C’è una narrazione fuorviata e fuorviante secondo cui la responsabilità di quello che Israele sta facendo ai palestinesi a Gaza è solo colpa di Netanyahu e la colpa di quanto stanno subendo i palestinesi a Gaza è solo di Hamas.
Netanyahu e Hamas come capri espiatori?
Secondo questo insidioso schema se in Israele si dimette Netanyahu e se i palestinesi prendono le distanze da Hamas, la pace e la stabilità sarebbero a portata di mano.
Lo schema dei due capri espiatori può essere al massimo autoconsolatorio sia per i sostenitori di Israele che per i solidali con la Palestina, ma nulla sarebbe più sbagliato.
Anche senza Netanyahu, lo Stato di Israele e le forze politiche, ideologiche, economiche che lo compongono continuerebbe nel loro progetto di “politicidio” dei palestinesi, negando qualsiasi possibilità all’esistenza di uno Stato palestinese degno di questo nome, mantenendo le colonie in Cisgiordania e il regime di apartheid verso tutti i palestinesi, quelli con passaporto israeliano e quelli dei Territori Occupati.
Come ha scritto brillantemente il sociologo israeliano Baruch Kimmerling, contro i palestinesi negli anni è stato attuato un politicidio che ne ha negato l’esistenza e l’identità politica come popolo.
Le manifestazioni “per la democrazia in Israele” o contro Netanyahu non hanno mai gettato neanche un’occhiata al di là del Muro che le separa dai palestinesi.
Silurare Netanyahu senza rimettere in discussione il progetto coloniale israeliano non avrebbe alcun significato per i palestinesi né per la soluzione politica alla questione palestinese. In compenso Israele proverrebbe a riconquistarsi a livello internazionale l’innocenza perduta con il genocidio di Gaza ed a poter contare sulla immeritata indulgenza del mondo occidentale e dei regimi arabi più corrotti.
Ma si accentuerebbe anche il conflitto civile e politico interno ad Israele. Gli estremisti messianici israeliani con il governo Netanayahu hanno assaporato il gusto del potere e consolidato il loro blocco sociale di riferimento. Non vi rinunceranno senza combattere, anche contro gli altri ebrei israeliani.
In campo palestinese, anche l’ultimo sondaggio del PCPSR, ha confermato che la maggioranza dei palestinesi, sia a Gaza che in Cisgiordania, preferisce che a governarli sia Hamas e non l’Anp di Abu Mazen.
Significativamente questa percentuale è più alta in Cisgiordania che a Gaza. I palestinesi vedono messa in pericolo la loro stessa esistenza come popolo. Hamas è quello che ha inferto il colpo più duro al nemico e riaperto davanti agli occhi del mondo la questione palestinese. Le altre organizzazioni, pur con migliori o peggiori sforzi, non ci riescono da decenni.
Escludere Hamas dai futuri assetti, incluso quello di un eventuale Stato Palestinese, significherebbe riaprire e acutizzare un conflitto civile e politico interno a Gaza, in Cisgiordania e nei campi profughi palestinesi della diaspora.
Siamo dunque in una situazione di Zugswang (1). Al momento è svantaggioso sia estromettere che mantenere in sella Netanyahu e Hamas.
L’insidia umanitaria
Allo schema sballato dei capri espiatori si va aggiungendo un’altra insidia: quella umanitaria.
I palestinesi prima di essere sottoposti al genocidio sono stati sottoposti a tre decenni di “politicidio”. Come individuato giustamente da Kimmerling, la condotta tenuta da Israele nei confronti della nazione palestinese, ha puntato negli anni a negarne ogni identità, rivendicazione, esistenza politica.
E la solerte complicità dei paesi occidentali – che fino a due anni facevano coincidere se stessi con l’intera comunità internazionale – si è adeguata a questa postura.
A Israele sono stati assicurati sostegno politico, militare, economico, mentre ai palestinesi al massimo aiuti umanitari, un po’ di finanziamenti europei e arabi, e formule inefficaci e consolatorie come “due popoli due stati”, una formula alla quale non credeva via via più nessuno, né tra i palestinesi né a livello internazionale.
Di fronte al genocidio dei palestinesi a Gaza assistiamo al rischio del medesimo tranello. Piuttosto che sostenere nelle sedi bilaterali e internazionali le rivendicazioni storiche e politiche dei palestinesi – spesso liquidate come “terrorismo” – si è dato risalto all’emergenza umanitaria, fino a far passare in secondo piano le decisioni politiche israeliane sui bombardamenti e le azioni militari ed a trasformare il problema di Gaza in quello di una carestia.
Sarebbe assurdo negare anche l’emergenza umanitaria a Gaza, ma utilizzarla per negare o sottacere la dimensione “politica” della questione palestinese è un inganno che va sventato.
Una popolazione ridotta e gestita come un problema di profughi perde qualsiasi voce o priorità politica nei contesti e nelle soluzioni internazionali. Lo dimostrano il popolo saharawi, prima ancora i nativi di entrambe le Americhe, più recentemente le immense tendopoli di profughi provocati dalle guerre africane.
O le due iniziative – politica e umanitaria – procedono in parallelo oppure, oltre che al genocidio, si facilita la strada al politicidio dei palestinesi, magari lastricandolo di buone intenzioni.
L’estensione della guerra in Medio Oriente
Israele sta cercando di estendere il conflitto da Gaza al resto del Medio Oriente. Ha compiuto sistematicamente raid in Siria e Libano. Ha colpito ripetutamente alti ufficiali e personale militare iraniano e, fin qui, senza subirne le conseguenze.
Le Nazioni Unite e i governi occidentali hanno girato sempre la testa dall’altra parte, anche perché non sono mai stati incalzati né da ritorsioni significative dei paesi colpiti né da iniziative diplomatiche portate avanti fino in fondo.
A Israele è stato finora consentito – in nome del dogma della “sicurezza” che da sempre gli ha assicurato un trattamento privilegiato – di fare quello che ad altri paesi non è mai stato consentito di fare senza dover subire sanzioni, embarghi o addirittura azioni militari in nome del “ripristino della legalità internazionale“.
Per molto meno di quanto è stato permesso di fare a Israele, altri paesi come Iraq, Serbia, Iran, Libia, Corea del Nord, Venezuela, Cuba, e adesso Russia e Bielorussia, sono stati sottoposti a misure internazionali pesantemente punitive.
E’ sufficiente rammentare che Israele possiede un arsenale nucleare che nessuno – neanche l’Aiea – ha mai potuto controllare o verificare, semplicemente perché Israele non ammette di averlo e non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione nucleare.
Al contrario il programma nucleare dell’Iran – che invece ha firmato il TNP – è stato sottoposto ai controlli dell’Aiea, ha visto i suoi scienziati uccisi dal Mossad ed è stato sottoposto a sanzioni.
Adesso la richiesta dell’Arabia Saudita di avviare un proprio programma nucleare ha fatto saltare uno schema caratterizzato da ipocrisia e dalla logica dei due pesi e due misure.
Il motivo di questo doppio standard oggi viene giustificato dal timore di una escalation del conflitto in Medio Oriente.
Ma è proprio Israele che pare puntare su tale escalation per alzare sia l’asticella della tensione che per ricattare il resto della regione e della comunità internazionale. Alzare il tiro sul rischio di una guerra regionale non serve solo a Netanyahu per rimanere in sella, serva al ruolo strategico Israele per continuare a condizionare e minacciare l’intera regione mediorientale.
Il faticoso percorso di allacciamento di relazioni tra Israele e paesi arabi avviato con gli Accordi di Abramo, è praticamente saltato dopo il 7 ottobre. Se e da come finirà il bagno di sangue in corso a Gaza dipende il fatto che Israele debba ricominciare da capo un processo avviato da anni.
Per esorcizzare tale ipotesi Israele ricorre sistematicamente allo schema del “cane pazzo” evocata da Moshe Dayan: “lasciateci perdere perché altrimenti facciamo saltare tutto…e siamo in grado di farlo”.
Il messaggio inviato è che meglio procedere con accordi bilaterali che con lo scontro tra mondo arabo e quello che nel 2018 è diventato ufficialmente lo “Stato solo degli ebrei”.
La spudorata copertura politica e militare offerta a tutto questo dagli Stati Uniti – sia nella versione Trump che Biden – è oggi però meno credibile. Lo dimostra la insolenza con cui Israele ha risposto alle richieste statunitensi di “proporzionare” il massacro dei palestinesi a Gaza, ma anche i pugni di mosche con cui il Segretario di Stato Blinken è sistematicamente tornato a casa dai suoi viaggi nelle capitali mediorientali.
L’indebolimento dell’influenza statunitense in Medio Oriente ha reso paradossalmente più insicura ma anche più arrogante Israele. Oggi, ma anche domani, a Washington si trovano nella difficile condizione di non essere sicuri di poter controllare quello che ritenevano il “loro cane pazzo” e di trovarsi invischiati nei guai che va combinando.
La presa delle lobby sioniste sui luoghi decisionali negli USA appare ancora forte, tanto che se sull’Ucraina repubblicani e democratici si sono divisi, sul sostegno a Israele non risultano particolari divergenze.
Ma per una potenza fino a ieri egemone come gli USA, non farsi obbedire da un piccolo stato come Israele è una seria perdita di credibilità che ne indebolisce ulteriormente il ruolo internazionale. E questo è ciò di cui oggi Washington ha decisamente meno bisogno.
Fino ad oggi sia la Siria che l’Iran si sono ben guardati dall’avviare ritorsioni significative dopo i numerosi raid israeliani che ne hanno colpito le strutture e il personale, inclusi i civili.
Le uniche reazioni sono state quelle degli Hezbollah libanesi, degli Ansar Allah yemeniti e delle milizie sciite irachene. Reazioni molto limitate che hanno mantenuto bassa l’asticella della tensione.
Ma fino a quando gli altri paesi del Medio Oriente – Siria e Iran soprattutto – potranno evitare di procedere con delle ritorsioni, almeno proporzionali, ai raid e ai bombardamenti israeliani sulle proprie città, infrastrutture, con vittime tra il personale civile e militare?
Anche qui, dunque, siamo alla Zugswang. Se i paesi attaccati da Israele non reagiscono perdono inevitabilmente di credibilità nella regione e a livello internazionale; se reagiscono rischiano un conflitto aperto con la maggiore potenza militare della regione. Due mosse entrambe svantaggiose.
Esistono alternative? Al momento la partita è decisamente in corso; il dramma è che, a meno di clamorose iniziative internazionali, si intravedono meglio gli svantaggi che le soluzioni.
L’unica cosa chiara è che le mobilitazioni a sostegno del popolo palestinese nei nostri paesi devono proseguire, crescere di intensità e di articolazione per indebolire o annullare la complicità dei governi con gli apparati dello stato israeliano.
****
(1) Zugzwang è una parola tedesca che significa “obbligato a muovere”. Negli scacchi si riferisce alla situazione in cui un giocatore si trova in difficoltà perché qualsiasi mossa faccia si troverà in svantaggio nei confronti dell’avversario.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Ildauno
I governi occidentali, di qualsiasi estrazione siano, sono servi degli anglofoni. La mossa giusta sarebbe che si dissociassero e attuassero iniziative che tali da isolare politicamente gli USA, invece lo fanno solo con la Russia.
Enzo Barone
Le manifestazioni sono importanti ma insufficienti. Proprio in ragione di quanto encomiabilmente esposto deriva l’assoluta, cogente necessità di fermare lo Stato ebraico impedendogli, ai sensi della legge internazionale spudoratamente ignorata, di proseguire nella sua follia criminale.