Il 15 settembre del 2008, Lehman Brothers, la quarta più grande banca d’affari degli Stati Uniti, dichiarava bancarotta, facendo deflagrare la più virulenta crisi finanziaria ed economica globale dalla Grande Depressione del 1929.
Se dovessimo scegliere una data “periodizzante” per l’inizio della fine dell’Impero Americano, dovremmo optare per quella, mentre se dovessimo indicare un aspetto eclatante in cui si è manifestata apertamente dovremmo ricordare la gestione criminale dell’emergenza pandemica sotto Trump, o l’incapacità degli USA di superare il razzismo strutturale derivato dal proprio “passato” schiavistico.
Se gli avvenimenti legati alla pandemia ed alle mobilitazioni successive alla morte di George Floyd, al netto della rimozione strutturale che le élite occidentali tentano di fare di fatti epocali, sono più freschi nella memoria, forse occorre ricordare meglio quelli di più di 15 anni fa.
Il rialzo dei tassi d’interesse dall’anno precedente (2007) e lo sgonfiamento della bolla immobiliare, avevano fatto crollare i prezzi del real estate con molti dei debitori che avevano avuto accesso ai mutui senza dovere fornire di fatto garanzie. Ad un certo momento, non furono più in grado di pagare le rate del mutuo con gli immobili che non valevano quanto il prestito ipotecario contratto per acquisirli.
Talvolta per la vergogna del proprio fallimento individuale, i detentori insolventi del mutuo lasciavano la “casa dei sogni” il giorno prima del pignoramento, trasformando in deserti abitativi i frutti dell’urban sprawl e alimentando quello stato di malessere che covava già nelle zone de-industrializzate della “Cintura della Ruggine” così come nelle campagne mangiate dall’agro-business e nei ghetti dimenticati delle metropoli in stato di abbandono.
La generosità nel concedere i cosiddetti mutui subprime non derivava da una particolare filantropia degli istituti di credito nel volere dare un tetto di proprietà a chi non l’aveva, ma dal fatto che questi venivano “impacchettati” e resi particolari veicoli di investimento finanziario chiamati derivati, appunto, attraverso le cartolarizzazioni.
Queste che in gergo venivano chiamate “salsicce” erano particolarmente appetibili per il mercato finanziario e valutate dalle agenzie di rating statunitensi tra i migliori investimenti attraverso il massimo del giudizio con una “tripla A” e quindi lautamente consigliate a chiunque fosse investitore, anche se nessuno sapeva esattamente valutare su cosa poggiassero.
E attraverso il sistema delle “porte girevoli” e l’osmosi tra politica e big business, nessuno trovava niente da dire a riguardo.
Questo gigantesco castello di carte crollò ed insieme a lui l’affidabilità di un sistema economico basato sul “I Make money with money” , per citare la famosa battuta del protagonista di uno dei film di culto del yuppismo dilagante degli Anni Ottanta, 9 settimane e 1/2.
La droga finanziaria e la rendita tossica non avevano risolto, ma invece avevano acuito le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, né fatto superare – ma anzi ampliato – i limiti del processo di valorizzazione.
Ed è una strana casualità che da ex sex symbol in 9 settimane e 1/2, Micky Rourke, proprio nel 2008, ha interpretato un wrestler che, ben oltre la fine carriera, cerca di rilanciarsi intensificando gli allenamenti ed iniettandosi abbondanti steroidi per affrontare il temibile “Ayatollah”, finisce per avere un infarto e deve sottoporsi ad un intervento chirurgico per impiantare un bypass nell’arteria coronaria.
Potenza dell’arte!
Il fallimento di Lehman ed il crollo di AIG, la più grande compagnia di assicurazioni al mondo, hanno causato un infarto finanziario che quasi provocò il collasso del sistema economico nel centro di quella particolare dell’economia-mondo sviluppatasi con la globalizzazione neo-liberista per più di un quarto di secolo, ed a cascata provocò una recessione globale da cui l’Occidente non è ancora uscito.
Il “salvataggio” di ciò che non era fallito ma era fortemente deteriorato – viste le interconnessioni di un sistema tanto complicato quanto fragile – ad opera dei governi e degli istituti finanziari, ed il ripristino di alcune regole più stringenti, hanno tappato le falle di una nave che rischiava di andare alla deriva – a discapito della maggior parte della popolazione che ha sperimentato l’austerity anche nel Vecchio Continente – ma non hanno mutato lo scafo di una barca che da lì in poi avrebbe attraversato le tempeste di un mondo in forte trasformazione che ha incominciato ad interrogarsi sulla capacità di tenuta, anche interna, degli USA.
Un mondo dove soggetti statuali più ancorati ad una economia reale in forte sviluppo – la Cina – o in ripresa – come la Federazione Russa – risalivano la catena del valore a livello mondiale, mettendo in discussione quello scambio diseguale, su cui si erano ancorate le dinamiche economiche complessive della globalizzazione neo-liberista, e la subordinazione politica a cui erano state soggette nella ridefinizione delle gerarchie mondiali dalla fine del mondo bipolare.
Certo un’architettura finanziario-commerciale costruita sulla supremazia del Dollaro ed il complesso militar-industriale statunitense, rimanevano – e rimangono in parte – i pilastri del dominio statunitense nell’era del piano inclinato della loro egemonia, ma anche quel dominio sta subendo pesanti sconfitte: le gabbie interpretative dell’ideologia dominante hanno sempre più difficoltà a dare una lettura deformante e convincente dei vari punti di caduta sistemici degli Yankees.
Dalla crisi dei mutui subprime – dalle sue conseguenze – è maturata una profonda crisi di legittimazione dell’establishment politico statunitense, alimentata anche dall’allargamento delle fratture – mai ricomposte – all’interno del corpo sociale degli USA, e prodotto delle contraddizioni del capitalismo statunitense.
Una profonda crisi di legittimazione dovuta anche alla difficile riconfigurazione del ruolo degli Stati Uniti in un mondo che non assicurava più la funzione di gendarme in una situazione che già i neo-con avevano prefigurato essere piuttosto complicata essendo, gli USA, rimasti ad un certo punto “soli al comando” e senza un nemico tangibile.
Dentro questo “sommovimento interno” erano stati liberati i demoni che rendevano obsolete le opzioni politiche centriste sul campo di entrambi i partiti che avevano dominato la scena statunitense, producendo due “outsider” rispetto all’establishment politico consolidato: Bernie Sanders per i democratici, e Donald Trump per i repubblicani.
Due “varianti populiste” – il suprematismo bianco in chiave WASP da un lato ed la tradizione progressista del movimento operaio dall’altro – che in un momento di crisi di rappresentatività, ripescavano due filoni politici opposti e antitetici che avevano caratterizzato la storia statunitense e che riemergevano come fiumi carsici.
Mentre Trump ha fagocitato il Grand Old Party, Bernie Sanders dopo avere tentato l’assalto all’establishment democratico per due volte attraverso le primarie ha perso, ed in fine si è allineato come buona parte del “nuovo movimento operaio” nord-americano. L’apparato democratico ha vinto al prezzo di scommettere sull’unico candidato rimasto che sembrava potere sbarrare la strada al socialista del Vermont nelle primarie del 2020, ovvero Joe Biden, ex vice di Obama a fine carriera.
Come possibile staffetta a Biden, poi, è stata scelta una vice-presidente che ha rivaleggiato ampiamente con Sleepy Joe in quanto a gaffes e castronerie, segno che si è inceppato il meccanismo di riproduzione della classe dirigente di qualità.
Se la campagna elettorale presidenziale precedente è stata caratterizzata da una forte polarizzazione per così dire “esplosiva”, ora questa potrebbe avere un profilo più “implosivo”.
La mancata capacità da parte dell’establishment nord-americano di assicurare una governance adeguata all’esterno, si sposa sempre più infatti con l’incapacità di governare i processi politico sociali al suo interno proprio perché le fondamenta dell’edifico sono marce e non può che produrre ai piani alti una stirpe di maniaci incapaci.
Maniaci incapaci di tenere in piedi i pezzi di un sistema alla deriva, tra l’altro senza essere travolti dagli stessi spiriti che hanno evocato come probabilmente è capitato a Trump.
Due numeri su quello che sembra essere uno dei fenomeni su cui si è concentrata l’attenzione dopo l’attento a Donald Trump danno l’idea di una delle tante piaghe che affliggono gli USA: la morte di 48204 persone nel 2022 sono legate alle armi da fuoco, un americano su cinque ha almeno un membro della propria famiglia che è deceduto a causa dell’uso di armi (compresi i suicidi), più della metà della popolazione ha vissuto direttamente o indirettamente un avvenimento implicante l’uso di un arma, e dal 2020 la prima causa di decesso tra bambini ed adolescenti negli Stati Uniti è dovuta alle armi da fuoco, superando gli incidenti stradali.
Difficile sorprendersi di ciò che è accaduto, e di ciò che accadrà vista la miscela esplosiva che abbiamo di fronte e la non propria peregrina ipotesi del riaccendersi della violenza dell’alt-right che ha sposato la causa di Trump.
Vengono in mente le parole di un soldato che risponde alle domande della protagonista dell’ultimo distopico, e allo stesso tempo realistico, film di Garland, Civil War sulla frantumazione degli USA in cui è difficile capire chi è contro chi e perché ma dove il livello generale della violenza è quello che gli Stati Uniti hanno riversato verso mezzo mondo. “Guarda che nessuno ci da gli ordini. C’è qualcuno che ci vuole uccidere e noi vogliamo uccidere lui”.
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Andrea CV
Clinton per avere i voti degli elettori meno abbienti, diede mano libera alle Banche Investimento du concedere mutui a chi non li poteva onorare, ma diventavano cartolarizzabili se x i.primi 6 mesi venivano rispettati
Le Banche finanziavano le 6 rate, trasformandoli.in.AA+, quindi macinabili nrlle salsicce tossiche