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Erdogan fa spallucce davanti alla catastrofe elettorale

Si sono svolte in Turchia il 31 marzo delle elezioni municipali e provinciali dagli esisti sorprendenti. L’AKP al governo, infatti, ha subito una sconfitta dalle dimensioni inaspettate. Oltre ad aver mantenuto Istanbul, Ankara ed Adana di larga misura, infatti, i repubblicani del CHP hanno riusciti a sottrarre agli avversari anche diverse altre città, quali Bursa e Balikesir.

Nel complesso, il principale partito di opposizione ha mantenuto tutte e 14 le municipalità che controllava e ne ha guadagnate altre 12. Anche in termini di percentuali assolute, per quanto possa contare tale dato nelle elezioni locali, ha leggermente sopravanzato gli avversari (37% circa contro 36% circa), con un’affluenza alle urne del 78.5%.

Da segnalare che nelle sua principale roccaforte, ovvero l’Anatolia centrale, l’AKP, oltre ad aver perso qualcosa a beneficio dell’opposizione, ha perso quattro municipi a beneficio di due suoi alleati a livello nazionale.

Ovvero i nazionalisti del MHP e gli islamisti ancora più radicali del rifondato “Partito del Benessere”, che fu di Erdogan quando era sindaco di Istanbul, prima dello scioglimento forzato imposto dall’esercito, e che oggi guidato dal figlio del suo ex mentore Necmettin Erbakan. La coalizione governativa, dunque, si presentava spaccata.

Si tratta, quindi, di una svolta netta rispetto alle elezioni presidenziali di meno di un anno fa, che premiarono ancora una volta nettamente Erdogan. La nuova situazione delineatasi già “apparecchia la tavola” per le prossime presidenziali del 2028.

Il riconfermato sindaco di Istanbul, Imamoglu, infatti, rafforza la sua candidatura in pectore per il CHP. Il costruttore di Trebisonda, in realtà, avrebbe già voluto correre l’anno scorso; tuttavia, è stato ostacolato da una serie di inchieste giudiziarie e balzelli burocratici.

Dall’altra parte, Erdogan, che allo stato attuale non potrà più ricandidarsi, potrebbe vedersi complicata la strada per estendere il limite di mandati, nel caso in cui avesse pensato di effettuare un passo simile; cosa che, per altro, non ha mai lasciato intendere fino ad ora, pur non essendo ancora alle viste un suo possibile erede.

Alla notizia dei risultati elettorali, Il presidente della Repubblica ha pienamente ammesso la sconfitta: “Abbiamo perso e non ce lo aspettavamo – ha affermato – ma le elezioni sono il momento in cui il popolo indica la strada che vuole intraprendere. Sta a noi imparare dagli errori“.

Molti commentatori occidentali già parlano di “inizio della fine” del regno del sultano o attribuiscono un valore alto a queste elezioni locali, alla stessa maniera delle elezioni di 5 anni fa, in cui perse Istanbul per la prima volta.

Ovviamente c’è da andarci piano, perché quando si ragiona di questioni di valore non locale, ma strategico e nazionale, l’elettorato turco ha dimostrato di comportarsi diversamente e di partecipare in maniera ancora più massiccia alle elezioni: al 78.5% di affluenza del 31 marzo, fanno da contraltare l’87% e l’84% rispettivamente del primo e del secondo turno delle presidenziali del 2023.

Alla base dell’erosione del consenso nei confronti del blocco di potere ci sono motivi economici legati all’inflazione, stabilmente superiore al 60%, che mettono in ombra le questioni strategiche relative collocazione geopolitica indipendente dagli alleati occidentali e con forte proiezione neo-ottomana, proposta dall’AKP, che negli anni scorsi è sempre stata preferita dall’elettorato, rispetto alla scialba retorica filo-NATO proposta dall’opposizione.

Veniamo, ora alla terza forza elettorale, il Partito dell’Eguaglianza e della Democrazia, ennesima denominazione con cui è stato costretto a presentarsi l’ex-HDP, partito della sinistra filo-curda, che si affacciava a queste elezioni dopo un periodo travagliato, a seguito della scelta insolita e infruttuosa di appoggiare, lo scorso anno, il candidato del CHP, partito sulla carta ancora più ostile alle minoranze dell’AKP al governo.

Dopo le presidenziali, vi è stato un cambio al vertice e una fase di autocritica, avviata dal leader in prigione Selahattin Demirtaş; quest’ultimo, dopo aver attribuito, tramite una lettera spedita dal carcere, la sconfitta non solo alla repressione, ma anche a fattori interni, aveva dichiarato di ritirarsi dalla politica attiva.

Durante l’avvicinamento a queste elezioni, il partito ha deciso di tornare alla via dell’alterità rispetto ai due principali partiti; tuttavia, ha anche deciso di non presentare candidature ovunque e ad Istanbul ha rinunciato a presentare la candidatura forte di Basak Demirtas, moglie di Selahattin, dopo averla presa in considerazione, probabilmente per non mettere in discussione la vittoria di Imamoglu.

Nonostante le tante tribolazioni, il risultato è di grande rilievo. Sono stati ripresi tutti i municipi nell’area a maggioranza curda che erano stati sciolti d’imperio dal governo centrale dopo le ondate repressive degli scorsi anni, tranne uno, andato al MHP.

Inoltre, ne sono stati tolti due all’AKP e uno al Partito Comunista di Turchia. Il tutto nel solito clima di tensione e di scontri che sempre accompagna le operazioni elettorali nelle aree a maggioranza curda, durante i quali un militante della formazione di sinistra è morto in una sparatoria nei pressi di un seggio.

Il futuro di questa forza politica resta comunque incerto, sia per fattori repressivi, sia per quel che riguarda la sua collocazione strategica nel quadro politico turco.

La questione curda, al momento, sembra chiusa dal punto di vista dello Stato turco, orientato esclusivamente alla repressione, ma le evoluzioni politiche legate al probabile approssimarsi della fine della presidenza Erdogan potrebbero riaprire degli spazi politici nei prossimi anni.

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