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Le ambizioni di Erdoğan

Intervista a Murat Cinar. Murat Cinar vive in Italia da oltre vent’anni. E’ un giornalista esperto di Turchia, suo Paese natale, e di Medio Oriente. Collabora con diverse testate giornalistiche, sia in Italia che in Turchia, tra le quali Il Manifesto. Con un occhio fisso sulla politica di Erdoğan, ha tracciato la situazione attuale dei curdi in Turchia e il ruolo che Ankara intende giocare nella regione mediorientale.

Quali sono i rapporti apparenti tra Israele e Turchia e quali invece quelli sotterranei?

Apparentemente il governo centrale turco, sostenendo direttamente e concretamente Hamas, inclusi i dirigenti, e non definendola organizzazione terroristica, sembra schierato in modo chiaro contro Israele, contro Netanyahu e i suoi ministri. Dichiara che Israele è uno stato terrorista, che sta commettendo un genocidio. La Turchia si è affiancata all’accusa mossa dal Sudafrica nel processo presso la ICJ (Corte Internazionale di Giustizia) contro Israele. Ci sono dunque elementi per sostenere che appoggia non solo la Palestina ma addirittura Hamas. Il governo ha anche ammesso che sta curando più di mille militanti di Hamas negli ospedali turchi.

Però ci sono altri elementi che dimostrano che tra Turchia e Israele ci sono forti relazioni commerciali, come il commercio di acciaio, di filo spinato, di energia, di alimenti per i militari israeliani al fronte e molto altro. Nonostante in apparenza i rapporti tra Israele e Turchia siano tesi, Netanyahu non blocca l’ingresso delle navi turche nei porti israeliani e il commercio tra i due Stati non è mai cessato, nemmeno ridotto. Quindi la Turchia in qualche modo sostiene de facto le operazioni militari, l’isolamento dei palestinesi e la loro espulsione. Fino a qualche anno fa c’erano persino accordi militari.

Non c’è dubbio sul fatto che la Turchia abbia portato alcuni aiuti umanitari in sostegno al popolo palestinese e a Hamas. L’ha fatto attraverso le organizzazioni religiose, effettuando un pagamento allo Stato di Israele, come fanno anche le ONG statunitensi e italiane. Questo avveniva anche prima di Erdoğan. Con la sua presidenza però Hamas ha trovato più spazio e più visibilità pubblica. I leader di Hamas partecipano a feste di politici turchi, intervengono nel parlamento turco e altro ancora. In Turchia sono cresciute le associazioni fondamentaliste che raccolgono soldi per le organizzazioni fondamentaliste e armate in Palestina. Questi finanziamenti vengono fatti in modo non tracciato. Forse questo fenomeno esisteva anche prima di Erdoğan, ma non in modo così consistente.

Con Erdoğan la Turchia ha poi intensificato i rapporti con il Qatar e entrambi i Paesi hanno abbracciato Hamas. Il Qatar lo arma e ospita i suoi leader e la Turchia invece li ospita per darne risalto politico. Militarmente, ideologicamente ed economicamente la Turchia e il Qatar hanno sempre sostenuto Hamas nel corso del tempo.

Come vive Hamas questa contraddizione che vede la Turchia usare toni molto accesi contro Israele e poi però proseguire nelle relazioni commerciali che facilitano la guerra di Israele su Gaza?

Hamas non mette in discussione la solidarietà della Turchia al popolo palestinese e non trasforma in un problema i rapporti tra Turchia e Israele. Nei suoi comunicati denuncia quei Paesi che continuano a avere rapporti commerciali con Israele ma non cita mai la Turchia. Hamas tiene la bocca chiusa perché ha bisogno di un alleato grande e importante come la Turchia, che potrebbe aiutarlo a trattare e a trovare delle soluzioni alla guerra in corso. Oggi si parla della possibilità dei dirigenti di Hamas di trovare rifugio in Turchia. Hamas, come ho già detto, è di casa in Turchia. C’è un atteggiamento molto pragmatico.

Hamas sta vincendo per certi versi ma perdendo sul lungo periodo. lo stesso vale per Israele.

Come interpreti il comportamento dei Paesi arabi in questo tragico contesto che vede Gaza ormai da più di sette mesi sotto un incessante fuoco israeliano che ha raso al suolo la Striscia?

I paesi arabi che manifestano la solidarietà ai palestinesi in realtà non se ne occupano troppo della questione e questo comportamento ha portato alla situazione attuale. 

Gli accordi di Abramo tra i Paesi arabi e Israele avevano come fine, in primo luogo, il ripristino delle relazioni militari e commerciali tra i firmatari; mentre si è scelto di rinviare la questione palestinese, seppure se n’è discusso, a un secondo momento. Il Marocco e gli Emirati Arabi hanno firmato gli accordi dicendo che avrebbero condotto a un cambiamento. Tutti hanno portato a casa il risultato più utile per loro ma non per i palestinesi.

L’intervento di Hamas del 7 ottobre scorso era latente, ma non riesco ad avere una posizione netta e chiara su quegli eventi. Potevamo aspettarcelo nel 2020 è nel 2023. In altri momenti magari meno, però non è nato tutto il 7 ottobre. Anche se è vero che è avvenuto dopo un anno da questi accordi, è difficile dire se sia stata un’azione di sabotaggio degli accordi di Abramo. Per il momento non ho ancora ben chiaro lo scenario che sta dietro al 7 ottobre. Occorre aspettare che emergano più informazioni. 

Posso dire però che tanto il nazionalismo quanto il fondamentalismo non vogliono la fine della guerra perché questi esistono grazie al conflitto armato e al disagio sociale. La fine di un conflitto armato colpisce anche le formazioni militari che vivono di queste contrapposizioni.

 

Qual è il ruolo che Erdoğan vuole giocare sullo scacchiere mediorientale e come pensa di poterlo realizzare?

Erdoğan è stato bravo in questi ultimi vent’anni a collegare la politica interna a quella estera. Su ogni fronte ha provato a costruire un percorso di successo, colto da pochi. Nel momento in cui subisce una sconfitta a livello locale fa un’inversione a U in quella estera per portare a casa l’immagine di un governo che ha ottimi rapporti con il resto del mondo. Si assicura di attrarre nel Paese soldi, investimenti e rispetto a livello internazionale. La risposta al calo di consensi interni la risolve spingendo sulle relazioni internazionali. 

Di esempi ce ne sono tanti, come quando ha fatto la voce grossa contro l’Unione Europea per la questione dei migranti, minacciando di spedire i rifugiati in Europa se questa non avesse pagato quello che la Turchia chiedeva. Si rivolgeva soprattutto al suo interno, ossia diceva al popolo turco che i rifugiati sarebbero restati in Turchia ma a spese e con i soldi degli europei. Il tema migratorio per lui è un problema perché gli porta poco consenso. I turchi non li vogliono e i partiti xenofobi si fanno avanti, hanno iniziato a parlare anche di deportazioni. Erdoğan ha giocato benissimo la carta a livello internazionale con l’Europa, grazie anche all’insuccesso della dirigenza europea che ha costruito un rapporto di dipendenza con il presidente turco. Germania, Francia e Italia si sono fatte tutte ricattare da lui.

E’ significativa l’inversione di marcia che il presidente turco ha fatto con Salih Muslim, leader del PYD (Partito dell’Unione Democratica), attivo nella Federazione del Nord della Siria, che nel 2013 veniva accolto con il tappeto rosso a Ankara e a Istanbul, e dopo solo due anni si è ritrovato nella posizione di nemico. Contro di lui è stato avviato un processo in Turchia e spiccato un mandato di cattura dell’Interpol nel 2016 per attività terroristica. Era finita quella fase. Non era più necessario tentare la normalizzazione dei rapporti e mostrare una parvenza di democrazia nella Repubblica di Turchia, perché Erdoğan ha visto che le YPG e le YPJ, le formazioni armate dei curdi nel Rojava, nel nord della Siria, acquistavano consenso internazionale grazie alla loro lotta contro l’ISIS. A quel punto ha deciso di indietreggiare perché quell’apertura non gli rendeva più e gli creava problemi interni.

Per spiegare con un altro esempio le sue inversioni di marcia è sufficiente vedere cosa è capitato nel 2016 con il tentativo di golpe contro di lui. I giornali e il governo hanno iniziato ad accusare gli Emirati Arabi di essere dietro alla manovra, seppure non sia stata fornita una sola prova a sostegno della tesi del loro coinvolgimento. Due anni fa i rapporti con gli Emirati sono stati ripristinati, hanno addirittura conosciuto una stagione luminosa con esercitazioni militari congiunte. 

Anche con Barzani, che è presidente del Kurdistan iracheno e leader del PDK (Partito Democratico del Kurdistan), la base è l’affarismo. Barzani ha rinunciato all’indipendenza del Kurdistan iracheno, cavallo di battaglia del padre, che è stato una delle figure importanti del PDK. Ha capito che così può avere un buon rapporto con la Turchia e fare affari e a Erdoğan va molto bene, nonostante i problemi che ci sono nell’area.

Egitto (1), Barzani, Emirati Arabi sono tutte inversioni di marcia. Adesso forse ce ne sarà un’altra con Bashar al-Assad. Da un paio d’anni si parla di inizio dei rapporti di normalizzazione tra la Siria e la Turchia e Erdoğan si è reso disponibile all’apertura, facendo intrattenere relazioni tra i servizi segreti turchi e quelli siriani. E’ passato dal denunciare al-Assad di essere un macellaio alla trattativa sul ripristino delle relazioni, senza che nulla sia cambiato nei fatti, ossia al-Assad è sempre lo stesso. 

La gestione delle relazioni internazionali, oltre a puntare a un successo in patria, è volta anche a favorire la famiglia di Erdoğan che ha interessi economici e commerciali di cui si avvantaggia quando vengono stretti rapporti con gli altri Paesi, come gli Emirati Arabi. Ci guadagna la sua famiglia e le persone a lui vicine che così lo sostengono.

Qual è la situazione attuale per i curdi in Turchia e come prevedi che possa cambiare lo scenario politico da qui fino alle prossime elezioni presidenziali, dopo le recenti elezioni presidenziali e amministrative che hanno visto l’AKP, il partito di Erdoğan, fortemente in difficoltà?

La Turchia è uno stato nazionalista, imperialista e sciovinista. Erdoğan porta avanti questa cultura. Le scelte di Ankara in merito ai curdi hanno due approcci: uno è molto pragmatico, opportunista, affarista e che trova attori, complici e protagonisti sia all’interno che all’esterno del Paese. Il partito più votato dai curdi è quello di Erdoğan. Il territorio a sud-est è molto militarizzato ma anche vittima di una urbanizzazione e industrializzazione enormi grazie a Erdoğan ma anche al mondo della cultura, dell’arte e dell’impresa curda che collabora con lui. Il presidente turco, a differenza dei governi degli anni ‘60, ‘70 e ‘80 non ha un approccio palesemente razzista, non vuole negare l’esistenza dei curdi, sicuramente ha dei limiti in merito al riconoscimento di diritti autonomi in senso lato a favore dei curdi ma è felice di camminare con quei curdi che gli tornano utili. Ci sono moltissimi sindaci, parlamentari, ministri e consiglieri comunali curdi che fanno capo a Erdoğan. Questi politici curdi non rivendicano il diritto a parlare la lingua madre né che si possa fare la registrazione dei nomi in lingua curda nei registri anagrafici.

Questa relazione la mantiene con alcuni curdi anche all’esterno, tanto in Siria quanto in Iraq. Anche qui si avvale di “curdi utili”, dialoga con taluni partiti curdi e chiude le porte ad altri. Ovviamente la scelta di tenere un comportamento positivo dipende dagli interessi che condivide con certe culture imprenditoriali e amministrative, mentre porta avanti delle vere e proprie crociate, usando la sua forza militare e economica, contro i curdi che gli sono contro, in particolare all’estero contro quei partiti che hanno il braccio armato oppure esprimono simpatia nei confronti di queste formazioni ribelli. 

Lo stesso atteggiamento lo tiene in Turchia. Dopo aver quasi cancellato la presenza delle formazioni militari curde nel Paese, adesso è passato alla cancellazione di quelle formazioni parlamentari e politiche che chiedono il riconoscimento e la garanzia dei diritti dei curdi a livello legislativo e costituzionale. Purtroppo non è solo Erdoğan a farlo ma anche i suoi alleati come Huda-par, partito curdo fondamentalista, e gli altri partiti estremisti e nazionalisti. 

Attualmente porta avanti la sua crociata contro il DEM (Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli), prima HDP (Partito Democratico dei Popoli). Proprio sabato scorso il co-presidente dell’HDP, Selahattin Demirtas, e la co-presidente, Figen Yüksekdag, sono stati condannati rispettivamente a 42 e 30 anni di prigione. Altri sono stati scarcerati per gravi problemi di salute e altri ancora hanno abbandonato la barca e si sono schierati con Erdoğan e quindi sono stati assolti. Il “curdo utile” viene premiato perché il presidente turco sa che deve aumentare la sua simpatia tra l’elettorato curdo, che è generalmente molto conservatore, con una cultura feudale ed è figlio di una tradizione anticomunista storica che è alle basi fondatrici della Repubblica di Turchia. Erdoğan lavora alacremente su questo.

Certo non capitano le cose che avvenivano negli anni ‘90, ossia un sindaco curdo che gli sia contro non viene ammazzato ma in compenso viene condannato a tanti anni di galera, subisce la censura, viene rimosso dal suo incarico e sostituito da un commissario straordinario, finisce in esilio, viene privato del diritto di circolazione, il passaporto viene requisito e i beni confiscati. In questo modo obbliga le persone a lasciare la Turchia.

Dopo il tentativo di dialogo con i curdi del 2015, che era parzialmente un gesto positivo, Erdoğan ha realizzato che con la nascita dell’HDP ci sarebbe stato spazio per la trasformazione democratica della repubblica, sia per i curdi che per i turchi perché questo partito è stato un eccellente esempio di unione tra la componente socialista e quella comunista turca e curda. Hanno dimostrato di essere capaci di trovare un accordo per collaborare e per dare vita a un partito che è arrivato quasi al 16%. A quel punto Erdoğan ha realizzato che non era la soluzione che voleva lui. 

Nel 2015 Erdoğan si è preso uno schiaffo elettorale ed è andato in difficoltà con gli alleati proprio quando era all’apice della trasformazione della giustizia per piegarla ai suoi interessi. Ha avuto una grande paura, dovuta anche a quanto aveva assistito l’anno prima, quando ha visto i figli di alleati e persone vicine a lui finire sotto indagine. Ha temuto che se avesse perso il potere o addirittura non fosse stato rieletto avrebbe potuto subire anche lui un’inchiesta e andare in prigione. Così ha lanciato la crociata contro l’HDP, che era cresciuto molto, e poi nei confronti di quegli alleati che lo stavano abbandonando. Da quel momento governa la Turchia con questi due principi: la trasformazione dittatoriale di tutti i sistemi burocratici (istruzione, polizia, servizi segreti, esercito, giustizia, etc.) e l’eliminazione totale di tutte le voci dell’opposizione, in primis l’HDP, naturalmente.

Cosa ci possiamo aspettare?

Non credo ci saranno cambiamenti né a livello nazionale né sul piano internazionale. Penso che la repressione delle anime socialiste e comuniste curde proseguirà mentre continueranno le collaborazioni con i “curdi utili”, che anzi si consolideranno sia all’interno che all’esterno della Turchia.

Nota: (1) A febbraio 2024 sono riprese le relazioni tra Turchia e Egitto, interrotte nel 2013 a seguito del colpo di stato in Egitto e l’arresto dell’ex-presidente Mohammed Morsi, vicino a Erdoğan.

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