). Dunque, il corso politico rimarrà lo stesso, i raggruppamenti anche e il padrone, pure: l’ennesimo fumo negli occhi, così che Porošenko potrà dire che tutti gli insuccessi erano dovuti a Jatsenjuk e continuerà per la strada tracciata”. Anche il politologo Aleksej Mukhin ritiene che Jatsenjuk, “con il permesso dei suoi curatori americani, intenda in tal modo concedere ulteriore tempo a Porošenko per la sua politica di privatizzazioni a favore delle imprese USA. D’altro canto, un ricambio è utile anche a correggere un certo “senso di colpa” da parte della UE, di nuovo scaricando tutto su Jatsenjuk, le cui dimissioni, purtroppo per il Donbass, non sono che un atto tecnico”.

All’interno,Jatsenjuk avrebbe ricevuto da Porošenko assicurazioni circa la propria immunità, dopo che la frazione Patria della Timošenko avrebbe minacciato di mandarlo sotto processo per i suoi insuccessi economici e la stessa Timošenko pare incline a una nuova alleanza con l’ex capo di Pravyj Sektor, Dmitrij Jaroš, per dare avvio a una “terza majdan”.

A Mosca, le dimissioni del beniamino di Victoria Nuland sono state commentate dal presidente della Commissione esteri della Duma, Aleksej Puškov, semplicemente ricordando alcune delle sue più “celebri” asserzioni, quali quella della “invasione dell’Ucraina da parte dell’Urss nella seconda guerra mondiale”, del “vallo europeo ai confini della Russia per la difesa dell’Europa dall’aggressione di Mosca”, del “ieri ho visto il telegiornale: avrei voluto spararmi e dopo impiccarmi” e così via. Secondo il vice presidente della Commissione sicurezza e difesa del Consiglio di federazione (il senato) russo, Frants Klintsevič, nonostante che le dimissioni di Jatsenjuk non significhino alcun cambiamento nella politica ucraina, né estera, né interna, possono però far sperare almeno in una dichiarazione sulla realizzazione degli accordi di Minsk sul Donbass.

E sullo sfondo delle (probabili) dimissioni di Jatsenjuk e proprio riguardo a quegli accordi, tanto perché non sussistano dubbi sugli orientamenti occidentali, i Ministri degli esteri del G7 riuniti a Hiroshima hanno in ogni caso ribadito che la durata delle sanzioni contro la Russia dipende “dall’adempimento da parte di Mosca dei deliberati di Minsk e dal suo rispetto della sovranità dell’Ucraina” e la Commissione Europea, per far capire ai presuntuosi olandesi chi sia a comandare, si appresta a proporre l’abolizione del regime dei visti nei confronti dell’Ucraina.

Al momento, dunque, non resta che parafrasare il grande Lucrezio e dire che la schiavitù del popolo ucraino, la sua povertà o la ricchezza degli oligarchi, o la guerra nel Donbass, non mutano la natura del regime ucraino e per ora possiamo solo definire un accidente ogni ricambio di poltrona.

Fabrizio Poggi

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