Sciences Po occupata: «Basta bandi con Israele»
Filippo Ortona – Parigi
Avvolto in una kefiah, un ragazzo poggia le mani sulla ringhiera della finestra al primo piano della sede centrale di Sciences Po, la prestigiosa università dell’élite parigina. È uno dei tanti studenti che da giovedì sera occupano lo stabilimento in pieno quartiere latino.
Le sue mani poggiano su due grandi lettere ricavate da grossi fogli di carta improvvisati: «C» e «M», a comporre con altri fogli la scritta «COMPLICE» che attraversa le finestre dello stabilimento della rue Saint-Guillaume, decorate dagli occupanti con i colori della Palestina.
Il ragazzo guarda sotto: sulla strada, centinaia di persone sono accorte non appena si è sparsa la notizia. I cancelli di ferro nero all’ingresso sono sepolti sotto i pallet, i bidoni dell’immondizia e le biciclette in bike-sharing, un patchwork barricadero che è il marchio di fabbrica degli studenti francesi quando si tratta di bloccare una facoltà o una scuola; il logo di Sciences Po, che di solito troneggia in cima, è appena riconoscibile, coperto da una bandiera palestinese.
Echeggiando quello che succede nei campus americani, Sara, studentessa in master a Sciences Po, spiega che gli studenti vogliono una riunione con l’amministrazione e che quest’ultima «sospenda i partenariati con le università israeliane: è stato fatto con la Russia per l’invasione dell’Ucraina, vogliamo che venga fatto per Israele e che vengano sospese le inchieste disciplinari nei confronti degli studenti pro-Palestina».
«Viviamo non dico alla giornata, ma al minuto proprio – dice – Ci sono talmente tanti fattori che possono far continuare o fermare la mobilitazione…».
Poi si ferma e si volta verso le finestre della facciata al primo piano: una ragazza avvolta in una kefiah rossa urla dentro il megafono che l’amministrazione di Sciences Po ha minacciato la sospensione degli studenti occupanti, rifiutando di accedere persino alla richiesta di intavolare una discussione con la presidenza.
«Voilà, si resta», dice Sara voltandosi. Spiega che mercoledì, dopo un primo tentativo di occupazione in un altro campus di Sciences Po a Parigi, «alle 23 ci hanno avvertito che era arrivata la polizia e mezz’ora dopo l’antisommossa è entrata nell’università e ci ha sgomberato».
Le immagini hanno fatto il giro dei social e il giorno dopo centinaia di studenti scandalizzati dall’ingresso della polizia nell’università hanno risposto all’appello per tornare a mobilitarsi.
«La sera stessa abbiamo bloccato di nuovo, ma questa volta alla sede centrale», dice. Attorno a lei, sul marciapiede di fronte all’ingresso, decine e decine di giovani – chi studente a Sciences Po, chi in altre università parigine – sciamano attorno a computer portatili, portano cibo, discutono, si passano megafoni, in un parola: si organizzano.
Un’assemblea prende corpo, sotto lo sguardo entusiasta di Rima Hassan, accorsa in tutta fretta. La 32enne giurista franco-palestinese, candidata alle elezioni europee con La France Insoumise, è stata recentemente convocata dalla polizia per «apologia del terrorismo» assieme alla presidente del gruppo parlamentare Mathilde Panot, per il loro sostegno alla causa palestinese.
«Sono commossa – dice Hassan al manifesto – Sono dei giovani talmente maturi, strutturati, sono mesi che costruiscono spazi di riflessione sulla lotta palestinese ed è il rifiuto che gli oppone l’amministrazione ad aver provocato quest’occupazione…È una cosa che dà la temperatura di tutta una generazione, e per me è importante dire che sono giovani che meritano la nostra fiducia».
L’assemblea continua sotto le finestre di Sciences Po. Un ragazzo prende la parola a nome del collettivo Tsedek!, un gruppo di giovani ebrei anti-sionisti.
«Noi ebrei dobbiamo dire che non saremo la cauzione per il fascismo», urla tra gli applausi. Si chiama Gabriel ed è studente alla Sorbona. «A Sciences Po ci sono molti studenti stranieri, che sono meno sensibili all’equazione giudaismo uguale sionismo», ci dice. Per Gabriel – che ha «un pezzo di famiglia in Israele» – questa presenza internazionale ha favorito l’emergere di una mobilitazione proprio a Sciences Po.
«Per questi studenti internazionali, è più semplice mobilitarsi per la Palestina, perché all’estero e soprattutto nei paesi anglosassoni è stato fatto un lavoro politico per dire che Israele non parla a nome di tutti gli ebrei e che il governo israeliano ci strumentalizza, ci mette in pericolo per giustificare una politica genocidaria».
Il presidio sotto ai balconi, nel frattempo, continua a ingrandirsi, mano a mano che arrivano le persone. Poi, verso le otto, uno squadrone di Crs – la polizia antisommossa – circonda il sit-in.
In serata la vittoria del movimento: l’amministrazione ha accettato di discutere con gli studenti in un incontro pubblico, il prossimo giovedì, delle loro richieste, tra cui un’indagine sui partenariati attivi con università e organizzazioni che sostengono Israele.
Accolta anche l’altra richiesta: sono sospesi i procedimenti disciplinari presi nel corso dell’ultima settimana contro chi si era mobilitato.
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Berlino, spazzata via la tendopoli per la Palestina
Sebastiano Canetta Berlino
Il deputato berlinese della Linke, Ferat Koçak, steso a terra, lacrima per il doppio dolore: la ginocchiata che appena incassato durante il blitz della polizia e l’amara constatazione dell’«incredibile durezza con cui sono stati trascinati via pacifici manifestanti».
Venti attivisti pro-Palestina seduti sul prato con le gambe incrociate contro 150 agenti della Landespolizei in giubbotto antisommossa è difficile da rubricare come “scontro”, mentre non si vede neppure la scintilla tale da giustificare l’urgente e immediato intervento delle forze dell’ordine.
«Non abbiamo avuto un motivo specifico per sgomberare la tendopoli delle organizzazioni pro-palestinesi davanti al Bundestag. Si è trattato di una serie di violazioni di legge», ammette il portavoce della polizia senza dettagliare la lista di «33 reati», se non il divieto di assembramento (negato appena tre giorni fa), il mancato rispetto delle regole sul verde pubblico e, ovviamente, l’incitamento all’odio antisemita: accusa che in Germania scatta in automatico in caso di proteste pro-Palestina.
Dalla ministra dell’interno del Land, Iris Spranger, arriva l’imprescindibile copertura politica all’operazione di «evacuazione» del presidio di 19 tende montate fra la Cancelleria e il palazzo del Reichstag per protestare – anzitutto – contro l’invio di armi tedesche al governo di Tel Aviv, cresciuto esponenzialmente dopo il 7 ottobre.
«Decisione giusta. La polizia ha il mio pieno sostegno», taglia corto la senatrice della Spd. Così tutto, formalmente, rimane confinato nel recinto dell’ordinaria amministrazione dell’ordine pubblico.
Per i media si tratta di un fatto meramente locale. Eppure accade in pieno giorno nel luogo più frequentato dai turisti di Berlino e il deputato Koçak non è solo un parlamentare del Landtag in carica ma anche il noto politico di sinistra di origine curda da anni nel mirino degli estremisti neonazisti. Una persona da proteggere, in teoria.
Respinti con forza e anche i dubbi sul singolare tempismo dello sgombero davanti al Bundestag, così speculare alla parallela repressione oltre confine. Secondo le autorità berlinesi è casuale si verifichi esattamente lo stesso giorno delle proteste nelle università in Francia e Usa, e poco importa se l’ipotesi di sincronicità viene rafforzata nientemeno che dalle dichiarazioni ufficiali della polizia escludenti l’urgenza del blitz immediato.
«I manifestanti avrebbero potuto pur sempre reiterare i reati di cui sono già accusati. Non potevamo correre questo rischio», è il corollario per spegnere ogni residua perplessità sul caso divenuto ormai solo materia per il tribunale distrettuale.
Fin qui l’autorità. Poi ci sono i berlinesi. Vero insormontabile «problema» per chi governa la capitale al di là degli epicentri della protesta nei quartieri caldi (sempre e comunque definiti «turchi» nella perenne attesa di definirne la reale l’identità) come Neukölln, Kreuzberg, Wedding.
Mentre i sondaggi sull’opinione pubblica pur formulati come «la guerra di Hamas contro Israele» segnalano il disagio generalizzato, mai così profondo, nei confronti del «senza se e senza ma» sui cui resta incardinata l’idea di Israele come ragione di Stato della Bundesrepublik.
Ormai a protestare sono anche gli «Schiki-miki», i radical-chic dei quartieri alla moda come Prenzlauer Berg, con gli adesivi con le angurie incollati al parafango delle bici, oltre alle migliaia di persone che ogni giorno disobbediscono al divieto di esibire la kefiah. Dagli studenti alle «mamme col passeggino» che qui da sempre sono il termometro più affidabile per misurare cosa pensa la «gente comune».
* da il manifesto
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