Menu

Usa: militarizzazione delle università e creazione del “Nemico Interno”

Se c’è un momento particolarmente solenne nel calendario universitario statunitense quello è maggio, il mese delle cerimonie di laurea, immortalate nei film in cui un ospite più o meno famoso pronuncia un discorso di congratulazioni e gli studenti lanciano in aria il loro cappello, tra gli applausi delle proprie famiglie.

Si tratta di eventi quasi sacrali, per i quali gli studenti si preparano altrettanto – se non di più – che per i propri esami, e che durante la pandemia si sono dovuti svolgere solo virtualmente.

Quest’anno, all’ombra delle proteste pro-palestinesi nei campus, alcune istituzioni hanno scelto di cancellare o rinviare questi eventi. Altre, la maggior parte, hanno deciso di militarizzare in maniera permanente i campus.

Finora sono stati arrestati più di 2.000 studenti in quasi 40 campus in 25 Stati del Paese – ma è una stima “per difetto” – da quando la polizia di New York ha effettuato i primi sgomberi alla Columbia University, a metà aprile.

Lo smantellamento dei principali accampamenti di solidarietà con Gaza da parte della polizia non ha fermato le proteste degli studenti. Al contrario, ogni giorno nuove facoltà e scuole si uniscono alla mobilitazione, nonostante gli avvertimenti dei rettori e la minaccia di intervento delle forze di sicurezza, mentre il movimento ha continuato a svilupparsi in Francia, dopo che si era già manifestato in Italia.

Gli agenti del Dipartimento di Polizia di New York (NYPD) hanno arrestato 56 persone lo scorso venerdì mattina durante lo sgombero di due accampamenti filo-palestinesi alla New York University (NYU, 13) e alla New School (43), visto che le autorità universitarie avevano chiesto il loro aiuto per disperdere gli “accampamenti illegali“.

Trattandosi di campus privati, infatti, la polizia non può agire di propria iniziativa.

Secondo i funzionari dell’università, gli sgomberi hanno provocato “scontri minimi” tra agenti e studenti. Anche la New School ha adottato lezioni a distanza questo venerdì. Un giorno prima, un tentativo di manifestazione alla Fordham University, sempre a Manhattan, è stato impedito dalla polizia.

I funzionari della New School hanno richiesto l’intervento dopo che i manifestanti avevano “invaso” l’atrio dell’edificio principale e una sala di residenza, creando un accampamento che impediva agli studenti di entrare nei loro dormitori.

Siamo stati molto tolleranti nei confronti del diritto alla libertà di espressione degli studenti, a patto che non interferissero con la missione educativa“, ha dichiarato venerdì il rettore ad interim Donna Shalala. Fin quando non si vede, insomma…

La decisione è dovuta, ha sottolineato, “alla condotta degli studenti, non al loro discorso”, condotta comunque assolutamente in modo pacifico.

Una tensione simile è stata vissuta dalle autorità del campus di Los Angeles dell’Università della California (UCLA). Dapprima tolleranti nei confronti della protesta, hanno dichiarato di essere state costrette a richiedere l’intervento della polizia quando la protesta pacifica ha rischiato di deragliare a causa dell’irruzione violenta di un gruppo di contro-dimostranti filo-israeliani, che hanno abbattuto le barriere e attaccato gli studenti filo-palestinesi riuniti con la polizia che – stranamente – restava a guardare.

L’università rivale, la University of Southern California, ha annunciato la cancellazione della sua principale cerimonia di laurea il 10 maggio, dopo aver rifiutato di far tenere un discorso alla sua ‘studentessa dell’anno’, Asma Tabassum, musulmana, durante l’evento. La scuola ha invece promesso “nuove attività e celebrazioni” per celebrare la fine della carriera degli studenti dell’ultimo anno.

Alla Columbia, diventata simbolo delle proteste, la rettrice Nemat Minouche Shafik ha promesso che la cerimonia di consegna dei diplomi si svolgerà come previsto, il 15. Ma, in seguito agli sgomberi violenti, la polizia resterà nel campus per almeno due giorni dopo la manifestazione, fino al 17.

Una cerimonia militarizzata, quindi, che cozza non poco con l’immagine del ritorno alla normalità, come anche nell’Università del Michigan.

In quest’ultimo, in uno degli Stati con la maggior presenza di cittadini di origine araba, dove gli studenti hanno creato un accampamento sui prati, si terrà la cerimonia di laurea il 10, ma circondata da speciali misure di sicurezza.

Le celebrazioni di laurea sono state un luogo di libera espressione e di protesta pacifica per decenni, e probabilmente continueranno ad esserlo“, ha dichiarato l’istituzione in un comunicato. Ma, come parte delle misure, sarà allestito un luogo specifico per la protesta all’esterno della zona della cerimonia, saranno istituiti punti di ispezione per l’ingresso all’evento e sarà vietato l’ingresso di bandiere o manifesti. Un gruppo di volontari monitorerà l’evento e la Polizia di Stato garantisce “assistenza”.

I campus si stanno organizzando per le imminenti cerimonie di laurea, mentre le cancellerie e i dipartimenti di polizia ipotizzano sempre più che molti dei manifestanti siano estranei. “Agitatori esterni“, come li ha definiti il sindaco di New York Eric Adams, in teoria un “democratico”.

Una vera e propria invenzione, su cui torneremo, più avanti, in maniera più approfondita per capire come avvenga la creazione del “Nemico Interno”.

Tra i quasi 300 arrestati durante lo sgombero di martedì sera nei campus della Columbia e della CUNY, quasi la metà non aveva legami con l’università, hanno dichiarato giovedì “fonti” della polizia di New York con strettissimi legami con lo Stato d’Israele.

Nel frattempo, è stata chiarita la dinamica di un altro incidente durante lo sgombero dell’edificio della Columbia occupato: lo sparo definito “accidentale” dalla pistola di un agente di polizia. Nessuno è rimasto ferito e il proiettile è finito incastrato nel muro del primo piano dell’edificio.

Il piano inclinato dell’amministrazione democratica

L’attuale amministrazione nord-americana vive una palese doppia difficoltà: da un lato non riesce a incidere sul piano politico-diplomatico in Medio-Oriente, perdendo così il ruolo di game changer, e dall’altro ha smarrito la capacità di gestione del dissenso interno.

Criticato dai giovani progressisti per la sua politica di sostegno a Israele e accusato dalla destra repubblicana di lasciar prosperare il caos nelle università, il presidente americano si trova ad affrontare una situazione politica estremamente delicata per così dire “tra incudine e martello”.

Da un lato paga la mancata tutela della libertà di espressione e dall’altra mostra di condividere una concezione estremamente estremamente reazionaria della “tutela della legge”.

Di fronte alla collisione tra questi due principi al’interno de campus americani, Joe Biden ha fatto una scelta molto precisa.

Il 2 maggio, il presidente americano ha finalmente tenuto un discorso in risposta alla mobilitazione contro la guerra a Gaza. “Non siamo una nazione autoritaria in cui le persone vengono messe a tacere e il dissenso viene schiacciato“, ha detto, prima di insistere su ciò che però considerava essenziale: “L’ordine deve prevalere”.

Nel discorso del presidente americano è mancata del tutto una parola importante. Un nome. Un riferimento indispensabile, visto che è all’origine del movimento studentesco: Gaza.

Criticando il rischio di “disordine” e “caos“, dopo 2.000 arresti in tutto il Paese, Joe Biden ha scelto di non fare distinzione tra la dimensione di sicurezza delle proteste negli Stati Uniti e la guerra stessa nell’enclave palestinese. In diverse occasioni, la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha usato appositamente un’espressione significativa: “Un momento doloroso”.

Gli Stati Uniti stanno attraversando “un momento doloroso“, come un lutto, un terremoto o qualsiasi altra esperienza spiacevole che non sia politica e senza identificarne le cause.

Ma questo movimento è politico. È il seguito del voto di protesta (“uncomitted”, cioè schede bianche) alle primarie democratiche, che ha raggiunto punte elevate in Michigan, Minnesota e Wisconsin.

La Casa Bianca attende la fine dell’anno accademico sperando che la situazione torni alla normalità. Per il momento, evita un dibattito sulle cause. Si concentra solo sui metodi utilizzati dai manifestanti e sul modo in cui si esprimono. La richiesta di trasparenza che gli studenti mobilitati rivolgono alle loro università – sui loro investimenti ritenuti compromettenti – è in realtà rivolta anche all’amministrazione Biden.

Dicendo che “l’ordine deve prevalere“, Joe Biden vuole inviare diversi messaggi. Il primo riguarda la sua costante e convinta vigilanza contro la critica nei confronti della Stato d’Israele, che viene strumentalmente definita “antisemitismo”. Nel dicembre 2022 è stata istituita una task force che coinvolge diversi organi federali per affrontare la questione. Il 7 maggio, il Presidente parlerà al Memoriale dell’Olocausto di Washington della necessaria “lotta contro l’antisemitismo“.

Il secondo messaggio è il suo rifiuto – per convinzione e per calcolo, prima delle elezioni presidenziali di novembre – di essere caricaturizzato come il leader di un Partito Democratico lassista, che tollera “gli eccessi” e incoraggia persino la violenza nei campus.

Joe Biden teme di essere visto come il “candidato del caos”. Il suo team è consapevole dell’impatto negativo della violenza urbana sul movimento Black Lives Matter, nel 2020, tra gli elettori conservatori e indipendenti. A questo si aggiunge la crisi migratoria al confine con il Messico, che permette ai media conservatori di dipingere un quadro apocalittico: quello di “un’invasione” e un afflusso massiccio di criminali nel Paese.

Il 1° maggio, in occasione di un ricevimento per la campagna elettorale a Washington, ha difeso il modello americano. “Perché la Cina è in una situazione di stallo economico? Perché il Giappone è in difficoltà? E la Russia? E l’India? Perché sono xenofobi. Non vogliono i migranti. I migranti sono ciò che ci rende forti“.

Questi due indicatori chiave – la criminalità e l’immigrazione clandestina – sono ora punti deboli per Joe Biden. Tuttavia, le statistiche sulla criminalità offrono un quadro più sfumato, nonostante l’assenza di un censimento uniforme per tutti gli Stati americani. Esse mostrano un calo dei crimini violenti, in particolare degli omicidi, negli ultimi due anni. Ma la percezione della maggioranza della popolazione è opposta, offrendo alla destra un tema elettorale molto favorevole.

Una “percezione” artefatta su cui i Repubblicani possono speculare.

I repubblicani sfruttano anche la mobilitazione nei campus, negando ogni legittimità ai manifestanti, che vengono associati tout court alla “delinquenza“.

Cercano di riabilitare “l’ordine contro il caos”, anche se continuano a difendere i “rivoltosi” di Capitol Hill del 6 gennaio. Questo stesso Partito Repubblicano, con un “doppio standard”, elogia le forze dell’ordine per gli arresti nei campus, e non ha smesso di attaccare le istituzioni – in particolare la magistratura e la polizia federale (FBI) – per negare o relativizzare un tentativo di colpo di Stato in vitro e continuare diffondere sospetti sulla legittimità delle elezioni del 2020.

In questa situazione precaria, Joe Biden ha un’ultima preoccupazione fondamentale: mantenere la sua posizione filo-israeliana.

Nonostante Benyamin Netanyahu e i suoi alleati fascisti ebraici, e nonostante l’esasperazione di alcuni giovani americani di sinistra, Joe Biden non si muove di un millimetro. La sua priorità è quella di ottenere un accordo su un cessate il fuoco temporaneo, che consenta il rilascio di una trentina di ostaggi nelle mani di Hamas e quindi di vantare “un successo”.

Per la Casa Bianca questo è il preludio di un altro ciclo. Ma la speranza di una nuova fase, condizionata e graduale, sembra estremamente fragile. Il suo esito sarebbe la normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele, pensata come un chiaro passo verso una “soluzione a due Stati” con i palestinesi.

Ma questo, vista l’evidente complicità nord-americana nell’attuale genocidio palestinese e la perdita di “peso politico” nella regione, continua a restare “wishfull thinking” e nulla più.

Torniamo ora sulla retorica sull’“agitatore esterno”, perché è significativa del livello della menzogna con cui viene creata un’immagine artefatta del “nemico interno” per criminalizzare il dissenso.

Chi è l’agitatrice esterna Nahla Al-Arian?

Nahla Al-Arian ha perso più di 200 parenti negli attacchi di Israele a Gaza. Poi Eric Adams ha detto che era lei il motivo per cui la polizia ha fatto irruzione alla Columbia.

Nahla Al-Arian ha vissuto un incubo negli ultimi sette mesi, osservando da lontano la guerra di Israele nella Striscia di Gaza. Come molti palestinesi americani, la 63enne insegnante di quarta elementare in pensione di Tampa Bay, in Florida, ha sopportato sette mesi di continui messaggi WhatsApp sulla morte dei suoi parenti.

Vedete, la famiglia di mio padre è originaria di Gaza, quindi è una famiglia numerosa. E non sono solo a Gaza City, ma anche a Deir al Balah e Khan Younis, in altre zone“, ha detto Al-Arian ad un giornalista di The Intercept che ha svolto un’inchiesta approfondita sulla vicenda.

Di recente, lo stillicidio di orrori è diventato un’alluvione: “Abbiamo iniziato con 27 persone, poi abbiamo perso il conto fino a quando ho ricevuto un messaggio da un mio parente che diceva che erano morte almeno 200 persone“.

La catastrofe ha fatto da sfondo alla visita di Al-Arian alla Columbia University di New York, nelle scorse settimane.

Al-Arian ha cinque figli, quattro dei quali sono giornalisti o registi. Il 25 aprile, due delle sue figlie, Laila e Lama, entrambe pluripremiate giornaliste televisive, hanno visitato l’accampamento creato dagli studenti della Columbia per opporsi alla guerra a Gaza.

Laila, produttrice esecutiva di Al Jazeera English, vincitrice di un Emmy e di un George Polk Award, si è laureata alla scuola di giornalismo della Columbia. Lama ha ricevuto il prestigioso premio Alfred I. duPont-Columbia 2021 per il suo reportage per Vice News sull’esplosione del 2020 al porto di Beirut.

Le due sorelle si sono recate alla Columbia come giornaliste per visitare il campus e Nahla si è unita a loro.

Naturalmente mi sono aggregata. Perché avrei dovuto stare in albergo da sola? E volevo davvero vedere quei ragazzi. Mi sentivo così giù“, ha detto. “Piangevo ogni giorno per Gaza, per i bambini uccisi, per le donne, per la distruzione della città di mio padre, quindi volevo sentirmi meglio, sai, vedere quei bambini. Ho sentito parlare molto di loro, di quanto siano intelligenti, di quanto siano organizzati, sapete? Così ho detto: andiamo con te. Così sono andata“.

Nahla Al-Arian è rimasta nel campus per meno di un’ora. Si è seduta ad ascoltare una parte di un teach-in e ha condiviso un po’ di hummus con le sue figlie e alcuni studenti. Poi se n’è andata, provando un barlume di speranza nel fatto che le persone – almeno questi studenti – si preoccupassero davvero delle sofferenze e delle morti inflitte alla sua famiglia a Gaza.

Non ho insegnato loro nulla. Sono loro che hanno insegnato a me. Sono loro che mi hanno dato speranza“, ha ricordato. “Mi sono sentita molto meglio quando sono andata lì perché ho sentito che quei ragazzi sono davvero molto ben informati, molto istruiti. Sono la coscienza dell’America. Si preoccupano del popolo palestinese che non hanno mai visto o conosciuto“.

Suo marito ha postato sul suo profilo Twitter una foto di Nahla, seduta sul prato della tendopoli eretta dagli studenti. “Mia moglie Nahla è solidale con gli studenti coraggiosi e molto determinati della Columbia University“, ha scritto. Nahla ha lasciato New York, ispirata dalla visita alla Columbia, ed è tornata in Virginia per stare con i nipoti.

Pochi giorni dopo, quell’unico tweet del marito avrebbe spinto Nahla Al-Arian al centro di una narrazione tossica promossa dal sindaco di New York e dai principali media. È diventata l’esempio del pericoloso “agitatore esterno” che stava addestrando gli studenti della Columbia.

Secondo il sindaco Eric Adams, la presenza di Nahla è stata il “punto di svolta” nella sua decisione di autorizzare le incursioni di tipo militare nel campus.

Gli Stati Uniti contro Al-Arian

Il 20 febbraio 2003, il marito di Nahla, Sami Al-Arian, professore all’Università della Florida del Sud, è stato arrestato e incriminato con 53 capi d’accusa per aver sostenuto il gruppo di resistenza armata della Jihad islamica palestinese. Il PIJ era stato designato dal governo degli Stati Uniti come organizzazione terroristica e le accuse contro Al-Arian avrebbero potuto portarlo in prigione per più ergastoli, più 225 anni.

Si trattava di un caso centrale della “guerra al terrorismo” interna dell’amministrazione di George W. Bush. Quando John Ashcroft, il noto procuratore generale di Bush, annunciò l’incriminazione, descrisse lo studioso della Florida come “il leader nordamericano della Jihad islamica palestinese, Sami Al-Arian“.

Tra le accuse contro di lui c’era la “cospirazione per uccidere o mutilare persone all’estero”, in particolare in Israele, ma i procuratori hanno ammesso apertamente che Al-Arian non aveva alcun legame con la violenza. Era una figura ben nota e profondamente rispettata nella comunità di Tampa, dove lui e Nahla hanno cresciuto la loro famiglia.

Come molti altri palestinesi, era anche un critico tenace del sostegno degli Stati Uniti a Israele e della nascente “guerra globale al terrorismo“. Il suo arresto avvenne pochi giorni prima che gli Stati Uniti invadessero l’Iraq, guerra alla quale Al-Arian si era pubblicamente opposto.

Il caso Al-Arian è stato, in sostanza, un attacco politico condotto dal Dipartimento di Giustizia di Bush come parte di un più ampio assalto ai diritti dei musulmani negli Stati Uniti.

Il governo ha lanciato una campagna, ripresa dai media, per dipingere Al-Arian come un leader del terrorismo in un momento in cui l’amministrazione Bush stava intensificando la cosiddetta guerra globale al terrorismo all’estero e in cui i musulmani negli Stati Uniti erano sottoposti a molestie, sorveglianza e abusi.

Il caso legale contro Al-Arian era inconsistente, e i pubblici ministeri hanno cercato in gran parte di dipingere il suo discorso protetto dal Primo Emendamento e le sue attività di beneficenza come “terrorismo”.

Il processo contro Al-Arian, residente permanente negli Stati Uniti, non è andato bene per i procuratori federali. Nel dicembre 2005, dopo un processo durato sei mesi, la giuria lo ha assolto da otto dei capi d’accusa più gravi e si è pronunciata per 10-2 a favore dell’assoluzione per gli altri nove.

Il giudice ha chiarito di non essere soddisfatto di questo risultato e i procuratori erano intenzionati a ridiscutere il caso. Al-Arian aveva già trascorso due anni in carcere senza alcuna condanna e si trovava di fronte alla prospettiva di altri anni.

Di fronte a questa realtà e al peso che il processo contro di lui aveva avuto sulla sua famiglia, Al-Arian accettò di patteggiare. Nel 2006 si è dichiarato colpevole per l’accusa di aver fornito sostegno non violento a persone che il governo riteneva affiliate al PIJ.

Come parte dell’accordo, Al-Arian avrebbe scontato una breve pena e, con la revoca della residenza, avrebbe ottenuto un’espulsione accelerata. Durante il processo contro Al-Arian, l’accusa non ha mai fornito prove del suo coinvolgimento in atti di violenza.

Per i successivi otto anni, dopo il suo rilascio dal carcere nel 2008, Al-Arian è stato tenuto agli arresti domiciliari e di fatto sottoposto a ulteriori molestie legali, mentre il governo cercava di metterlo in quella che i suoi avvocati hanno definito una “trappola giudiziaria”, obbligandolo a testimoniare in un caso separato.

I suoi avvocati difensori hanno sostenuto che il procuratore federale del caso, incline a perseguire casi politici di alto profilo, aveva un pregiudizio anti-palestinese. Amnesty International sollevò il dubbio che Al-Arian fosse stato maltrattato in carcere e si trovò di fronte alla prospettiva di un’altra lunga e costosa battaglia giudiziaria. La saga si è poi protratta per altri anni prima che i pubblici ministeri chiudessero il caso e Al-Arian fosse espulso dagli Stati Uniti.

Questo caso rimane uno dei capitoli più preoccupanti della repressione della nazione dopo l’11 settembre“, ha scritto l’avvocato di Al-Arian, Jonathan Turley, nel 2014, quando il caso è stato ufficialmente archiviato.

Nonostante il verdetto della giuria e l’accordo raggiunto per consentire al dottor Al-Arian di lasciare il Paese, il Dipartimento di Giustizia ha continuato a lottare per la sua incarcerazione e per un processo in questo caso. Rimarrà uno dei casi più inquietanti della mia carriera in termini di azioni intraprese dal nostro governo“.

Il fatto che i procuratori federali abbiano approvato il patteggiamento di Al-Arian ha dato una chiara indicazione del fatto che il governo degli Stati Uniti sapeva che Al-Arian non era un vero e proprio terrorista, né un facilitatore del terrorismo, né un qualsiasi tipo di minaccia.

Al-Arian e la sua famiglia hanno sempre sostenuto la sua innocenza e affermano che è stato preso di mira per le sue convinzioni politiche e per il suo attivismo a favore dei palestinesi. Nahla Al-Arian ha detto che si era opposto all’accordo.

Non voleva nemmeno accettarlo. Voleva andare avanti con un altro processo“, ha detto Nahla. “Ma a causa delle nostre pressioni su di lui, facciamo finta di niente [perché] alla fine, ce ne andremo comunque. Ecco perché“.

Sami e Nahla Al-Arian vivono ora in Turchia. A Sami non è permesso visitare i figli e i nipoti negli Stati Uniti, ma Nahla viene spesso a trovarli.

Campagna diffamatoria della polizia di New York

La notte delle incursioni alla Columbia, la polizia e altri funzionari della città hanno iniziato a far trapelare ai giornalisti che la moglie di un terrorista condannato si trovava nel campus, intrattenendosi con gli studenti manifestanti che avevano occupato la Hamilton Hall.

Un giornalista della CBS News ha twittato l’accusa, citando fonti del municipio. Durante una trasmissione della CNN nella tarda serata, la rete ha mostrato il tweet di Sami Al-Arian con la foto di Nahla. “Stasera apprendiamo che la moglie di un terrorista incriminato era nel campus“, ha detto la conduttrice Laura Coates, aggiungendo che “una fonte” aveva informato la CNN del tweet di Al-Arian.

Nahla stava dormendo in Virginia quando sono avvenuti i raid alla Columbia e neanche sapeva di star diventando una figura di riferimento per il Dipartimento di Polizia di New York e per i media. Nel cuore della notte, ha controllato il gruppo WhatsApp della sua famiglia, dove la figlia aveva postato il tweet della giornalista della CBS, poi cancellato, e uno spezzone del segmento della CNN che mostrava la sua foto.

Mi sono sentita tradita dalle autorità che ricorrono a questo tipo di trucchi; trucchi illegittimi, illegali, metodi vergognosi, vergognosi per attaccare quegli studenti“.

Mi sono svegliata alle 2 di notte e, purtroppo, ho preso il mio telefono e ho guardato. Sono rimasto scioccata. Non sono riuscita a dormire per due o tre ore“, ha detto. “Sono rimasta sveglia sentendomi molto depressa e molto scioccata. Non mi importa di me stessa. Mi importa di quegli studenti che ammiravo. Non volevo che accadesse loro del male per colpa mia o di altri. E mi sono sentita tradita dalle autorità che ricorrono a questo tipo di trucchi, trucchi illegittimi, illegali, metodi vergognosi, vergognosi per attaccare quegli studenti. Mi sono sentito tradito e arrabbiato. È questa l’America in cui crediamo, la democrazia?“.

In una serie di interviste rilasciate nelle due mattine successive, Adams, il sindaco di New York, ha ripetutamente menzionato la presenza di Al-Arian alla Columbia e ha detto che è stata una parte cruciale della sua decisione di autorizzare il raid militare nell’edificio. Come prova dell’esistenza di “agitatori esterni” che dirigono le proteste, Adam ha citato Al-Arian come unico esempio specifico per sostenere la sua tesi.

Il marito di una delle persone è stato arrestato e condannato per terrorismo a livello federale“, ha detto Adams a “Morning Joe” della MSNBC. “Sapevo che non avrei mai permesso che quei ragazzi venissero sfruttati in quel modo, e molte persone hanno pensato che questa fosse solo la naturale evoluzione di una protesta. Non era così. Si trattava di professionisti“.

Adams ha ripreso il tono e il tenore delle sue osservazioni a “CBS Mornings“, ma a “Morning Edition” della NPR si è spinto oltre, affermando che la presenza di Nahla alla Columbia è stata l’impulso per il raid.

Quello che per me è stato un punto di svolta è stato quando ho saputo che uno degli agitatori esterni, il marito della professionista, era stato arrestato per accuse di terrorismo federale“, ha detto. “Sapevo che non potevo stare fermo e dire che avrei permesso che la situazione continuasse ad aggravarsi. Ecco perché ho deciso di fare irruzione nel campus“.

L’ufficio del sindaco non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento.

I commenti infiammatori del sindaco sulla breve visita di mia madre alla Columbia vengono usati per giustificare la pesante e repressiva irruzione della polizia nella protesta studentesca“, ha dichiarato Laila Al-Arian, figlia di Nahla.

È altrettanto vergognoso che alcuni giornalisti si limitino a rigurgitare queste affermazioni sensazionalistiche che hanno lo scopo di diffamare gli studenti che protestano contro le uccisioni e le mutilazioni quotidiane dei palestinesi a Gaza da parte di Israele“.

In una conferenza stampa del 1° maggio, la polizia di New York ha riconosciuto che Nahla Al-Arian non si trovava nel campus durante le incursioni, ma ha continuato a usare la sua visita della settimana precedente come giustificazione per l’assalto della polizia alle proteste.

La settimana scorsa c’era la moglie di qualcuno che era stato condannato per sostegno materiale al terrorismo nel campus“, ha dichiarato Rebecca Weiner, vice commissario della polizia di New York per l’intelligence e l’antiterrorismo. “Non abbiamo prove di alcun illecito penale da parte sua, ma non è una persona che vorrei influenzasse mio figlio se fossi un genitore di qualcuno alla Columbia“.

La campagna diffamatoria contro Nahla si è diffusa in lungo e in largo in rete, in particolare nei media di destra e nell’ecosistema dei social media. L’attore israeliano Noa Tishby ha pubblicato un video con la foto della visita di Nahla alla Columbia e ha falsamente affermato che era stata “condannata per connessioni con il finanziamento del terrorismo“. Nahla non è mai stata condannata o accusata di alcun reato.

Il New York Post ha pubblicato un articolo con il titolo: “La moglie del terrorista condannato Sami Al-Arian frequentava l’accampamento della Columbia prima del drammatico raid“.

Per Nahla e la famiglia Al-Arian, nulla di tutto ciò è davvero sconvolgente. Hanno sopportato più di 20 anni di sorveglianza e processi che hanno allontanato e disperso la famiglia, continuando una lunga storia di ciò che è accaduto a loro e ad altri palestinesi negli ultimi 75 anni. Gli stessi Al-Arian sono discendenti di palestinesi espulsi dalle loro case durante la Nakba del 1948.

Anche se esprimono indignazione per come Nahla è stata diffamata, la famiglia Al-Arian è pronta a sottolineare che le loro sofferenze impallidiscono rispetto a quelle dei palestinesi di Gaza, comprese le decine di membri della loro famiglia che sono morti in una guerra israeliana alimentata dal governo degli Stati Uniti.

Mi sento arrabbiata perché vengo usata per fare del male a quegli studenti, per trovare una scusa per invadere la loro casa e per arrestarli. E così mi sento male“, ha detto Nahla.

È anche una distrazione dal genocidio che sta avvenendo a Gaza. Concentrarsi su una cosa stupida come questa – distrae la gente in modo che non pensi a ciò che sta accadendo a Gaza. Le uccisioni che continuano a verificarsi ogni giorno, ogni minuto, quella distruzione. Non posso crederci. Si concentrano sulla mia storia e ignorano la storia più deprimente, che è l’uccisione di persone innocenti. È vergognoso”.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *