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La posta in gioco nelle elezioni in Senegal

Il 6 marzo i sette giudici della Consiglio Costituzionale hanno imposto al presidente senegalese uscente Macky Sall la tenuta delle elezioni presidenziali prima della fine del suo mandato, che sarebbe scaduto il 2 aprile.

Si è trattato di un “capovolgimento” dopo il colpo di Stato istituzionale  attraverso il quale erano state posticipate praticamente sine die.

É dal 1963, quando il paese aveva da poco acquisito l’indipendenza, che  le elezioni non si erano svolte nella data prefissata.

Si tratta comunque di un posticipo rispetto alla data prevista, il 25 febbraio scorso, visto che Macky Sall aveva deciso di rinviarle – senza averne tra l’altro la facoltà giuridica – con il pretesto di un “malfunzionamento” del Consiglio Costituzionale.

L’unica ragione reale era però la possibilità che la coalizione guidata dal partito presidenziale avrebbe potute perderle a favore della montante opposizione del Pastef (formalmente bandito dal luglio 2023), i cui due principali leader erano comunque detenuti in carcere, con Ousmane Sonko impossibilitato a candidarsi per pretestuosi precedenti giuridici, e l’altro – Bassirou Diomaye Faye – anch’esso detenuto, ma comunque eleggibile.

I due principali leader dell’opposizione sono stati però scarcerati il 14 marzo, dopo l’approvazione di una “travagliata” legge sull’amnistia, ed hanno potuto iniziare la propria campagna elettorale dalla capitale della Casamance – Ziguinchor, nel sud del paese – dove Sonko è sindaco.

La loro liberazione ha visto migliaia di persone manifestare gioiosamente.

Faye, nella sua prima uscita pubblica, aveva ricordato l’approccio con cui lui e l’opposizione stanno affrontando queste elezioni presidenziali: “ricordo la formula che descrive la logica politica nella quale siamo proiettati, coscienti che il Senegal non ha bisogno di un messia, né di eroi, ma di una massa critica di cittadini che sono coscienti delle questioni fondamentali da affrontare”.

Se l’“ultra-presidenzialismo” aveva forse una qualche ragione d’essere nel paese che aveva appena conquistato l’indipendenza, per contrastare l’“etnicismo” a causa di una popolazione senza alcun livello d’istruzione, ora è invece semplicemente l’arroccamento di un ristretto establishment politico al servizio delle multinazionali francesi, teso solo al mantenimento della propria rendita di posizione e delle proprie clientele, a detrimento della maggior parte della popolazione.

In questo contesto l’Assemblea nazionale, cioè il parlamento senegalese, ha agito come appendice dell’esecutivo, con i deputati ridotti più a “leali servitori” del presidente che detentori di un mandato popolare.

In questa assenza di “bilanciamento di poteri”, sotto la chiara influenza dell’ex potenza coloniale, si è aperto un conflitto di poteri tra Consiglio Costituzionale e presidenza, segno di una frattura che attraversa la sua società nel suo insieme fin dentro la classe dirigente, e non solo “tra l’alto e il basso”.

Nonostante i sempre più risicati margini di agibilità politica legale, la società senegalese si è subito mobilitata per impedire che il colpo di stato istituzionale di Sall potesse realizzarsi, con una pressione costante che ha ottenuto risultati tangibili. In caso contrario, il paese sarebbe stato portato sull’orlo di una “ingovernabilità” permanente, dagli esiti incerti e probabilmente ad ulteriore drammatizzazione dello scontro politico.

É chiaro che al centro della disputa ci sono profondi interessi materiali esemplificati nella domanda: chi beneficerà dello sfruttamento delle risorse energetiche del paese – gas e petrolio – ma anche di quelle ittiche? Soprattutto, quale sarà il modello di sviluppo rispetto a quello quello fin qui dominante, del tutto funzionale a Parigi?

La crisi politica apertasi nel marzo 2021 – confermata dagli avvenimenti dell’estate del 2023 – è stata chiusa con la legge d’amnistia e uno scambio politico evidente: impunità dei responsabili del massacro da un lato e agibilità politica dall’altro. Ma comunque non placa la sete di giustizia per i 60 morti durante le manifestazioni – di cui una decina uccisi direttamente dalle forze di sicurezza – e soprattutto non ha per nulla risolto le cause che l’hanno innescata.

La volontà di riscatto e la necessità di cambiamento del corso politico passa per il 44enne Faye, che ha pagato con 335 giorni di carcere la sua coerenza politica.

Co-fondatore del Pastef nel 2014, funzionario delle imposte ed ex allievo della Scuola Nazionale d’Amministrazione (ENA), è stato il “braccio destro” e coetaneo di Sonko.  Si è distinto già da molto giovane, dopo aver militato nel sindacato dei funzionari pubblici, diventando uno dei principali ideologi ed ispiratori del programma per le presidenziali del 2019.

Il Pastef ha ottenuto nel 2019 il 16% dei voti al primo turno, diventando la terza forza politica. Ma era in un contesto internazionale e regionale assai diverso, in cui la forza della Francia sembrava ancora saldamente ancorata.

Dal febbraio del 2021, con l’incarcerazione di Sonko e di altri quadri dirigenti, Faye emerge anche per il suo “sangue freddo” in una situazione non certo facile, emergendo come l’architetto di un fronte politico ampio che non marginalizza l’opposizione.

L’establishment politico muove allora ai due leader – mussulmani praticanti – l’accusa pretestuosa di essere “salafiti”, in un paese caratterizzato da confraternite sufi.

É lo stesso Faye che spiega il loro approccio politico: “noi non intendiamo rifarci a questioni religiose, etniche o identitarie. Noi abbiamo rifiutato di utilizzare le confraternite perché, dietro, c’è sempre uno scambio per ricevere quello e quell’altro. Noi non pratichiamo il proselitismo per assicurarci il favore di questo o quest’altro marabutto”.

I propri tratti distintivi li descrive lui stesso definendosi “antisistema” e “panafracanista”, facendosi portatore di sentimenti popolari diffusi soprattutto tra la gioventù del paese, gli intellettuali e gli stessi funzionari, che posso costituire quel nuovo “blocco storico” per avviare un nuovo corso politico al paese.

In continuità con il programma del 2019, Faye vuole battersi contro la corruzione e gli interessi economici francesi in Senegal.

Auspica un’uscita dal Senegal dal franco CFA, la soppressione del posto di Primo Ministro e l’istituzione di un posto di vice-presidente eletto in tandem con il Presidente – cui vorrebbe ridurre i poteri -, la sospensione dell’accordo di pesca con l’Unione Europea, la riformulazione dei contratti di sfruttamento del petrolio e del gas che dovrebbero iniziare a operare quest’anno.

Si tratta di 100.000 di barili di petrolio al giorno, circa 2,5 milioni di tonnellate l’anno (con il progetto GTA che coinvolge la Mauritania ed il Senegal), che potrebbero portare alla costruzione di un indotto considerevole per l’approvvigionamento e la raffinazione, con un “salto di qualità” per lo sviluppo del paese.

Faye, intervistato da Le Monde, non nasconde le sue intenzioni e parla apertamente dell’obiettivo di portare avanti una “rottura” in Senegal, in termini di sovranità da riacquisire anche nella scelta dei partner internazionali, a cominciare dalla relazione con i vicini, ed in alcuni casi confinanti, paesi del Sahel.

Rispetto ai rapporti con la Francia è piuttosto chiaro: “Il Senegal ha già costruito una relazione formidabile con la Francia, da molto tempo, nonostante un inizio doloroso marcato dallo schiavismo e dal colonialismo. E’ necessario che che questa relazione non rmanga dentro un quadro neo-colonialista che ci fa rimanere dipendenti. Noi non rinunceremo alle nostre aspirazioni al progresso, alla sovranità, alle relazioni equilibrate, rispettose e reciprocamente vantaggiose, portate avanti dalle nuove élite africane ed i popoli africani”.

Il suo avversario è il poco popolare Amadou Ba, un tecnocrate benvoluto dalle élite occidentali, che assicurerebbe la continuità della gestione politica di quella ‘modernizzazione’ che ha acuito la distanza tra la capitale, Dakar, e il resto del paese, senza risolvere i problemi della maggioranza della popolazione e “regalando” le ricchezze del paese a soggetti terzi.

Sebbene, ci siano ufficialmente una ventina candidati, è chiaro che – anche con l’uscita di scena di Karim Wade del PDS – tertium non datur. La partita elettorale estremamente polarizzata si gioca tra un’ipotesi di rottura, con Faye, o di continuità, con Ba.

Questo in un contesto di disoccupazione giovanile anche tra i settori più scolarizzati, inflazione galoppante con un costo della vita sempre più caro, l’esplosione dei prezzi delle abitazioni, ecc, che potrebbe suggerire ai sette milioni di elettori senegalesi un “voto di vendetta” contro una classe politica percepita come corrotta e che non si è fatta problemi a “rompere” la consuetudine democratica del paese pur di restare in sella.

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