Nella culla europea della democrazia moderna – la Francia – è stato decretato, per decisione unilaterale del banchiere Emmanuel Macron, che vincere le elezioni non basta e non serve. Per assumere responsabilità di governo bisogna seguire pedissequamente le direttive del grande capitale (“i mercati”), altrimenti ci si mette di lato, zitti e buoni, e si lascia fare a qualcun altro.
Macron ha concluso ufficialmente la prima tornata di consultazioni – una novità assoluta, nel sistema politico francese, determinata da risultati elettorali che non hanno assegnato la maggioranza assoluta a nessuna coalizione (nonostante la legge elettorale più “maggioritaria” che si conosca) – affermando che «un governo sulla base del solo programma e dei soli partiti proposti dall’alleanza che ha più deputati, il Nuovo Fronte Popolare, sarebbe immediatamente censurato dall’insieme dei gruppi rappresentati all’Assemblée Nationale».
Dimentica naturalmente di ricordare che questa era proprio la condizione del “suo” governo, guidato prima da Borne o poi da Gabriel Attal, costretto a raccattare i voti “al bisogno” dai gollisti e/o da Marie Le Pen.
Di fatto Macron ha deciso che “la sinistra non deve governare”, e implicitamente ha ammesso che la seconda tornata di consultazioni servirà a convincere il centro e la destra fascista a trovare un accordo per formare una maggioranza.
Insomma, “l’economia” tollera benissimo un governo di nostalgici dell’Impero, ma non accetta neanche l’ombra di un “riformismo” vecchio stile, quello orientato a garantire almeno un minimo di welfare e diritti sociali.
Di fonte a una simile enormità, che svuota in un attimo tutta la retorica neoliberale sui “valori democratici”, la France Insoumise ha confermato di voler presentare una mozione per la “destituzione” del presidente, preannunciando comunque una mozione di sfiducia contro qualsiasi proposta di primo ministro diverso da Lucie Castets, la figura individuata dal Nuovo Fronte Popolare (Nupes, formata da socialisti, La France Insoumise, Comunisti e Verdi).
Sono passati 50 giorni dalle elezioni, sono passate anche le Olimpiadi (utili solo a imporre una “tregua”), e la situazione resta bloccata. Il terrore di Macron e della confindustria francese è che un governo anche moderatamente “popolare” metta in discussione le controriforme neoliberiste imposte alla Francia negli ultimi sette anni. Cui si sono duramente opposto molti movimenti sociali (dai Gilet Gialli ai sindacati, visto che la Cgt non somiglia più molto alla Cgil italiana).
Il peso negativo degli “imprenditori” è stato esplicito. il presidente DI Medef (la Confindustria d’Oltralpe), Patrick Martin ha invocato l’imposizione del «primato dell’economia nel dibattito e nella decisione politica». Che è anche stato tradotto in negazione assoluta dell’intero programma della sinistra: no all’abrogazione della riforma delle pensioni, no all’aumento del salario minimo a 1.600 euro (altrimenti si minaccia una marea di licenziamenti e quindi la disoccupazione di massa), no all’aumento delle tasse e alla reintroduzione della la patrimoniale, no alla soppressione o revisione del credito di imposta per la ricerca, ecc. Sì, ovviamente, alla politica pro-business perseguita finora.
Lo stallo, insomma, continua. Macron prende altro tempo con la scusa dell’apertura dei giochi paraolimpici, ma l’unica sua speranza concreta è che i socialisti accettino di rompere la coazione pregressista. Altrimenti restano due sole strade: un governo con dentro i fascisti di Le Pen oppure nuove elezioni politiche.
In ogni caso, la Francia non sarà più la stessa.
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