Sono circa una trentina, negli Stati Uniti, gli atenei che vedono fiorire accampamenti in solidarietà con la Palestina.
La scintilla che ha incendiato la prateria è scoccata il 17 aprile alla Columbia, al centro di New York, ma molte altre università hanno raccolto il testimone e rilanciato l’iniziativa per cercare di porre fine al genocidio palestinese, interrompere le relazioni con le aziende implicate nella macchina da guerra sionista e opporsi al sostegno statunitense allo “Stato ebraico”.
La protesta si rafforza e si estende, nonostante l’intervento delle varie “forze per la sicurezza” che hanno proceduto ad arresti di massa.
Come è stato fatto notare, sono state impiegate forze di polizia che spesso o hanno ricevuto addestramento in Israele o da personale israeliano. Corpi il cui modus operandi è stato rivelato al mondo e messo in discussione dalla prima, e sopratutto dalla seconda, ondata del movimento #BlackLiveMatters.
Secondo una stima del New York Times 108 manifestanti sono stati arrestati il 18 aprile dalla New York City police a Manhattan, 28 alla Emory University di Atlanta (dopo lo sgombero con gas urticanti), 93 alla University of South California, a Los Angeles, dopo uno sgombero violento; 108 sono stati arrestati all’Emerson College di Boston, 57 all’University of Texas di Austin. E l’elenco potrebbe continuare…
Nella stima fatta dal NYT il 24 aprile, il numero degli arrestati è già molto oltre i 400. La Reuters, in un calcolo aggiornato al 26 aprile, afferma che sono più di 550.
Le azioni poliziesche sono state condannate da Human Right Watch e dalla American Civil Liberties Union.
Le accuse di “antisemitismo” rivolte agli studenti – fatte proprie dallo stesso premier israeliano che in un discorso sembra voler dettare l’agenda politica all’amministrazione statunitense anche riguardo di ciò che succede nelle università nord-americane – sono piuttosto paradossali considerato che, tra l’altro, tra gli animatori della protesta ci sono molti studenti di origine ebraica dell’associazione Jewish Voice of Peace.
La scorrettezza semantica – si dovrebbe usare il termine “antiebraico” e non “antisemita”, visto gli arabi sono “semiti” – è tutt’altro che casuale, ma rivela una forte intenzionalità politica. E’ infatti chiaro che in Occidente qualsiasi critica alla politica israeliana nei confronti dei palestinesi viene ormai definita tale per attivare un dispositivo criminalizzante.
Negli Stati Uniti, oltretutto, una legge votata in maniera bipartisan ha equiparato l’antisionismo (la critica radicale ad un progetto politico colonialista) all’antisemitismo (l’odio per una religione e/o un popolo).
L’intellettuale ed attivista statunitense di origini ebraiche Naomi Klein, in una dimostrazione a Brooklyn, di fronte a centinaia di ebrei di New York ha recentemente affermato: “Non abbiamo bisogno o non vogliamo il falso idolo del sionismo. Vogliamo essere liberi da un progetto che commette il genocidio nei nostri nomi”.
Più chiara di così…
Il canale d’informazione indipendente Democracy Now ha intervistato diversi studenti e sturdentesse di origini ebraiche attive in queste proteste.
Ad esempio Sarah King, arrestata alla Columbia e “sospesa”, oltre ad essere cacciata dal dormitorio universitario dove alloggiava, senza più la possibilità di consumare i pasti e infine bandita dal campus.
Ma si tratta di una “punizione collettiva” nei confronti molti studenti mobilitati, e sa di vera e propria rappresaglia da parte della governance di istituti presentati come il fiore all’occhiello del “libero” Occidente, dove studenti pagano rette da capogiro che diventano spesso lucrosi investimenti.
“Ora stanno minacciando di mandare la National Guard” – afferma Sara – “rischiando un’altra Jackson State, un’altra Kent State, dove degli studenti sono stati uccisi per l’intervento della National Guard contro di loro”. Si riferisce, non casualmente, alle stragi avvenute durante il movimento contro la guerra in Vietnam, negli anni ’60 e ’70.
A Kent State, in Ohio, il 4 maggio del 1970, la Guardia Nazionale uccise 4 studenti e ne ferì altri nove. Un episodio poi reso celebre anche dalla canzone Ohio di Crosby, Stills, Nash & Young.
Nel forse meno conosciuto massacro di Jackson State, nel Mississippi, il 15 maggio dello stesso anno, la polizia aprì il fuoco su studenti e passanti, uccidendo due studenti afro-americani e ferendone 12.
Sara continua più avanti affermando che: “La lotta studentesca per la liberazione della Palestina è parte di una coalizione interraziale – molti studenti sono ebrei, islamici, afro-americani, latino-americani, ed arabi – che lavorano insieme per la causa della libertà”.
Oltre a Jewish Voice for Peace, creata nel 1996, sono attive le oltre 200 sezioni della coalizione Students for justice in Palestine, ed organizzazioni più recenti come IfNoNow, un gruppo di ebrei di sinistra nato nel 2014…
A fare le spese della repressione anche alcuni professori, soprattutto donne, come Caroline Fohlin a Emory, specialista riconosciuta in storia del sistema finanziario, e la filosofa Noëlle McAfee.
Ma l’impressionante cacofonia dei media mainstream statunitensi sembra voler distogliere l’attenzione dai motivi reali della protesta.
Testimonia uno studente – che come gli altri preferisce restare anonimo – alla rete di informazione Al Jazeera: “Siamo qui per Gaza. Gaza è il motivo per cui stiamo facendo questo”.
Alle motivazioni legate alla questione palestinese se ne sono aggiunte altre, come la fine delle rappresaglie contro gli studenti pro-palestinesi e la richiesta di non inviare forze dell’ordine nei campus.
Si è creata una sorta di “cortocircuito” tra ciò che gli istituti insegnano e ciò che è permesso fare agli studenti, spiega un altro anonimo studente alla rete qatariota: “Come studenti a cui è stato insegnato cosa è il colonialismo, cosa sono i diritti dei popoli nativi, quali siano stati gli effetti dell’azione non-violenta nella storia, sarebbe stato estremamente ipocrita se non avessimo agito”.
Ed agire nel “ventre della bestia” per il boicottaggio accademico ha un significato tutto particolare.
Alcuni studenti del prestigioso MIT, a Cambridge (Massachusetts), hanno pubblicato i nomi dei ricercatori i cui lavori sono finanziati dal ministero della difesa israeliano.
Ad Atlanta – città per metà afro-americana – gli studenti esigono la fine dei programmi che legano certi centri di studi universitari, specializzati nel “mantenimento dell’ordine”, con le polizie statunitensi e israeliane.
A Princeton vengono denunciate gli investimenti di questa università, attraverso dei fondi finanziari, in società militari che producono droni, F-35 o dispostivi di riconoscimento facciale utilizzati da Israele.
Insomma, a essere messa sotto accusa è un modello di formazione e di ricerca universitario intrinsecamente collegato al military-industrial complex storicamente interconnesso con l’esercito di Israele.
Gli USA sostengono annualmente Israele con 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari, e proprio Biden ha firmato un pacchetto di aiuti che oltre all’Ucraina e a Taiwan, fornisce 17 miliardi di sostegni supplementari all’entità sionista impegnata nel genocidio a Gaza.
É chiaro che di fronte ad un genocidio che ha assunto anche il profilo dello “scolasticidio” non si poteva stare indifferenti. La definizione è stata formulata in un parere emesso da esperti dell’ONU il 18 aprile, e tiene conto dei 5.500 studenti, 261 insegnanti e 95 docenti universitari fin qui uccisi a Gaza, dove l’80% delle scuole sono state distrutte o danneggiate.
Non si poteva restare indiferenti, specie se le aziende che ne traggono profitto sono partner delle università statunitensi in cui studiano i giovani nord-americani.
Quello che sta succedendo nelle università statunitensi sta ora giustamente ricevendo un’attenzione a livello mondiale; ed il parallelo con il movimento contro la guerra in Vietnam è quasi scontato.
Alcuni siti di informazione alternativi – come Mintpress – hanno elaborato degli efficaci “fotomontaggi” assemblando le occupazioni di allora e quelle di oggi alla Columbia, Minnesota, Yale, Standford.
Ma è lo stesso scrittore ed editorialista del NYT, Charles Blow, ad affermare che “il fantasma del movimento contro la guerra del 1968 sta tornando”.
Oggi come allora gli studenti mettono in discussione i propri “privilegi” – ai tempi erano esclusi dalla leva militare, a differenza dei loro coetanei più poveri – per protestare contro il ruolo del governo e la complicità delle proprie università nel complesso militare industriale.
Oggi come allora è la “bancarotta morale” delle élite politiche occidentali; ed in particolare della leadership del Partito Democratico, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali che si terranno a novembre.
“Biden ha sviluppato un incendio”, ha commentato sul suo account X Edward Snownden, mentre la destra repubblicana – Trump in prima fila – vomita tutto il suo odio contro gli studenti.
Come ha detto la storica militante e studiosa Angela Davis, riferendosi alle proteste dei campus: “gli studenti hanno sempre indicato la via”.
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Mauro
… Fragole e sangue…