Giovedì, mentre i palestinesi contavano i morti della strage in via Rashid e trasportavano i feriti in ospedali privi di tutto, a ridosso di ciò che resta del valico settentrionale di Erez, circa 200 coloni ed estremisti di destra israeliani allestivano un loro avamposto all’interno di Gaza.
Una di loro, Mechi Fendel, ha spiegato in inglese con accento newyorkese che lei (giunta dagli Usa) ha il dovere religioso di (ri)portare sotto il controllo ebraico la Striscia di Gaza sulla quale, ha precisato, i palestinesi che pure ci vivono da secoli non hanno alcun diritto.
Solo dopo alcune ore, i soldati rimasti sino a quel momento a guardare, sono intervenuti e hanno sgomberato i coloni.
È passato un mese dalla mega «Conferenza per la vittoria di Israele» tenuta a Gerusalemme dal movimento dei coloni, con la presenza di 10 ministri e 27 deputati, per chiedere la colonizzazione di Gaza, e la destra messianica torna a segnalare la sua forza ed influenza oltre alla ferma intenzione di ricostruire gli insediamenti smantellati ed evacuati nel 2005 per ordine dello scomparso premier Ariel Sharon.
Quello del 29 febbraio è stato il tentativo più significativo dal 7 ottobre di ristabilire colonie ebraiche nella Striscia. E con ogni probabilità verrà ripetuto. Una parte dei coloni è entrata per centinaia di metri nel territorio di Gaza. Altri 20 sono penetrati nello spazio tra i due muri che ingabbiano la Striscia e hanno iniziato a erigere due strutture utilizzando i materiali che avevano portato con loro: assi e pali di legno e lamiere di ferro per i tetti.
Avevano già pronto il nome della colonia, Nuovo Nisanit, dal nome di uno degli insediamenti evacuati nel 2005. Solo più tardi i militari hanno riportato indietro i giovani che sono stati accolti dagli applausi di tutti gli altri coloni e attivisti di destra. Poi la folla ha cominciato a scandire «È tutto nostro», in riferimento a Gaza.
Presi dalle notizie drammatiche che arrivavano dal luogo della strage alla periferia di Gaza City, i media internazionali hanno minimizzato o ignorato l’accaduto a Erez. Eppure, quanto si è visto dimostra che, forte dell’appoggio silenzioso del governo, l’idea di colonizzare Gaza non è affatto morta, anzi. «Il governo – ha detto Ariel Pozen, uno dei presenti – deve comprendere quello che la maggioranza degli ebrei (israeliani) ha già capito: siamo qui ed è tutto nostro. Non esiste ostacolo politico o internazionale. Non dobbiamo considerare nessun altro. È una questione interna. Dobbiamo andare a Gaza, distruggere tutto il terrore lì e costruire lì».
Molti dei presenti appartenevano alle stesse organizzazioni che nelle ultime settimane hanno tentato – spesso con successo – di impedire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. Ai loro occhi, esiste un legame tra lo stop degli aiuti ai palestinesi e il ripristino degli insediamenti a Gaza: entrambi sono visti come necessari per una «vittoria» decisiva.
Leggere l’accaduto come un «atto simbolico» sarebbe un errore. In Cisgiordania molte colonie sono state erette proprio dopo questi blitz di pochi «giovani delle colline». Ed è quello che accadrà a Gaza se il governo di destra religiosa al potere deciderà di lasciar fare, incurante delle pressioni internazionali.
Non è un caso che l’anziano colono Baruch Marzel, giunto giovedì da Hebron, abbia detto che l’azione compiuta a Gaza gli ricorda il «primo insediamento a Sebastia». Cinquant’anni fa un gruppo di coloni del movimento Gush Emunim divenne celebre quando tentò di stabilire un insediamento ebraico: resistette agli ordini di sgombero del governo finché non l’ebbe vinta.
* da il manifesto
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